Calda-calda, appena uscita dal forno Media Inaf, eccovi la mia recensione di un libro davvero interessante

SZ
Calda-calda, appena uscita dal forno Media Inaf, eccovi la mia recensione di un libro davvero interessante
SZ
VIAGGIO AL TERMINE DELLA QUARANTENA
Doveva succedere.
Lo sapevo, lo sapevamo tutti, e per certi versi lo attendevo (lo attendevamo): il lockdown è oramai finito.
Da domani sarà una specie di apertura delle gabbie, anche se con limitazioni, preludio di una apertura ancora più radicale che credo non tarderà ad arrivare e che non farà altro che assecondare le libertà che tutti, spontaneamente e contravvenendo alle non sempre chiare disposizioni, si prenderanno.
Quando ho iniziato a scrivere mi ero posto proprio l’obiettivo di smettere con la fine della quarantena, tramutatasi poi in cinquantacinquena. Ho tenuto fede all’impegno di scrivere e terrò fede all’impegno di smettere di farlo.
O meglio, continuerò a scrivere, è ovvio che lo farò, ma terrò un ritmo più consono alla vita di chi non fa certo il blogger di professione (non sarebbe male, ma i numeri di visualizzazioni che totalizzo non mi permettono di farmi illusioni: non è la mia strada).
Tornerò quindi agli argomenti a me cari, quelli che trovate elencati nella ricetta sotto il nome di questo spazio, tralasciando altri più personali cui spesso, in questi giorni di clausura, mi sono abbandonato in un outing forse più da social che da blog.
Smetterò con queste cronache anche perché so già che dovrò dedicarmi ad altro: da domani inizierò ufficialmente a lavorare alle illustrazioni del mio nuovo libro su mito e costellazioni che uscirà a breve con la casa editrice Carta Bianca Publishing e poi dal 15 ricomincerà la mia avventura in INAF bruscamente interrotta il 6 Novembre del 2018.
Ho infatti vinto un altro Assegno di Ricerca all’Osservatorio Astrofisico di Catania dove però, per ovvi motivi, non potrò andare, che mi porterà a lavorare in smart working qui da Bologna: in qualche modo sarà una attività simile a quanto ho fatto fin qui; un prolungamento della clausura lavorativa cui oramai sono avvezzo.
Non avrò certo di che annoiarmi: nel frattempo, infatti, continuerò a girare i miei video di divulgazione astronomica, studierò nuovi brani musicali, riprenderò a fare i miei fumetti e lavorerò a un altro libro ancora che uscirà nel 2021 e di cui presto vi dirò.
Mi spiace solo che la fine della quarantena sia arrivata così presto perché, come ho già abbondantemente spiegato in questi 55 giorni, confidavo che, se fosse durata di più, avrebbe potuto apportare cambiamenti epocali al nostro modo di vivere e pensare.
Mi consolo, quindi, dicendomi che l’ho vissuta al meglio anche se un interessante articolo letto proprio oggi sul Domenicale del Sole 24 Ore (Una bella confusione di idee) mi spinge a rimettere tutto in discussione, spiegandomi che forse ho preso una gran cantonata.
In esso l’autore, il filosofo Roberto Casati, elogia proprio quella cacofonia di punti di vista che ho spesso condannato da questo mio spazio virtuale, spiegandoci come da un punto di vista epistemologico sia da ritenersi “una ricchezza da non disperdere”.
Auspica, poi, l’emersione di un “livello istituzionale nuovo” e non posso che essere d’accordo, sempre che io abbia capito davvero a cosa si stia riferendo.
Insomma, pare proprio che sia il caso di lasciare il campo per avere modo di osservare come le idee si riorganizzeranno dentro e fuori la mia testa.
E spero davvero che almeno quelle fuori si riveleranno essere vere idee e non supreme idiozie. In questo secondo caso, infatti, potremmo ritrovarci tutti a vivere una situazione simile a quella che stiamo lasciando (forse prematuramente): una eventualità che mi suggerirebbe di riprendere di scrivere queste amate/odiate Cronache Virus.
Vi ringrazio per aver letto fin qui e vi invito a continuare a farlo anche se smetterò di essere così regolare e frequente nelle mie esternazioni: pubblicherò con la mia solita, forse fastidiosa, intermittenza, scegliendo oculatamente cosa (non) dire e se (non) dirlo.
A presto e in bocca al lupo a tutti!
SZ
TRONCARE LA SERIE
Oggi è lunedì. Lo so con certezza perché è Pasquetta.
Me lo confermano la rete, dove leggo un coro di lamentele per la festività da trascorrere al chiuso, e il fatto che ieri Simone mi ha portato i giornali. Senza questi due appigli mentali, oggi probabilmente oscillerei tra la convinzione di star vivendo una lunga Domenica e il sentore che in effetti potrebbe trattarsi di un lunedì strano, senza scadenze, senza ansie (epidemia a parte, ovviamente).
Una osclillazione mentale che, da modo per misurare il tempo mediante un orologio a pendolo, in un periodo in cui i giorni sono tutti uguali, come i secondi, diventa incapacità di decifrarne il suo reale trascorrere.
In pratica, stamattina sono stato svegliato troppo presto da un incubo (troppa cioccolata!) in un giorno indeciso e lungo, sospeso tra Sole e Luna, che pare avere 24 ore, ma anche 48. Una specie di nuova unità di misura del tempo di una settimana di poco più di tre giorni dilatati.
Allora mi intrattengo con una scorsa a quei giornali e trovo sul Domenicale alcuni articoli davvero interessanti, due dei quali sembrano nati apposta per essere messi in comunicazione reciproca.
Mi ci provo.
Nel primo, il fisico Vincenzo Barone, in un bel pezzo che finalmente non è una recensione, delinea una breve storia dell’uso dell’esponenziale come misura dell’evoluzione temporale dei sistemi fisici e conclude notando che, attraverso il distanziamento reciproco,
quello che si sta realizzando in tutto il mondo è, in definitiva, un gigantesco esperimento di rallentamento del tempo, di dilatazione dell’unità di misura incorporata nell’orologio esponenziale dell’infezione. È anche un esperimento sui numeri; quelli su cui ciascuno di noi sta intervenendo con i propri comportamenti per mitigare gli effetti dell’epidemia. Quando la vita tornerà a essere regolata dai giri di lancette degli orologi, il senso comune de tempo e del numero, forse, non sarà più lo stesso.
Mentre nel Domenicale questo primo articolo si trova nella sezione Scienza e Filosofia, per trovare il secondo dovete sfogliare l’inserto fino a raggiungere la sezione Arte dove fa bella mostra di sé la famosa immagine dell’area newyorkese compresa tra la 21ma e la 64ma strada sull’East River dell’Hudson racchiusa in una bolla trasparente.
Quell’immagine fu creata nel 1960 da Buckminster Fuller il quale, da immenso visionario quale era, immaginò di disseminare simili strutture su tutta la superficie terrestre per raggiungere vari desiderabili scopi come una regolazione fine delle piogge, la pulizia dell’aria cittadina, l’ottimizzazione del clima, ecc.
Una serie di partizioni geografiche, quindi, che, come si ricorda nell’articolo di Fabio Irace – anche in questo caso, non si tratta della recensione di una mostra! – all’epoca in cui furono proposte assunsero importanza ache come possibile aiuto per la protezione dagli effetti indesiderati di esplosioni nucleari e pandemie.
La lettura di questo articolo, a sessant’anni dall’elaborazione di quell’idea rivalutata di recente come ipotesi utile per tentare di dare soluzione all’inquinamento della città di Tokyo, nel mentre sono a letto, avviene qui, all’interno della bolla di casa mia.
Mi accorgo così che l’unica realizzazione architettonica dell’idea di Fuller continua ad essere l’antico spazio domestico nel quale non un quartiere, un distretto o un’area, ma giusto la vita di ognuno di noi risulta contenuta proprio con lo stesso obiettivo, col pendolo delle nostre gambe costretto a oscillare meno.
Non posso allora fare a meno di pensare che se nell’ipotesi iniziale di Fuller quelle bolle dovevano servire a tenere fuori le pandemie come anche gli effetti del decadimento radioattivo dei prodotti delle esplosioni atomiche – entrambi fenomeni la cui evoluzione temporale, come si diceva, trova un’adeguata espressione esponenziale – esse altro non sono se non contenitori di tempo: quel tempo al quale, proprio grazie alla loro presenza, verrebbe impedito di correre esponenzialmente per rallentare e scorrere linearmente, più solidi e melassosi, così come la vita di ognuno dovrebbe fare.
Allora mi torna in mente l’appendice alquanto onirica di un articolo serio che ho pubblicato qualche anno fa, incentrato sull’affascinante tema del tempo, fra gli atti di un congresso su Darwin. Sulla scorta di quel ricordo, immagino architetture-astucci di tempo trasparenti e protettivi, capaci di troncare la serie di Taylor che approssima quelle evoluzioni temporali esponenziali trattenendone al loro interno solo i primi termini, quelli linerari.
All’esterno, troncati, tagliati, amputati, sanguinanti fattoriali, tutti gli altri termini con esponenti via via maggiori guardano minacciosi e famelici la popolazione di esseri umani che sarebbero essenziali per la loro sopravvivenza, per non morire come tempo nel tempo.
A loro volta, i cittadini potrebbero osservare quei tremendi pezzi di serie che, tra il vorace e il disperato, occhieggiano minacciosi scorrendo untuosi sull’esterno delle cupole, incapaci di opporsi allo sfaldamento inesorabile che senza cibo umano li attende.
Mi accorgo che sto scrivendo nel mentre sogno; sono presente solo a metà, uno strano calore mi prende alle tempie e le palpebre tendono a cedere alla gravità: il mio corpo mi sta suggerendo come può di provare a riprendere il sonno da dove è stato bruscamente interrotto da quell’ incubo arrivato alle 5:19.
Di solito capita di svegliarsi e di non riuscire più a ricordare cosa si stava sognando.
Ora invece spero di addormentarmi e di continuare a sognare riallacciandomi agli scenari fin qui descritti esattamente come farebbero i personaggi di una serie televisiva di quelle di cui parlavo ieri.
Scusatemi, torno a vivere il mio film.
Ci risentiamo domani (sarà Martedì, vero?)
SZ
LA CULTURA É UN RESOCONTO?
Uno dei vantaggi offerti dall’abitare da tempo in uno stesso posto è che alla fine si conosce tutti, e tutti ti conoscono. C’è chi, proprio per questo, deciderai di scansare, di ignorare; e c’è chi, proprio per questo, deciderà, forse a tua insaputa, di scansarti, di ignorarti.
Se si riesce ad essere in buoni rapporti con chi nella zona davvero conta, sarai da considerare integrato: uno che, per le frequentazioni e per i dribbling che sa mettere in atto, merita di essere classificato fra coloro che (lì) sanno vivere.
É per questo che mi vanto di avere intessuto qui in zona diverse frequentazioni con quelli che qui hanno un ruolo fondamentale e tra questi c’è Simone, l’edicolante che lavora a duecento metri in linea d’aria da casa mia.
Fino a una quindicina di giorni fa lo incontravo nei fine settimana, quando sia di Sabato che di Domenica partivo da casa mia per andare a piedi a fare colazione lontano da qui, per poi passare da lui nel percorso a ritroso che prevedeva un’ultima tappa nel parco, dovrei buttavo dentro la testa la droga che lui mi passava.
Il Sabato da lui compravo il settimanale Robinson, la Mitologia per bambini che leggo con mio figlio ed eventualmente Le Scienze e Focus Junior: una rivista di divulgazione scientifica dedicata ai piccoli lettori nella quale da un annetto a questa parte viene puntualmente pubblicata una mia piccola illustrazione.
La domenica, invece, era dedicata al Sole 24 ore: un giornale che “sbucciavo” togliendogli la parte esterna di immangiabile economia per gustare il dolcissimo inserto il Domenicale protetto al suo interno
Il rapporto con Simone è negli anni diventato sempre più limpido, sempre più cristallino. La sabbia in sospensione che non ci fa sapere nulla delle vite di chi incontriamo casualmente, nel tempo si è poggiata e ora, guardando attraverso la fluidità della consuetudine, è possibile vedere senza possibilità di sbagliarsi su cosa poggiano i piedi della nostra frequentazione intermittente.
Essa si svolge stando sempre a due metri di distanza, con lui seduto dentro l’edicola ed io in piedi al suo esterno. Nei nostri incontri c’è spazio per l’ironia, lo scherzo, la lamentela o anche – perché no? – il breve discorso vacuo, quello utile a sancire che è festa e che possiamo permetterci di essere lievi e scanzonati.
Lui non si può certo dire che mi conosca, né io conosco così bene lui, ma la sua posizione gli dona un vantaggio su di me e su tutti i suoi clienti in quanto gli abbiamo tutti svelato la conoscenza dei nostri gusti in fatto di riviste e quotidiani: un elemento che nel mio caso credo mi definisca abbastanza bene e che sono felice sia diventato un tratto caratteristico della mia persona. Quello che immagino sia stato speso quando e se Simone ha mai affrontato con altri qualche straccio di discussione nella quale è venuto fuori il mio nome o la mia descrizione fisica.
Bene, da quando è iniziata l’emergenza, dovendo lui passare per andare al lavoro da questa strada dove abito, Simone mi porta a casa le mie riviste. Bussa alla porta, io apro, gli allungo i soldi e lui mette nella mia mano il malloppo cartaceo, la mia dose di letture fresche da consumare inframezzandole ai surgelati che ho nel freezer della mia libreria: in verità una ghiacciaia davvero capiente nella quale ho una scorta di carta stampata che mi potrebbe fare affrontare un intero inverno nucleare senza dover mai mettere il naso fuori.
La continuità di quelle letture, di quei “tranci freschi” – a suo tempo ho dato questo titolo alla categoria di articoli di questo blog con i quali intendevo recensire libri, articoli, spettacoli, dischi – mi ha così permesso di notare qualcosa che forse ad altri era già chiara da tempo, ma della quale non mi ero ancora coscientemente accorto.
Tutti gli inserti culturali dei giornali (dico tutti perché ogni tanto in alcuni bar ho potuto sfogliare anche quelli proposti dagli altri quotidiani) si sono trasformati in pagine di recensioni, appunto.
Non so quando tutto ciò sia accaduto; non so quale sia stato il momento esatto, se di un momento particolare si è trattato, in cui la trasformazione è avvenuta; l’istante esatto in cui è stato attivato lo scambio tra i binari lungo i quali correva veloce il treno del dibattio culturale. Probabilmente si è trattato di un processo graduale, soffice, dai tempi scala evolutivi che ricordano quelli biologici. Comunque sia andata, oramai mi sembra di poter affermare che la realtà sia questa.
Pare quasi che non si possa dire, pensare, litigare su qualcosa se prima qualcuno non ha deciso di rendere quel qualcosa libro, disco, opera, mostra, spettacolo.
Beninteso: la mia non è una lamentela, o perlomeno non lo è del tutto: essendo anche io parte di quella filiera di produzione, non posso certo dolermi di un sistema importantissimo, utile a diffondere la notizia della nascita di un coagulo concreto di idee che abbisogna dell’attenzione del pubblico.
Non posso però fare a meno di denunciare l’assenza di qualcosa per me fondamentale: il pensiero per il pensiero e slegato da logiche aventi a che fare sempre e comunque col prodotto, con l’oggetto, con qualcosa dal valore economico e magari dal peso materiale ben definiti.
Le pagine della cultura che ricordo nei giornali che portava a casa mio padre parlavano di concetti tout court. In quegli articoli, un esperto o qualcuno ritenuto tale si interrogava su un tema importante per il dibattito all’epoca contemporaneo (a volte diventava importante proprio a partire dalla pubblicazione di quell’articolo) e, pur essendoci in essi spazio per citazioni precise di opere già pubblicate e disponibili per la vendita, ad esse veniva affidata una funzione del tutto diversa: bisognava intenderle come indirizzi lungo la strada che avrebbe condotto alla comprensione definitiva dell’articolo e non, come sempre si fa oggi, come indicazioni di un GPS che ti accompagnano fino alla libreria, al negozio di dischi o al botteghino dove poter acquistare il libro, il CD, il biglietto.
Poter pensare slegando ogni tanto la mente dall’oggetto e dal già detto prima da qualcuno, facendo così credere che si possa parlare di idee solo a posteriori, solo quando grazie a un autore e a un editore esse sono diventate solide, credo fosse il polso di una grande libertà intellettuale. Un polso che nessuno prendeva perché non ce n’era bisogno, ma che oggi mi sembra allarmarci con qualche linea di febbre oltre oltre la temperatura normale.
In questa fase storica appena iniziata, le novità culturali in uscita hanno temporaneamente perso la loro appetibilità materiale. L’impossibilità oggettiva di recarsi a vederle appena nate nella loro culla d’ospedale dove alle volte complimentarsi con i genitori durante le presentazioni live organizzate in librerie, locali e centri culturali comporta che si pensi più all’idea del libro che non alla sua forma, al suo peso, al suo umero di pagine.
Forse, allora, proprio a causa dell’emergenza sanitaria, il concetto puro conoscerà una nuova stagione in cui rivendicherà il ruolo di protagonista assoluto della scena che gli spetta anche se, immagino, sarà qualcosa che, sempre che si verifichi, prenderà giusto il tempo necessario per consentire al mondo del mercato culturale on-line di riorganizzarsi.
Nel frattempo è probabile che ci sia spazio per un revival delle idee pure e della ragion pura che le genera. Quella che ogni tanto può e deve necessariamente trascendere dalle altre della ragion pratica, della vendita di prodotti che sono bellissime ma pallide approssimazione della prima.
Ed è così che, grazie alla consegna a domicilio del Domenicale di ieri ho avuto il privilegio di aggiungere un nuovo punto nel mio grafico dell’evoluzione della specie inserto culturale. Ho così modo di rivelarvi che l’osservazione del nuovo campione si è rivelata fruttuosissima in quanto mi ha consentito di assistere in tempo reale alla nascita di una prima gemma primaverile che fa ben sperare per questa timida stagione, per questo cambio biologico dell’editoria.
Il taglio basso di pagina IX, dedicata insieme alla VIII a “Scienza e Filosofia” (pagine che più di altre mi interessano e che quindi ho monitorato con maggiore attenzione negli ultimi anni), è occupato dal timido ma garbato articoletto di tale Nunzio Galantino intitolato “C’è buio, ma sorgerà la luce”.
L’ho letto, scoprendo così che non si riferisce a niente che non sia la semplice e pura analisi del concetto di buio e di tenebra. Sì, lo so: potrebbe essere considerata la metafora della recensione del tempo che viviamo (e in effetti lo è), ma è proprio quello che mi aspetto da un articolo di un inserto dedicato all’analisi del presente e non alla sua cronaca pedissequa.
Ho deciso di non proporvi qui il suo riassunto perché temo che se lo facessi, mi troverei a buttare giù un numero di battute confrontabile con quello di quel breve scritto, ma sono qui, gaudium magnum!, a dirvi… recensendolo, che esiste! Che è nato!
L’analisi del buio diventa forse scaturigine di nuove possibilità e rimanda veloci all’Erebo, al Tartaro di esiodea memoria dal quale si spera riemergerà una nuova, Gaia, entusiasmante stagione di pensieri in libertà: pensieri figli di Crono, figli del tempo che stiamo vivendo e che si opporrano all’opprimente onnipresenza del paterno (per noi autori) mercato con le sue regole invasive e Uraniche.
SZ
Ieri sera ho opposto una strenua resistenza alle lusinghe del letto e, nonostante l’ora (erano le 21:00), tre uova strapazzate, una insalatona, mezzo bicchiere di vino rosso e una mela che hanno tentato per tutto il tempo di riportarmi gravitazionalmente sul divano, ho optato per il cinema.
Andare a vedere film di fantascienza, da astrofisico-divulgatore-ecc, lo considero un dovere che qualche volta si rivela pure un piacere. In ogni caso, io DEVO vedere queste produzioni, altrimenti di cosa parlo alle feste?
Sono andato da solo: il tentativo compiuto alcuni giorni fa di trovare qualcuno interessanto a vedere Ad Astra aveva sortito effetti così deludenti da non voler provare più il sapore della sconfitta, e ho preferito tenermi in bocca quello della cena decidendo così di andare in mia compagnia: ieri sera, almeno, ero abbastanza d’accordo con me stesso (anche se il divano…) e non potevo lasciarmi sfuggire la rara occasione.
Arrivato lì, ho scoperto che molti altri avevano invano invitato gli amici: eravamo davvero in pochi, riuniti in una sala enorme di un cinema dal nome che è esso stesso glorificazione della fantascienza: The space.
È per questo che proprio non capisco come mai le poche persone presenti avevano tutti posti assegnati gli uni vicini-vicini agli altri. C’era un sacco di space libero, ma io sono caduto nel campo gavitazionale di un signore che è venuto a sedersi alla mia destra e che di uova evidentemente ne aveva mangiate molte, ma molte più di me.
Risultato: finché lui non ha deciso, purtoppo solo a film finito, di andarsene a casa, non sono proprio riuscito ad abbandonare il mio posto per andare a colonizzare pionieristicamente una delle tante regioni disabitate di quell’ambiente.
Dopo una infilata di pubblicità così lunga da avermi fatto temere di avere sbagliato sala, finalmente è iniziato il film che, pare, avevo scelto e giuro che, dopo tutto quel tempo e un po’ di oblio – ero chiaramente invecchiato rispetto a quando avevo fatto il mio glorioso ingresso nella sala – è stato bello ricordarmi perché mi trovassi lì.
E qui inizia la vera narrazione, resa interessante dal mio sonnecchiare generato dalle uova, dall’insalatona, dal vino, dalla mela, dal ronfare del corpo autogravitante del mio vicino che deformava lo SPACE-tempo della poltrona adiacente alla mia, dalla pubblicità e dalla comodissima imbottitura della mia poltrona che mi invitava con insistenza a chiudere le palpebre.
Tra i fumi del sonno, negli sprazzi di semicoscienza intermittente prima del buio totale, (sprazzi che oramai caratterizzano tutte le mie serate), ho visto cose che voi rimasti a casa non potrete immaginare.
Ho visto, o almeno credo di avere visto, una struttura attorno alla Terra che inizialmene pensavo fosse la versione futuristica e ipercazzuta della stazione spaziale internazionale e che poi invece si è rivelata una torre così alta da arrivare nello spazio, ad almeno una altezza di un centinaio di chilometri dal suolo.
Ricordo di essermi detto nel dormiverglia che di sicuro dovevo aver visto male. Su un pianeta come il nostro che, con la sua gravità, non consentirebbe mai e poi mai a una struttura, naturale o artificiale che sia, di spingersi oltre più o meno dieci chilometri, una specie di ipertraliccio di quel tipo sarebbe subito crollato frustando una intera regione grande come il Molise (povero: neanche il tempo di iniziare ad esistere che subito si trova a essere sommerso dalla ferraglia…)
Su questa torre, i terrestri, anzi, a questo punto, per l’imponenza di quella struttura, li chiamerei i torrestri, si muovevano con la stessa disinvoltura con la quale andreste a comprare un’acqua tonica in spiaggia a Fregene in un qualsiasi giorno di Agosto diverso dal 15 (escludo Ferragosto perché, una volta trovato un po’ di spazio in spiaggia, rinuncereste alla tonica pur di non lasciarlo ad altri e desiderereste trovarvi nello spazio, magari su una torre).
Ho visto (al solito, credo di aver visto) i raggi cosmici balenare nel buio alle porte di Nettuno e arrivare su quella torre sconvolgendola e sconvolgendo pure l’intero nostro pianeta: una salva di protoni e radiazione gamma tale da far pensare che il nostro Sole avesse generato un flare alquanto anomalo o che, non più… solo, avesse finalmente trovato una compagna vicina divenuta una specie di supernova in preda a uno strano climaterio stellare.
Ho visto (ho creduto di avere visto) navi mercantili abitate da incazzatissime scimmie da esperimento al largo dei bastioni di Giove, o giù di lì.
Ho visto anche un brachicardico-tardigrado di dimensioni umane, eroe figlio di eroe, che si trovava a suo agio quasi ovunque: in un profondo lago marziano (!); su un rover lunare lanciato a velocità folle e speronato dai pirati che infestavano il nostro saltellite naturale; nella sala d’aspetto dell’agenzia delle entrate; … Insomma, stava bene ovunque e comunque, ma non a letto con la bella Liv Tyler.
Per inciso, la recitazione del Pitt Brad ricorda qui quelle della bellissima Bellucci impegnata in qualcuna delle sue interpretazioni più intense. Imperdibile.
Ho visto poi un Tommy Lee Jones, nel film padre dell’eroe, truccato così tanto bene da sembrare una delle scimmie da esperimento di cui sopra.
Credo di aver visto tutto ciò soltanto grazie a interruzioni del mio sonno provocate da scossoni gravitazionali generati dalla precessione dell’ingente massa alla mia destra. A ogni giro, simile a una pulsar, da una zona vicino al suo polo nord emetteva sibili e rantoli tipici di chi lottava per rimanere sveglio, contrastato nel suo progetto da un quantitativo di cibo molto più impegnativo delle mie tre uova strapazzate.
Non oso pensare cosa sia successo durante la notte dalle parti del suo polo sud.
Durante una di queste brevi veglie, mi è parso anche di capire che la fonte di quei raggi cosmici che investivano la Terra provocando incredibili sbalzi di tensione seguiti da black out, quindi morti, feriti e altri disagi, fosse proprio l’astronave di Tommy Lee Jones. Per un problema tecnico non ricordo più di quale natura, quella specie di camper spaziale ogni tot inondava l’intero sistema solare di emissioni che, pur se spegnessimo tutti i frullatori, i tostapane e le macchinette da caffè del mondo, nemmeno al CERN riuscirebbero a generare.
Ecco, lì confesso che sono stato davvero sul punto di andare a casa a finire il mio sonno in un sistema di riferimento che, pur essendo qui sulla Terra, lontano dal mio vicino avrei pure potuto definire “inerziale”.
Ma ho scelto di rimanere (in realtà non possedevo una adeguata velocità di fuga per fuggire via dalla massa planetaria vicina che mi teneva avvinto) perché mi piace soffrire e devo dire che ho fatto proprio bene.
Sì, perché in questo pot-pourri di elementi ripresi da classiconi come Solaris, 2001 Odissea nello spazio (alcune scene di lui nell’astronave con i riflessi delle elettroniche sul casco non potevano non richiamare Frank Bowman alle prese con Hal 9000), Space Cowboy*; con musiche che, per genere, tentano di replicare il successo di quelle bellissime di Interstellar, con Pitt che, come il Clooney di Gravity se ne va con gran disinvoltura a spasso tra gli anelli di Nettuno, facendosi scudo con un cofano di Bianchina di fantozziana memoria, … c’è stato spazio per qualcosa di interessante, che val la pena dire qui.
Nei film di fantascienza spaziale ci hanno abituato a vedere gli arredamenti delle astronavi come qualcosa di davvero lontano dalla nostra esperienza terrestre. In questo film, invece, mi ha colpito l’aspetto dell’interno dell’astronave nella quale Tommy Lee Jones da un trentennio scrutava il cosmo alla ricerca di vita extraterrestre.
Mi si conceda una piccola divagazione. Tantissimi anni fa, qui a Bologna mi è capitato di andare dal dentista della mutua che all’epoca era dalle parti di via XXI Aprile. Una volta entrato, abituato all’idea di studio dentistico che mi ero fatto quando a pagare le cure erano i miei genitori, ebbi una sensazione straniante: lo studio appariva fatiscente, con attrezzature vecchie, brutte, da museo dell’odontoiatria.
Si trattava, per questo, di un ambiente molto vero, forse più vero di quelli moderni, e magari il dottore era il più bravo di tutti quelli da me incontrati in precedenza ma, oramai satollo di verità – il mio dente pulsava con la violenza e la schiettezza di un film neorealista – decisi di fuggire via per andare a farmi debiti altrove.
Insomma, anche il dente ogni tanto ascolta l’occhio che pretende la sua parte.
Alcuni interni di quell’astronave parcheggiata da trent’anni nell’orbita di Nettuno mi hanno restituito quell’idea di vecchio, di malandato, di superato. Una inadeguatezza tecnologica che mai nessun regista aveva messo così a nudo nei numerosi film di fantascienza spaziale che ho visto.
Similmente, a un certo punto, anche l’inscalfibile eroe tardigrado brachicardico nel film cede e viene smascherato con tutte le sue umane debolezze che, anche queste, a mio parere non erano mai state messe così bene in evidenza – forse a funzionare è stato proprio il contrasto con la freddezza fino a quel momento ostentata dal personaggio – in altre produzioni cinematografiche. Lo spazio è immenso ma, diversamente da quello che succede nel cinema nel quale mi trovavo, ciò che manca a chi si avventura lontano dalla Terra è il contatto con l’altro.
Ieri sera l’universo mi è apparso per quello che ora mi sembra ragionevole che sia: contrariamente a quanto sostengono i seguaci del principio antropico, nel film esso si mostrava per nulla fatto su misura per noi o, se preferite, noi umani apparivamo ancora del tutto inadatti a stare stare dentro il cosmo senza i paesaggi terrestri e un bel po’ di nostri simili a rompere le balle.
La sensazione netta è stata che l’unico luogo naturale di aristotelica memoria dove possiamo stare fosse la Terra e che, se davvero c’è un altro posto simile a questo, il tentativo di raggiungerlo al momento è un suicidio: si tratterebbe di un viaggio capace di distruggerci dentro e fuori.
Mentre sulla Terra invecchiamo sullo sfondo di un mondo che si rinnova e di una tecnologia che di giorno in giorno muta, migliorando se stessa e la qualità della nostra vita, nei lunghi anni di viaggio per raggiungere un pianeta lontano capace di ospitarci, invecchieremmo dentro un ambiente che invecchia con noi, assumendo sempre più l’aspetto dello studio del dentista della mutua.
“Ciò che non uccide fortifica”, recita un detto. In realtà, se l’universo ti fa il torto di non ucciderti, vuol dire che ha deciso di indebolirti mentalmente, oltre che fisicamente, e l’aver posto i riflettori su questa dimensione così disumana di ciò che invece i film di fantascienza hanno fino a oggi tenuto a far apparire alla nostra portata, credo sia la vera cifra di questo film perlopiù mediocre (mi riservo comunque di rivederlo a stomaco vuoto o dopo un pasto leggero. Le mie frequenti assenze cognitive di quella sera, per quanto giustificate, non dovrebbero consentirmi di essere così definitivo nel giudizio).
In esso, la ricerca del padre dato per morto e poi ritrovato vivo e vegeto (anche se un po’ defunto dentro) molto lontano da tutto il consesso umano, la voglia di rivederlo, l’enorme difficoltà a lasciarlo andare nonostante, essendo “più di là che di qua”, non appartenesse più al mondo sul quale lo si voleva riportare, mi hanno fatto capire ancora una volta quanto, nonostante i ventidue anni oramai trascorsi dalla sua morte, sia ancora per me irrisolto il problema del distacco da mio padre.
Inoltre sono più di sei anni che questo pensiero si è intrecciato finemente con un altro che pure il film ha evidenziato: sono spesso aggredito dalla consapevolezza che un giorno sarò costretto, per decorrenza dei termini, ad allontanarmi da mio figlio. Si tratta di un incubo normale; un’idea ricorrente che, ne sono sicuro, aggredisce spesso tutti i genitori e le due cose, ovvero la morte dei nostri genitori e la consapevolezza che morendo, toccherà anche a noi lasciare i nostri figli, si mescolano rivelandoci quanto siamo soli. Se poi questi pensieri li si pone non sulla quinta di una piazza popolata e festosa di una domenica mattina, ma sul drappo nero del buio cosmico, la nostra esistenza solitaria diventa incontestabilmente pesante, chiara, definitiva.
É quindi un film di fantascienza, ma che ha per argomenti anche la fragilità umana e il rapporto padre-figlio: un argomento di cui parlo anche io nel mio spettacolo Giovannino e il Cosmo, una favola astronomico-musicale alla Prokofiev nella quale sottolineo l’importanza di un rapporto importantissimo, quello padri-figli, del quale ancora pochi parlano nella maniera adeguata e dandone l’importanza che merita.
In preda a simili pensieri, a un certo punto mi è sembrato addirittura soave ciò che di solito aborro: sono stato grato al crokkiare di patatine, nachos, pop corn e al turbinare rumoroso delle ultime gocce rimaste negli scaldabagni di cartone che impropriamente al bar del cinema chiamano bicchieri di coca: un repertorio di cacofonie che mi ha ricordato la presenza ingombrante, quindi (solo) per una volta gradita, degli altri spettatori nel The Space.
Finanche la geometria perturbata dello SPACE-tempo della mia poltrona, dolcemente digradante verso il mio ingombrante vicino, mi ha donato per un fugacissimo, meraviglioso istante la gioia di vivere in una buca di potenziale popolata da un altro umano dal corpo politropico, evidentemente degenere.
La morale del film, da me seguito tra una ronfata e l’altra, in definitiva credo fosse il recupero di un’umanità inespressa che l’eroe celava dentro, da qualche parte. Una volta tornato a casa, distrutto nel corpo e nella mente, egli ritrova anche la giusta dimensione sentimentale con la sua ex – una dimensione che la sua precedente esperienza familiare non gli aveva permesso di sondare in modo adeguato – riuscendo finalmente ad apprezzare, lui che aveva sempre viaggiato nell’alto dei cieli, la vita terrena.
Credo sia una storia che segna un interessante (non bello. Interessante) ritorno a una dimensione sociale, sentimentale, romantica, un po’alla Bradbury di Cronache Marziane, di fare film di fantascienza in aperto contrasto con lo scientismo di capolavori come Interstellar, una pellicola a mio parere ancora insuperata.
Riprende un modo di interpretare la fantascienza spaziale non tanto come incursione dello spazio nelle faccende umane, ma come proiezione alla Star Trek dei classici topoi narrativi sul drappo buio del cosmo.
E, a causa di tre uova strapazzate, un’insalatona, mezzo bicchiere di vino rosso e una mela, ho rischiato che tutti questi momenti finissero per andare perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia.
Poi è stato (finalmente) tempo di dormire.
SZ
*) il buon Davide Alboresi Lenzi, amico astrofilo che ho incontrato al cinema, mi ha fatto notare che una foto di Tommy Lee Jones mostrata nel film è stata scattata proprio durante le riprese di quella fortunata, simpatica produzione
Domenica 7 Aprile, quindi esattamente un mese fa, stavo sfogliando il mensile “Le Scienze” fresco di stampa.
La mia attenzione fu subito catturata dall’articolo Azione inquietante di Hanson e Shalm. In introduzione i due autori annunciavano mirabilia: promettevano di chiarire come si è giunti alla conclusione che le presunte “variabili nascoste” teorizzate da Einstein (1) per spiegare l’altrimenti inspiegabile correlazione (entanglement) tra gli stati di particelle atomiche “gemelle” portate a grande distanza tra loro, non esistono (2).
Come raccontano i due autori, diversi gruppi di ricerca sono riusciti a compiere alcuni esperimenti progettati proprio per aggirare la possibile influenza di ignoti fattori locali che, non visti, potrebbero “rinnovare” la correlazione tra particelle inizialmente vicine, quindi reciprocamente “entangled”, che vengono poi allontanate a distanze tali da non permettere alcuna comunicazione tra loro.
Tali esperimenti hanno dimostrato che la correlazione tra stati entangled (es.: lo spin degli elettroni) continua a persistere anche a grande distanza, mantenendosi pure allorché, durante la fase di allontanamento reciproco delle due particelle, si agisce su una delle due apportando una variazione casuale al suo stato.
Anche in questo caso, quindi, la seconda particella, oramai troppo distante dalla prima per poter essere raggiunta in breve tempo da un segnale luminoso che l’avverta della variazione avvenuta nello stato della sua gemella, dimostra di “accorgersi” subito che qualcosa è mutato, riadattando la propria configurazione così da farla risultare nuovamente correlata con quella della prima.
Insomma, la meccanica quantistica esibisce ancora una volta il suo carattere decisamente controintuitivo, dimostrando di farsi beffe della nostra idea di realtà e ravvivando l’alone di mistero che la circonda mediante la persistenza di questo paradosso che ricorda un altro ben più famoso: quello cosiddetto “dei due gemelli” della teoria della relatività.
Una similitudine che mi spinge ad “appuntarmi mentalmente” questo riguardante non più persone, ma elementi dell’atomo come “il paradosso delle due particelle gemelle”.
Senza entrare nei particolari della teoria (3) che a grandi, grandissime linee mi era già nota, tra i vari aspetti per me rilevanti dell’articolo citato vi era il fatto che dopo le prime due pagine, il sunto di quanto raccontato nel testo fosse affidato a due facciate occupate da un ibrido: un interessante incrocio tra un fumetto autoconclusivo e una infografica creato da Matthew Twomby su testo di Michel Van Ball.
A mio parere, si tratta di un’opera dal grande valore comunicativo, capace di fornire un aiuto fondamentale alla comprensione dell’articolo dal quale è tratto.
E ora passiamo a dire di un altro entanglement: il 3 Aprile scorso, in un suo articolo pubblicato su Media INAF, la collega Francesca Aloisio citò la presenza di due mie tavole (4) tra le opere che a partire dall’8 Aprile sarebbero state esposte nella mostra “La scienza tra le nuvole”.
L’ esposizione, inserita nel cartellone del festival della Scienza capitolino, sarebbe stata visitabile presso il Parco della Musica e Davide Coero Borga, il suo curatore, il 5 pubblicò sempre su Media INAF un pezzo nel quale ancora una volta venivo menzionato come raro caso di scienziato-artista lì presente con le sue opere (pare ce ne fosse anche un altro, tale Stefano Bortolotti dell’Istituto Italiano di Tecnologia).
Sapevo già da mesi del progetto di allestire questa mostra in quanto Stefano Sandrelli, coordinatore nazionale delle attività divulgative dell’INAF, mi aveva invitato con un certo anticipo a proporre alcune mie tavole in vista di quell’occasione. I numerosi eventi intercorsi tra quella prima convocazione e il festival mi avevano però fatto dimenticare del tutto la cosa e la sorpresa di scoprire che effettivamente due tavole di Squid Zoup fossero lì esposte è stata tanta e, inutile dirlo, decisamente piacevole.
Il presunto entanglement, a parte la circostanza fortuita ma decisamente simpatica di trovare proprio in quei giorni un articolo su “Le Scienze” a spiegare quell’argomento di fisica, è stato quindi sentirsi “finalmente” misurato, a quasi quattrocento chilometri di distanza dalla mia posizione, da tutti coloro i quali vedendo le mie tavole, potete starne certi: hanno misurato i miei stati interiori ancora altamente entangled con quanto quelle due tavole raccontano di me.
Come tutti, anche io “vesto i miei panni” tutti i giorni, e il mio personaggio Squid Zoup fa lo stesso, cristallizando alcuni momenti della mia vita o alcuni miei sogni a occhi aperti.
Per dirla in altro modo, vesto i miei panni, ma anche quelli del mio alter ego in bianco e nero col quale mi identifico sempre. Questo – chissà? – mio malgrado, fa di me un cosplayer davvero convincente…
Squid Zoup e me
Ovviamente quello cui faccio riferimento è un entanglement blando, praticamente inesistente se non come metafora usata per sottolineare una banale verità: le nostre azioni hanno una grande influenza a distanza, sia di spazio che di tempo, con il risultato di far sapere ad altri come siamo o come eravamo “mentalmente polarizzati” al momento in cui abbiamo prodotto, detto, fatto qualcosa.
E più le nostre azioni sono precise, più lo sono le “cose” che facciamo e più la decodifica di chi siamo o di chi eravamo al momento dell’emissione del nostro stato mentale concretizzatosi con il nostro prodotto, non lascia spazio a pericolose interpretazioni e revisionismi.
Chissà se gli sviluppi della ricerca in meccanica quantistica riusciranno un giorno a regalare un nuovo significato al concetto di “Storia”…
In questa vicenda entra prepotente un ricordo: quello che ha a che fare proprio con il problema delle particelle entangled e con il cosiddetto “Teorema di Bell” enunciato nel 1964 dal fisico john Stewart Bell dal quale prende il nome. Un teorema di cui venni a sapere grazie a una pubblicazione del lontanissimo 1991.
Si trattava, appunto, de “Il teorema di Bell“, un bellissimo cartonato della casa editrice Comic Art (numero 72) a opera del fumettista Matthias Schulteiss. Purtroppo in Italia uscì solo il primo numero (pubblicato senza numerazione, quindi fatto passare come episodio autoconclusivo) che ebbe l’effetto di farmi incuriosire moltissimo alle vicende del protagonista Shalby, ma che, in assenza della rete (parlo di un’era pre-internet), non potevo nemmeno sospettare fosse incompleto.
Oggi scopro che vi sono disponibili on-line le altre due puntate, non tradotte, nelle quali immagino che l’importanza del problema fisico citato nel titolo venga finalmente svelata.
Invece all’epoca, dopo averlo letto, mi rimase quel senso di stupore che già connettevo col mondo della meccanica quantistica. Uno stupore che pensavo fosse tutto autocontenuto in quel primo numero.
Oggi, avendo scoperto l’esistenza dello sviluppo ulteriore della storia, il mio stupore è più che altro suscitato dalle scelte editoriali di chi, sapendo che una storia si snoda su tre episodi, decide di pubblicarne solo uno.
L’occasione offerta dall’avere ben due lavori grafici dedicati allo stesso problema fisico ma affrontati con piglio del tutto differente potrebbe essere quella ideale per attuare un raffronto tra il fumetto-infografica comparso su Le Scienze e il cartonato della Comic Art, ma non so se, non conoscendo il contenuto degli altri due episodi, io stia agendo correttamente.
Da un punto di vista divulgativo, la diversa lunghezza delle due pubblicazioni dovrebbe avvantaggiare Il teorema di Bell di Shulteiss: a parte il caso in cui un autore dimostra di saper lavorare meglio in spazi ristretti, esibendo così una grande capacità di sintesi (o una certa incapacità di lavorare a lungo su uno stesso soggetto…), un maggiore spazio per “spiegare” un certo argomento immagino fornisca innegabili vantaggi.
In ogni caso, si tratta di due prodotti diversi, creati in periodi diversi con intenti diversi e dedicati a lettori diversi. Questo già basta a distruggere l’ipotesi di un possibile confronto tra le due opere che ora appare come una operazione impossibile, oltreché illogica.
Da un lato abbiamo un maestro del fumetto che, spinto dalla fascinazione subita per un problema fisico, ha agito in totale solitudine, creando quindi sia la parte testuale che quella grafica. Dall’altro abbiamo un ottimo professionista nel campo dell’illustrazione al quale è stato chiesto di creare una gabbia grafica per il testo elaborato dal fisico Michel Van Ball.
A questo punto un primo aspetto che credo valga la pena sottolineare viene a essere la grande versatilità dello strumento grafico che, similmente a quanto accade per la scrittura o per il cinema suoi parenti stretti, dimostra, qualora ce ne fosse bisogno, di poter raccontare, descrivere, istruire servendosi di una incredibile varietà di stili, approcci, strategie.
Ciò che qui più mi preme mettere in evidenza, forte della presenza di queste due opere che usano approcci completamente differenti nell’uso del fumetto, è però il seguente aspetto: la “nona arte” può sì essere utilizzata in modo molto vago, abbandonando del tutto l’intento di spiegare alcunché e concentrando gli sforzi sulla resa di una certa carica emotiva (“Il teorema di Bell”. Per quanto vago, gli devo l’essere entrato in contatto da ragazzo con quel teorema…), ma può anche – ed è questo per me il punto davvero importante – essere usata in modo estremamente sintetico e scientificamente corretto così da soddisfare palati molto esigenti in fatto di aderenza a un certo modo di spiegare le cose (il fumetto-infografica di Le Scienze). E lo fa così tanto bene da poter comparire addirittura come sunto di un articolo scientifico.
Il che mi porta a riallacciarmi a quanto ho già raccontato in un altro articolo pubblicato in passato sempre in questo blog.
Insomma, mi trovo ancora una volta entangled come me stesso e con ciò che pensavo: anche se a grande distanza di tempo, scopro di aver mantenuto la stessa “polarizzazione mentale” su un certo argomento. Forse non è il caso di dirlo forte. Mi sa che tutta questa coerenza, questa mancata variazione del valore delle mie variabili non più nascoste, bensì manifeste, non deponga del tutto a mio vantaggio…
SZ
1- Si veda l’articolo del 1935 “La descrizione quantistica della realtà fisica può ritenersi completa?” firmato da Einstein, Podolsky, Rosen (EPR): https://pdfs.semanticscholar.org/7861/a9c8b30bcc5fbd32e23b12f980f4a35c1537.pdf
2- O, se esistono, quantomeno, non agiscono.
3- Confesso che la prima lettura di quell’articolo di Le Scienze mi lasciò felice, enstusiasta, affascinato. La seconda mi sembrò rivelare alcuni limiti del testo e la terza restrinse il dominio della mia contentezza alla sola notizia del risultato sperimentale, lasciandomi alquanto tiepido circa il modo in cui l’esperimento veniva descritto. Il paragone con una qualsiasi conferenza di un qualsiasi grande luminare invitato a dire la sua su un argomento X è stato immediato. Un certo “principio di autorità”, complice il fascino del tema trattato, fa sì che spesso non ci si renda conto di ciò che davvero sta avvenendo davanti ai nostri occhi. Alla fine del suo intervento saremo tutti convinti di aver visto/sentito la migliore spiegazione possibile, ma se riuscissimo a rivedere la registrazione di quell’intervento, potremmo forse scoprire quanto alle volte, nel caso di persone reputate come “coloro i quali sanno” o “coloro i quali sanno fare”, la loro fama ci spinga a sopravvalutare il loro operato. Spesso, diciamocelo pure, “compriamo” solo la marca o il contenitore senza capire del tutto se davvero gradiamo il contenuto. Sarà forse un problema di traduzione (ne dubito) dall’inglese all’italiano, sarà forse un problema dovuto al fatto che l’aver studiato meccanica quantistica all’università non fa certo di me un esperto della materia e, soprattutto, dei suoi sviluppi più di frontiera (lo temo), ma l’articolo ora mi risulta carente in alcuni aspetti comunicativi, oltreché in altri più tecnici e mi riservo di parlarne con qualcuno che possiede maggiori conoscenze del sottoscritto così da comprendere dove si nasconde ciò che da qualche parte, in me o in quel testo, manca. Quale che sia il reale motivo della mia perpessità, per una spiegazione esaustiva del problema fisico rimando ovviamente alla lettura di testi tecnici, ma soprattutto consiglio di affrontarne altri capaci di mettere in risalto, in modo chiaro e circostanziato, l’entità della questione senza affrontare troppi tecnicisimi che possono “distrarre” chi non ha dimistichezza con il formalismo fisico. Ad esempio, trovo molto bello il secondo capitolo del Zeilinger Il velo di Einstein pubblicato tra i saggi Einaudi. Se poi l’articolo di Le scienze lascia anche voi un po’ insoddisfatti, vi consiglio di dare un’occhiata all’articolo di ricerca vero e proprio che trovate qui.
4- Si tratta di due pagine tratte da due differenti fumetti di Squid Zoup pubblicati in questo blog: la prima è tratta da Signal / Noise, l’altra da How deep is your world?
A pagina 44 de La Repubblica di oggi ho trovato un nuovo intervento di Vito Mancuso, oramai un giocatore ufficiale della squadra di Scalfari.
La sua interessante recensione al libro di Amir D. Aczel vince quasi due intere pagine centrali e importanti del quotidiano con un titolo che pesa come un postulato: Né atea né devota perché la scienza non respinge l’idea di Dio.
Avevo notato nelle librerie la nuova fatica di Aczel e meditavo di comprarla, anche se il titolo “Perché la scienza non nega Dio” mi disturba alquanto: piuttosto che essere un invito per i lettori a partecipare a quel famoso dialogo critico, ci restituisce già il risultato finale dell’analisi di Aczel. Un risultato che parla di una conciliazione possibile – e forse l’autore pretende in quelle pagine che sia anche necessaria – tra fede e ragione.
Non entrerò nel merito di quanto detto nel libro per l’ovvio motivo che non l’ho ancora letto; né commenterò a lungo, pur avendolo letto, quanto scritto da Mancuso nel suo articolo.
Per il momento, mi limito invece a fare poche, semplici considerazioni: Scalfari da ateo o agnostico che sia, si interroga sul mistero della fede e lo fa chiedendo pubblicamente “lumi” al papa con l’invio di una lettera che pubblica sul suo quotidiano. Del resto, a chi se non a lui? Ovvio che se domani avrete dubbi in tema di fede, scriverete anche voi una letterina a Francesco.
Confesso di non aver letto nemmeno quella, infastidito dall’operazione che dal mio punto di vista non poteva portare a nulla di buono. Volendo oggi colmare questa imperdonabile lacuna, ho digitato nello spazio apposito del mio browser “scalfari papa lettera”.
Col tempo ho capito anche io che ciò che troviamo quando mettiamo in moto simili ricerche è il risultato di quanto la rete ha capito del singolo internauta: in risposta ai nostri quesiti, essa ci propone pagine che ritiene possano piacerci perché la rete, tramite i post che scriviamo, i siti che visitiamo, il tempo che trascorriamo in essi, … ha avuto oramai il tempo di farsi un’idea molto precisa di chi ognuno di noi sia davvero.
Dando quindi per scontato che la parte dell’oceano internet che bagna il mio computer abbia compreso molto bene quanto io non sia mosso da fede religiosa, trovo sorprendente (e, a questo punto, molto veritiero) che la ricerca avviata con quelle tre paroline abbia prodotto i seguenti risultati:
Si vede chiaramente che, nel tentativo di leggere cosa davvero chiedesse il direttore del famoso quotidiano al pontefice, si trova solo la risposta di quest’ultimo mediamente commentata dai lettori di tutti i siti come “vittoria della fede”, “risposta sconvolgente del papa”, “bellissima lettera di risposta del papa”, …
Il tutto procede così per un bel po’ di pagine web e per trovare cosa accidenti chiedesse davvero Scalfari, bisogna faticare tanto. Meglio, perché più veloce, ricostruire la lettera unendo in un file word i vari capoversi ai quali il papa, riportandoli in grassetto, risponde.
Insomma, è andata proprio come ci si poteva aspettare: la fede vince ancora una volta, dimostrandosi “aperta al dialogo”, confermando “la grandezza di questo papa” e via dicendo con tutta una serie di luoghi comuni che tanto piacciono al popolo italiano, un popolo che di certo non ha mai negato attenzione alla sua religione di stato (N.B.: Stato laico).
Nel frattempo Piergiorgio Odifreddi, altra firma assunta da tempo in prima squadra tra le fila degli articolisti di La Repubblica, in occasione della pubblicazione del suo libro Caro Papa ti scrivo, aveva già chiamato in causa Ratzinger inviandogliene una copia.
Entusiasta, aveva poi pubblicato, sempre su Repubblica, un articolo (1) che inizia così:
Pochissime persone al mondo, ed Eugenio Scalfari è una di queste, possono comprendere la sorpresa e l’emozione che si provano nel ricevere a casa propria un’inaspettata lettera di un Papa. Una sorpresa e un’emozione che non vengono scalfite dal fatto di essere dei miscredenti, perché l’ateismo riguarda la ragione, mentre le personalità e i simboli del potere agiscono sui sentimenti.
Chiamare in causa il Papa sembra oramai un must di sicuro dettato da un estremo bisogno di dialogo con chi alla fine perdonerà l’agire ateo regalando la sua benedizione.
Nel caso del nostro matematico più famoso, l’effetto di una ricerca del tutto simile alla precedente ma con i termini “odifreddi papa lettera” ha prodotto il seguente effetto:
Come si può vedere, in questo caso è andata un po’ meglio, almeno dal mio punto di vista: chi vuol capire cosa abbia detto Piergiorgio a Francesco, può tranquillamente trovarlo in quarta posizione tra le pagine proposte da Google. I motori di ricerca sistemano in sequenza le pagine web usando un criterio che, tra i tanti fattori, tiene conto di quanto quella pagina è stata cliccata in precedenza, proponendo le più consultate e via via quelle meno gettonate. Il fatto che ancora una volta, anche se il tutto è partito con l’invio del libro da parte del matematico, le prime pagine siano dedicate alla risposta del Papa, la dice lunga: l’italiano tributa sempre e comunque maggiore importanza alla risposta di quest’ultimo piuttosto che alla provocazione del primo.
Dal confronto tra le due videate potremmo trarre tante conclusioni diverse. Una conduce dritta-dritta ai possibili motivi sottostanti la sostituzione di un papa che, tra le altre cose, non è stato così incisivo da oscurare del tutto un matematico famoso, operazione invece riuscita a Papa Francesco con il suo interlocutore.
Mi sembra lecito immaginare che da questo come da altri momenti del mandato di Ratzinger, potrebbe essere derivato il passaggio di testimone tra il tedesco e l’argentino che invece da un punto di vista mediatico dimostra di funzionare molto, molto bene.
Ora mi chiedo: cosa accidenti si aspettavano i due repubblichini da un Papa? Si sono resi conto di aver regalato al Vaticano altre occasioni di affinare le tecniche retoriche e comunicative che da sempre vedono quello staterello così efficace? La risposta è certamente “sì”.
Perché allora hanno cercato quell’interlocutore? Sarei tentato di proporre alcune facili ipotesi ma non voglio essere egoista e lascio al lettore il gioco banale di immaginarle da sé.
Quando penso a questo affare del rapporto epistolare tra simili personaggi, si impadronisce della mia fantasia l’immagine mentale di due vandali con tanto di borchie, creste, tatuaggi, pantaloni stracciati, sguardo cattivo, … che, dopo aver imbrattato un muro con le bombolette spray, vanno a confessare la marachella al genitore chiedendo dialogo.
Quello, comprensivo e magnanimo, gli tocca pubblicamente il capo (il pubblico ci deve essere sempre: il livello mediatico di simili faccende è il campo nel quale si gioca la partita materiale. Proselitismo religioso da una parte e proselitismo editoriale dall’altra potrebbero anche cagionare simili operazioni, no?) col palmo della mano, pizzica le guance di entrambi lasciandogliele un po’ arrossate e li congeda, forte della consapevolezza di aver vinto.
Il muro non verrà pulito: conviene tenerlo imbrattato a imperitura memoria di quanto fossero discoli quei due, ma anche di quanto fosse, nonostante tutto, più potente e affascianante il genitore che con estrema comprensione li ha perdonati “accettando il dialogo”.
Caso strano, non mi risulta (ma magari mi sbaglio) che alla pubblicazione di un libro o di articoli sulla fede da parte di Wojtila, Ratzinger & Co., siano seguiti invii di copie omaggio di quelle opere ad autorità scientifiche riconosciute. Forse non è capitato per il semplice fatto che non esiste un solo tramite riconosciuto tra uomini e Natura come vi è invece tra uomini e Dio (!), e questo già di suo a me pare dirla lunga sul valore dell’avventura intellettuale scientifica.
Oggi Vito Mancuso ci spiega perché secondo Aczel fede e ragione possono andare a braccetto e per La Repubblica un problema che riguarda scienza e fede può essere tranquillamente risolto nella sola sede filosofico-teologica, senza interpellare rappresentanti della scienza, dolce metà di questo matrimonio acclamato da tutti.
A onor del vero, nel suo articolo Mancuso tenta di dare una parvenza di equidistanza, palesando le sue convinzioni più profonde in un paio di punti soltanto. Un paio, ma decisivi: quando riferisce che “alcuni scienziati sono atei, altri credenti” e specifica i nomi di alcuni di questi ultimi come “il padre della teoria dei quanti Max Planck, il padre del principio di indeterminazione Werner Heisenberg, il padre della teoria del Big Bang George Lamaitre” e poi ancora Francis Collins, gli italiani Nicola Cabibbo, Ugo Amaldi, Elena Cattaneo.
Insomma, un elenco sexy e dettagliato che di sicuro colpisce il lettore molto di più della locuzione “alcuni sono atei”. Inoltre non posso fare a meno di notare quanto gli piaccia il concetto di “padre” che in questo caso odora di saio e tonaca.
In chiusura di articolo, cita uno studio sull’ateismo compiuto dall’editorialista dell’Avvenire Timossi il quale costringe quel fenomeno in quattro comode categorie. RIferisce quindi che: “Secondo il credente Timossi l’ateismo non ha l’ultima parola”.
Il Timossi quell’ultima la cede a un altro credente illustre, nientepopodimenoché il grande Dostoevskij, il quale ebbe modo di scrivere “il perfetto ateo sta sul penultimo gradino prima della fede più perfetta”. Il Mancuso invece concede la chiusura dell’articolo proprio a lui, all’editorialista e alla sua citazione del buon Fedor, sbandando e perdendo di vista la linea di mezzeria del discorso.
Intanto spunta sulla rete una notizia decisamente inquietante:
e la correlazione che mi sembra di poter scorgere tra simili notizie e le tendenze di cui parlo in questo articolo mi appare esserlo ancora di più.
Lancio allora un appello agli altri direttori di giornali, quelli che magari si sentono un po’ più rossi (e un po’ meno temporaneamente rossi) di una guancia appena pizzicata: c’é qualcuno di loro che se la sente di perdere qualche lettore catto-qualcosa invitando uno scienziato non credente a recensire quel libro?
Se dialogo deve essere, che dialogo sia.
Il monologo-omelia mi ha stancato da tanto, oramai, ma sembra essere solo un mio problema.
SZ
P.S.: chiedo scusa per aver riutilizzato un vecchio disegno già pubblicato in questo blog, ma al momento sono fuori sede senza matite, pennini, gomma, scanner.
Guardandomi indietro, mi sembra che infanzia e adolescenza altro non siano se non periodi utili per darsi dei sogni.
All‘epoca ne avevo tanti, molti di più di quanto ne abbia oggi. Nulla di strano, almeno credo: ritengo che questa riduzione di una certa dimensione onirica possa essere l’effetto del fare i conti con la realtà vera; quella con la quale, mentre ero tutto occupato a sognare, avevano a che fare i miei genitori.
Ho sempre disegnato, prendendo questa passione da mia madre. Inoltre suonavo e ogni tanto scrivevo. Cresciuto a cartoni animati della Walt Disney, della Hanna & Barbera e a Merry Melodies, menu completato dai primi cartoni giapponesi, in testa Goldrake, tra i tanti sogni che avevo vi era anche di fare un cartone animato tutto mio. Lo vedevo come un prodotto nel quale finalmente tutto ciò che amavo fare (nel frattempo, anche l’astronomia aveva fatto l’ingresso tra i miei interessi…) poteva confluire.
All’epoca le leggende metropolitane circa il creare cortometraggi disegnati (avevo trovato solo un piccolo libretto sull’argomento e internet… non c’era), parlavano della necessità di avere un’impalcatura sulla quale porre la “reggetta”: una striscia di legno o di plastica con due pioli affiancati ai quali assicurare i fogli trasparenti contenenti i disegni da animare. L’impalcatura doveva servire per reggere in alto una telecamera capace di fare riprese passo-passo (un fotogramma alla volta) dei disegni sempre dalla stessa posizione e distanza.
In casa non c’era posto per un simile aggeggio, né c’erano i soldi per una telecamera di quel tipo. Forse erano solo scuse, ma mi prendevo volentieri in giro, guadagnando tempo in vista di quell’appuntamento fondamentale: sapevo che avrei dovuto semplicemente attendere perché prima o poi sarebbe arrivato il momento giusto per fare il mio cartone animato. Quel momento è arrivato solo un mesetto fa.
Ispirato dal brano che dà il titolo all’ultimo disco che ho prodotto insieme al chitarrista Guido di Leone e al contrabbassista Francesco Angiuli, ho pensato di mettere a frutto quanto imparato a suo tempo al corso di Animazione Digitale tenuto da Chrstian Ghisellini, docente dell’Accademia di Belle Arti di Bologna dove ho studiato per il biennio specialistico di Linguaggi del Fumetto, per creare questo primo prodotto di una Lulamae Productions che da tempo vorrei istituire in ricordo della mia compagna quadrupede scomparsa quasi un anno fa: il trailer del disco pubblicato dalla Fo(u)r (1).
Sentendomi raccontare come, dall’unione del tema iniziale e quello finale del brano The Night Has A Thousand Eyes, pensavo di ottenere una colonna sonora di un minuto o poco più per il mio cartone animato, il mio amico Renato Geremicca (2) ha provveduto a realizzare al volo, con Vegas, quella “crasi” musicale. Inoltre, con sorprendente intuito, ha creato sul tema finale del nuovo brano, qualcosa che in quello originale non esiste: un interessante unisono tra la mia armonica e la chitarra di Guido di Leone.
Esther Intile, poi, mi ha dato “due dritte” su alcune funzioni fondamentali di iMovie. A questo punto, mancavano solo i miei disegni. Mancavano, ma ora ci sono tutti. Dal risultato di qualità di sicuro mediocre che ho ottenuto, di sicuro non si può intuire come il tutto sia partito osservando i grandi classici che citavo più in alto, ma poco importa: questo è il mio livello al Febbraio-Marzo 2015. Farò meglio in futuro. Almeno spero…
Il titolo THe Night Has A Thousand Eyes ha per me più di un significato.
Pensare che “la notte ha mille occhi”, mi riporta con la memoria a quando, in macchina, di sera, cercavo luoghi dove appartarmi in dolce compagnia. Scoprivo così che più questi posti erano isolati, quindi apparentemente ideali, e più mi facevano temere di divenire, mio malgrado, trastullo di guardoni o, peggio, passatempo di emuli del mostro di Firenze, vera icona della cronaca di quegli anni.
Quindi THe Night Has A Thousand Eyes potrebbe essere anche letta come nessuno si fa i ca… suoi, ma per me c’è anche altro.
Anni fa sentii l’esigenza di comunicare tramite il teatro. Misi allora su uno spettacolo che negli anni è cresciuto da qualcosa di solo musicale e intitolato Quanta, come il mio primo disco (3), a qualcosa d’altro; di un po’ più complesso.
Nella fase successiva, Quanta divenne un commento musicale a sequenze di immagini gestite tramite il programma Power Point. Una di queste si intitolava “… e le stelle stanno a guardare” e le immagini in essa contenute, commentate dal mio brano Farinafredda, erano crude: alcuni dipinti di Grosz; foto delle Due Torri ferite a morte dagli aerei dei terroristi; foto di persone imprigionate nei due grattacieli che, per non morire ustionate in quell’inferno di fuoco, si gettavarono a testa in giù da chissà quante decine di metri; e poi ancora primi piani di armi da fuoco e proiettili, scene di ordinaria violenza osservata in televisione, stupidi incidenti e comicità varie.
A intervallare queste scene così tragiche, avevo posto qui e là fotografie di bellissime nebulose planetarie attorno alle quali avevo disegnato palpebre cigliate. Il messaggio voleva essere banalmente kantiano: le stelle ci guardano, e mute ci giudicano da un punto di vista morale.
La mia cupa Farinafredda non è certo un brano solare come quello composto da Jerry Brainin e Buddy Bernier e, se nei primi anni di questo secolo, le immagini che evocavo erano, guarda caso, di distruzione e morte, ora l’ispirazione, pur avendo a che fare sempre con gli occhi, è del tutto diversa. Ho rappresentato il mio Squid Zoup mentre si muove in un osservatorio al quale sono particolarmente legato: quello dell’Osservatorio di Serra La Nave (CT) (4), dove spesso lavoro e che ospita un telescopio da 92 cm che trovate rappresentato nel filmato. L’immagine dall’alto di quella cupola l’ho tratta da un video (5) creato da Piero Massimino, System Manager dell’Osservatorio Astrofisico di Catania, con un drone da lui stesso pilotato.
La notte ha mille occhi. Noi guardiamo un cielo che, muto, ci osserva non più (solo) ridendo di noi o giudicandoci moralmente: forse, da innumerevoli pianeti extrasolari sui quali vi sarà la vita, ci osservano da lontano, studiandoci così come noi studiamo ciò che accade attorno alle altre stelle.
In ogni caso, smile, you are on cosmic-candid-camera!
SZ
1 – http://www.four-edition.com/site/2014/10/23/adamo-di-leone-angiuli-the-night-has-a-thousand-eyes/
https://squidzoup.com/2014/10/09/the-night-has-a-thousand-eyes-il-mio-nuovo-cd/