How Deep Is Your World?

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L’idea alla base di questa breve storia è di pochi giorni fa, ma credo si tratti solo dell’emersione di un pensiero finalmente compiuto che si è affacciato a puntate nella mia testa.

Un pensiero composto da vari tasselli che voglio svelare solo ora, approfittando del fatto che oramai avete già letto la storia.

L’immagine del cielo catturata da una macchina fotografica dopo una posa lunga un’intera nottata, restituisce un’aspetto inusuale delle stelle: a causa della rotazione terrestre attorno al suo asse, la loro luce va a impressionare il CCD disegnando piuttosto che punti, cerchi  luminosi centrati sul polo celeste.

L’accostamento tra l’aspetto inusuale di un cielo così pieno di anelli concentrici, il propagarsi nell’aria di onde acustiche grazie alle quali misuriamo la profondità di un pozzo oscuro quando, lasciatovi cadere dentro un sasso, contiamo i secondi che impiega a raggiungere il fondo e infine la propagazione di cerchi nell’acqua in seguito alla caduta in essa di un oggetto qualsiasi, sono gli elementi alla base dell’idea di questo fumetto.

In aggiunta a questi, uno ulteriore: la consapevolezza che spesso la Natura si dimostra frattale, quasi si sia accorta che le convenga replicare a scale diverse qualche meccanismo particolarmente efficace per ottenere il meglio da sé col minimo sforzo.

Ecco che i cerchi nell’acqua e la propagazione delle onde acustiche nel pozzo nero per antonomasia, quello cosmico, mi hanno stimolato l’accostamento con altri cerchi: quelli che si trovano all’interno di un tronco d’albero. Da essi risaliamo facilmente all’età della pianta, un procedimento che va sotto il nome di dendrocronologia.

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Sappiamo che l’ecoscandaglio non è esattamente lo strumento migliore per misurare la profondità del cosmo. Non è possibile lanciare alcunché così da fargli incontrare il limite estremo del nostro universo e, in ogni caso, quand’anche fossimo capaci di farlo, non vi sarebbe nulla, aria, acqua o altro mezzo propagatore, a trasmetterci il rumore dell’impatto (impatto? Col fondo dell’universo? Un giorno proverò a immaginarlo).

In effetti, una eco nel cosmo c’é, ma non è certo quella di un impatto, bensì quella di un’esplosione; un’esplosione muta. Trattasi di una eco termica, la cosiddetta radiazione cosmica di fondo, protagonista di un’altra storia che prima o poi forse racconterò (in parte l’ho già fatto. Si veda Addomesticare il Cosmo del 6/5/13).

Quella di una musica cosmica (o din rumore cosmico) che può rivelarci la grandezza del contenitore universale è un’idea antichissima che si è fatta strada fino ad arrivare finanche ai giorni nostri. Ne ho parlato tanto in alcuni articoli e conferenze, ma soprattutto nel libro Pianeti tra le note pubblicato dalla Springer. La storia a fumetti che ho pubblicato qui sopra – badate bene! – è solo una metafora grafica di quell’idea così affascinante.

Spero che troviate questa metafora comprensibile. Ho provato a facilitarvi le cose ponendo  quelle cifre che trovate vicino a ognuno dei 13 cerchi visibili nel cielo di Squid Zoup. Si tratta di diverse età del nostro universo che vanno dalla sua infanzia, ovvero da quando aveva solo 0,02 miliardi di anni (Giga years, Gy), agli attuali 13,82, cifra che ho posto a sinistra del cerchio più ampio, il tredicesimo.

Squid-lancia-low

13,8 miliardi di anni sembra proprio essere il tempo trascorso dall’inizio del cosmo fino a oggi. Un tempo lunghissimo che è stato misurato non certo tagliando un albero o lanciando pietre verso il fondo del cielo. In quella direzione lanciamo solo sguardi attenti e curiosi, in attesa di essere raggiunti da fotoni chiacchieroni e portatori di segreti di sicuro più interessanti di quelli contenuti negli archivi di Andreotti.

Un’ulteriore metafora rinvenibile nel fumetto è quella offerta dall’apertura progressiva delle linee divisorie poste tra le vignette della seconda e terza pagina. Nelle prime, vi è una curvatura maggiore, poi pian piano esse vanno diventando più rettilinee. Con questa rappresentazione, ho voluto provare a dare l’idea dell’espansione cosmica iniziata col Big Bang ancora in corso: in questo scenario cosmologico, sappiamo che l’universo si è espanso da dimensioni iniziali microscopiche fino a raggiungere quelle attuali dopo una storia meravigliosa durata ben 13,8 miliardi di anni.

Per la cronaca, nonostante la veneranda età, il nostro cosmo non manifesta nessuna voglia di frenare la sua espansione. Anche ora, mentre state leggendo queste parole, sta lievitando e, addirittura, pare stia pure accelerando.

Allacciate le cinture

SZ

Lanciato2-low

P.S.: ringrazio l’amico Giuseppe (Pippo) Vaccaro (http://www.hortusgiardini.it) il quale mi ha fornito altro cibo per analogie interessanti e che vanno ad accrescere la probabilità di avere altre idee in futuro.

Mi ha infatti segnalato l’opera di uno scultore che delle pietre, della musica e delle connessioni tra questi elementi e il cosmo ha fatto la sua ragione di vita artistica. Trattasi di Pinuccio Sciola

 

Sottofondo: Sarei tentato di scrivere How deep is your love (e alla fine l’ho scritto…), un notissimo brano dei Bee Gees che mi ricorda la mia infanzia e di cui ho chiaramente parafrasato il titolo.

Invece vi suggerirei di ascoltare il bellissimo suono delle pietre di Sciola nei tre video seguenti:

 

IL MONDO CHE FANNO GLI ALTRI – il migliore tra quelli possibili?

Il pezzo di mondo che faccio io-LOWNell’ultimo articolo (Visioni di MoSKA) ho parlato dell’ambiente estremamente connesso degli istituti di ricerca. In esso, le informazioni corrono da un capo all’altro del mondo rimabalzando su monitor, telefoni, fax, articoli. Anche se non organizzato come facebook, Twitter, Linkedin, …, quello scientifico può per molti versi essere paragonato a un social network. E i social network sono l’argomento di oggi.

Credo fermamente nella loro utilità.

Al di là di considerazioni varie, mi sembra che essi valgano soprattutto come strumento di indagine, come “carotaggio sociale”, non tanto per capire come la gente è, ma per farsi un quadro abbastanza preciso di come la gente ami apparire (e, di conseguenza, in seconda battuta, di come davvero sia).

Aprire la home di facebook, per esempio, consente di osservare le correnti di pensiero, le mode, i trend che per periodi più o meno lunghi regnano incontrastati. Buona parte di essi sono simili a quelli che un tempo chiudevamo fuori dalla porta di casa, mentre oggi hanno libero accesso ai nostri ambienti fisici e mentali e ci inseguono fin nel tinello, in cucina, nell’alcova.

Quasi si tratti di scie chimiche, ne senti l’odore (o il puzzo) e non ti resta che seguirlo per arrivare a comprendere quale sia l’immagine di base, quella noumenica, quasi, alla quale chi posta ama essere associato. Se la trovi, sai che l’elemento di verità è lì e non nella persona che a quell’immagine si riferisce. Quella persona assume solo il ruolo di banale e inconsapevole vettore di un’immagine resa interessante per il nostro contesto culturale da chissà chi, chissà dove, chissà quando.

Si tratta di idee-vestiti, anzi, meglio, vestiti-idee, alle volte interessanti, spesso arroganti e alla moda, utili più che altro a nascondere nudità ridicole o senza particolari attributi.

In questo contesto al quale appartengo e nel quale temo (direi di esserne sicuro) di comportarmi allo stesso modo, ciò che mi sorprende è qualcosa di simile a quanto notavo nel mio articolo di qualche giorno fa parlando di ricerca scientifica: la quasi totale mancanza di idee vere e veramente nuove. No, non preoccupatevi: non intendo qui proporre un pistolotto sul valore della sincerità. Per quello, i social network vanno ancora benissimo.

Intendo dire che grazie alla loro frequentazione, mi è apparso in modo più chiaro di quanto non lo fosse nella vita reale ciò che registravo già da tempo senza dirmelo con chiarezza: viviamo tutti da utenti, senza altre specificazioni possibili.

Vado in palestra con la macchina. Per arrivare lì uso il GPS. In palestra mi servo di altre macchine che allenano i muscoli. Mi collego in rete dove, nei social network, riporterò quanto detto da altri, meglio se pensatori del passato. Forse linkerò dei video girati da chissà chi, roba trovata in rete, o la musica composta e suonata dal mio gruppo/artista preferito. Andrò a fare la spesa da TizioCaio, una catena di supermercati davvero conveniente. Tornato a casa, guarderò la partita giocata dalla mia squadra del cuore, composta da undici persone delle quali so tutto e che mi daranno poi la possibilità di parlare del match domani in ufficio, con i miei colleghi.

Mi viene in mente un brano di un cantautore poco conosciuto (http://it.wikipedia.org/wiki/Tullio_Ferro) in quanto agisce nell’ombra di grandi artisti (ritenuti sempre, automaticamente, autori di ciò che cantano) ai quali ha venduto molte delle sue creazioni. Con lui ho avuto l’opportunità di collaborare tanti anni fa e sono contento di essere tra i musicisti che suonano nel suo disco “Il giorno di un giorno” (Storie di Note, 1999). Il brano che ho ricordato si intitola: “Il mondo che fanno gli altri”, ed è proprio così: a fare il mondo sono le persone delle quali seguiamo le gesta in telvisione, in rete o sui giornali. Sono i politici, gli attori, i cantanti, gli ingegneri, gli artisti, gli scienziati, i programmatori, i pittori, gli stilisti, … ma non tutti i politici, gli attori, i cantanti, … Sono solo quelli che, assunti in uno strato sociale più libero, alto e quantisticamente lontano dal nostro, ci bombardano il cervello di continuo, senza dargli scampo, abituandolo a pensare che è giusto assumere il ruolo di spettatori, di consumatori, di popolo da intrattenere.

Questi alti demiurghi sembrano essere tantissimi, ma a ben vedere, sono solo un manipolo di personaggi davvero esiguo se confrontato con il gran numero di tutti coloro i quali vivono grazie alle vere azioni di quei pochi: ci danno occasione di parlare di loro e di quello che a loro accade, ci fanno arrabbiare, indignare; alcuni di loro vendono i dispositivi dei quali non sappiamo fare a meno; costruiscono con i loro soldi la realtà nella quale ci muoviamo. Ci regalano sogni preparandoci anche a delusioni moderne. Spesso da loro dipende la nostra felicità o, addirittura, la mancanza di essa.

La massa (da leggersi come tutti noi) agisce esclusivamente da volano per dare peso a concetti e azioni di questa moderna oligarchia. Noi costituiamo la forza meccanico-economica che regala un ulteriore giro di giostra quando da quella non ci arriva sufficiente spinta per farne uno. Forse è stato sempre così e sono stupido a registrarlo con un simil-candore così anacronistico. Che ci posso fare? Oggi va così.

Se ognuno di noi, invece che mediante tasse, contributi SIAE, canoni televisivi, … desse a questi super-demiurghi anche solo cinquanta centesimi scoprendosi nel mentre li cerca nelle proprie tasche e da lì li raccoglie, gli apparirebbe subito chiaro come mai quelli che fanno il mondo guadagnano le cifre che ci fanno scandalizzare tanto come nel caso dei 27 milioni di buona uscita di Montezemolo e i non so quanti milioni dei vari Balotelli. Il conto è banale: siamo circa 70 milioni. Già solo 50 centesimi al mese da ognuno di noi basterebbero a spiegare molte delle strane alchimie di cui veniamo a sapere dai giornali. E, come tutti sanno, il nostro esborso non è esattamente di soli 50 centesimi di euro al mese.

Per carità! Non fraintendetemi: ritengo anche io assurde quelle cifre. Tanto più assurde se si pensa che sono del tutto disinteressato alle sorti della Formula 1 e ancor più a quelle del calcio, italiano o internazionale che sia. Queste mie non vogliono essre altro che innocenti constatazioni di un deluso di sinistra e non di un nostalgico appartenente all’altra parte della barricata.

Ma torniamo pure ai sogni che ci regalano i personaggi di cui sappiamo tanto, troppo. La loro grande capacità è quella di donarci l’illusione di poter incidere come loro sull’aspetto del mondo che ci circonda. Ci riteniamo importanti se riusciamo ad assomgliare a certi modelli estetici, comportamentali, economici, … da loro introdotti nel nostro mondo attraverso spifferi aperti nelle nostre mail-box, nei giornali, nelle televisioni, nella rete. Modelli che la maggior parte di noi non avrebbe mai avuto la capacità di elaborare se qualcuno non l’avesse fatto per noi. A tal proposito, devo riconoscere a malincuore una certa perversa genialità nell’agire di tutti questi personaggi che, mi piaccia o meno, creano e ricreano di continuo l’aspetto del mondo in cui vivo.

Il popolo dei social network non sembra accorgersi veramente di tutto ciò. O perlomeno, se mostra di averlo appena fatto, si scopre come la sua apparente presa di coscienza derivi in realtà da un post che gli è piaciuto e che ha deciso di condividere, scritto da qualcuno nella sua estesa rete di contatti. Un tempo condividere voleva dire anche lottare per l’affermazione di un concetto, di un ideale. Oggi basta premere un pulsante senza rischiare alcunché della propria vita reale. E l’ideale, come oramai tante altre cose, totalmente svuotato di un suo genuino valore concettuale, altro non è se non una stringa di caratteri alfanumerici, scritta da qualcuno per motivi che solo lui conosce. Forse.

Le risposte al suo post costituiscono di sicuro la parte più bella: sono tutti con lui; si sono accorti tutti della stessa cosa; sono stati preceduti da lui di un soffio in quanto stavano pensando esattamente allo stesso problema; i Mi piace si sprecano, e così via, sbrodolando con questo tenore per un bel po’ di righe, traduzione moderna del fiato sprecato di un tempo.

Inutile dire, poi, che stessa sorte tocca a un post in totale controtendenza rispetto al precedente e che magari appare su quella medesima bacheca.

Anche l’indignazione, la denuncia, l’autoanalisi diventano una Coca-Cola da stappare e bere per poi immancabilmente ruttare in un commento la propria elaborazione. E, ancora una volta, la Coca-Cola l’avranno fatta altri. Forse anche questo post nasce da istanze simili, ma io non me ne accorgo. Ho l’illusione che a differenziarmi dagli altri sia purtroppo una certa persistenza del disagio che provo; un disagio che non si esaurirebbe una volta contati i numerosi mi piace che un post del genere potrebbe classicamente totalizzare. Ma forse mi sbaglio ancora una volta e non sono che un amplificatore di un malessere antico.

In ogni caso, non passa giorno che non mi chieda a cosa accidenti io serva e cosa di così importante sia successo nella giornata che progressivamente, col passare delle ore, mi lascio alle spalle. Immagino che tutto ciò faccia di me un ottimo cliente per orde di strizzacervelli. L’anomalia, se di anomalia davvero si tratta, è non essere sempre contenti delle innumerevoli e irrinunciabili opportunità di felicità che la modernità ci regala.

Siamo utenti, quindi, ma programmati culturalmente in modo tale da non porci con serietà e partecipazione profonda la domanda che credo fondamentale: ma io cosa faccio davvero? Quale è il mio contributo al mondo nel quale vivo?

So che in una società buonista e cattolica fino al midollo come la nostra, la prima pensata che in genere queste ultime due mie righe stimolano sia: “in effetti, dovrei essere più attento al mio prossimo, più pronto a fare del bene, più…”.

Temo che deluderò qualcuno: non me ne frega niente di concetti del genere. Una volta obbedito a regole condivise (la legge) atte a rendere la nostra esistenza qualcosa di affrontabile senza clava in mano, sono pacificato con l’idea di un prossimo da incontrare per strada. Non gli farò del male, né riterrò di dover porgere questa o l’altra guancia a chichessia. I rapporti umani sono importantissimi, ma non intendo amare tutti come hanno inutilmente tentato di insegnarmi. Mi costerebbe una fatica per la quale la Natura non sembra avermi programmato così bene.

Quando mi chiedo quale sia il mio contributo al mondo che abito, intendo quale pezzo di realtà sia riconducibile alla mia esistenza e solo a quella, al di là delle mie deiezioni, metaforiche e non, risultato delle abbuffate (metaforiche e non) a base di cibi… creati da altri.

Siamo utilizzatori finali di tutto, il più delle volte incapaci di porre rimedio a un problema che si può verificare in qualsiasi momento, in uno qualsiasi dei segmenti di realtà che frequentiamo; fra i circuiti e gli ingranaggi di uno qualsiasi degli strumenti che usiamo.

Siamo utenti che vivono questa propaggine storica provando la vertigine regalata dalla modernità, ma con una consapevolezza del meccanismo di tutto in netto ritardo rispetto al tempo che abitano e basterebbe un conflitto, una catastrofe, un “inciampo” di qualche tipo per denudare in tempi brevissimi questa nostra inadeguatezza. La vertigine della propaggine di inizio capoverso  andrebbe piuttosto vista come timore della voragine sulla quale ci affacciamo. Sarebbe più serio e sincero.

Inutile dire che aspirerei a essere uno che il mondo lo crea, anche se – lo giuro! – non lo disegnerei così. Immediatamente dopo aver scritto questa frase così pretenziosa, mi vien da chiedermi con sospetto: “chissà cosa diventerei se fossi davvero capace di cambiare le cose…”

Dal discorso appena fatto, conseguirebbe che dovremmo tutti tutelare, aiutare, preservare coloro i quali, assolutamente innocui, si dimostrano capaci di creare piccoli tasselli della nostra esistenza senza per questo renderci schiavi di alcunché. Fintanto che le loro entrate non siano spiegabili con i centesimi prelevati con un inganno da tutti i milioni di conti correnti delle persone che ci circondano, non credo ci sia nulla da temere. Personaggi che a già esistenti x e y, affianchino una z ottenuta da una somma creativa, positiva e non banale degli elementi precedenti, dimostrano di conoscere l’esistente e di poter davvero incidere sul reale arricchendolo con ciò che non esisteva prima.

Sembrerebbe ovvio che non tutti possano essere così innovativi, specie in un sistema educativo che esalta la ripetizione pedissequa senza premiare l’originalità. Sarei invece portato a credere – e qui si conclude la mia grossolana utopia di oggi – che chiunque, messo in condizione di essere creativo, se non addirittura costretto dagli eventi a dover essere creativo, possa essere un potenziale “accrescitore consapevole” di realtà, quindi potenziale creatore di altri prodotti che non siano solo ciò che resta dall’aver metabolizzato  prodotti e trovate altrui. Forse basterebbe smettere di suggere per ore alla tetta dei social network che distribuisce sempre latte artificiale a lunga conservazione del contenuto minimo di idee.

Poi tento di figurarmi la società ideale che ho descritto. L’immagine che mi arriva è quella di un popolo estremamente laborioso in cui ogni individuo costruisce giorno dopo giorno un piccolo tassello di realtà – l’unico sul quale sa agire – da condividere con gli altri. Zoommando sulle mani delle persone che popolano questa immagine, scopro che maneggiano gli oggetti del quotidiano, ma non solo quelli che sarei tentato di classificare tra i più “nobili” come libri, quadri, sculture, strumenti musicali e finanche teoremi, ma pure e soprattutto quelli che tengono insieme, puntellano la realtà quotidiana.

Quindi scopro tra  quelle mani chiavi inglesi per avvitare; bulloni da avvitare; posate usate per cucinare pietanze sempre uguali e sempre un po’ diverse; penne per stilare contratti che servono a far avanzare l’economia; attrezzi per coltivare; … ed ecco un sospetto farsi strada:

va a finire che – e non sono certo il primo a sospettarlo: vanto illustri predecessori – questo sia da considerare come il migliore dei mondi possibili, la migliore approssimazione alla società ideale, quella alla quale vorrei appartenere. A instillarmi questo dubbio atroce, ad alto contenuto ironico, è stato inaspettatamente un sogno a occhi aperti, quello descritto nelle righe qui sopra. Se le cose vanno così come vediamo, probabilmente è perché non possono andare altrimenti.

L’elevato numero di individui, un numero in continua crescita, si evolve come farebbero gli stati di una immane simulazione sulla quale, dato il run, non è possibile agire significativamente se non arrestando il processo. A noi quindi non resta che assistere allo spettacolo registrandone le fasi con attenzione così da azzardare previsioni su un futuro in minima parte deterministico, ma sempre in bilico sulla voragine caotica.

A questo punto, temo (mi fa schifo anche solo pensarlo, ma tant’è…) che i 27 milioni di euro dati a Montezemolo per abbandonare il team Ferrari siano necessari, e che lo rimangano almeno fintanto che il prezzo di un chilo di pomodori sarà di pochi euro mentre lo stipendio di un professore di liceo ne varrà poco più di mille.

“Il mondo che fanno gli altri” è estremamente complesso e interconnesso. In esso c’è bisogno di creatività alta, ma anche della mancanza di essa per privilegiare una ripetitività utile, fondamentale, necessaria. A questo punto, temo che la mia incapacità di vedere l’utilità sociale della grande coglionaggine alimentata dai nostri post in rete, sia paragonabile alla mia incapacità di accorgermi quanto sia utile all’equilibrio globale di questo mondo una zanzara che di notte mi sveglia pungedomi sotto la pianta del piede.

Dopo una corsa del genere all’inseguimento della mia contraddizione, mi scopro un Menenio Agrippa de noantri, prigioniero di un loop mentale che mi fa temere di assomigliare a un redento capolista del PD. Quasi quasi mi vien da dire “Viva Montezemolo che mi consente di incazzarmi pensando ai suoi 27 milioni di euro; viva me!, perso in una melassa di teorie in attesa della rivoluzione culturale (che verrà, amen) e, perché no?, viva le zanzare.

Imbarazzo.

Impasse.

Mi auguro soltanto che il mio impianto elettrico, quello idraulico, il forno, questo mio computer, non decidano mai di suicidarsi.

Non saprei proprio dove mettere mani in cose che hanno fatto altri.

SZ

 

Sottofondo:

John Zorn, Naked City

http://grooveshark.com/#!/album/Naked+City/358739

Il cielo sopra Scicli

Armonica cosmica BN

 

Alle 21 di domani 6/9/2014 terrò una conferenza nel giardino della Chiesa di S.Giovanni, nella splendida cittadina di Scicli (RG) nota anche per essere lo sfondo di tante avventure del famosissimo commissario Montalbano.

Il titolo del mio intervento sarà: Il cosmo tra le note (di un astronomo divulgatore),  parafrasi di quello del mio libro Pianeti tra le note – appunti di un astronomo divulgatore, pubblicato nel 2009 dalla Springer

http://www.springer.com/astronomy/popular+astronomy/book/978-88-470-1184-7

Domani non sarò solo. A condividere il palco con me ci sarà il mio collega Daniele Spadaro, Astronomo Associato dell’INAF-Osservatorio Astrofisico di Catania.

Il titolo del suo intervento sarà: L’avventura dello studio dell’Universo

Alla fine delle due conferenze ci sarà spazio per chiacchiere, domande e, se il pubblico lo vorrà, un po’ di musica adeguata all’atmosfera del luogo.

Ringrazio Franco Causarano e Paolo Nifosì del circolo Vitaliano Brancati di Scicli per aver immediatamente appoggiato l’iniziativa mia e di Daniele e per aver supportato l’Osservatorio Astrofisico di Catania nell’organizzazione della manifestazione.

SZ

Vedute di MoS.K.A.

Lobi-globo

Avrei voluto scrivere queste righe già a fine Giugno.

Poi, non so perché, mi sono ritrovato a procrastinare. Forse l’ho fatto per far sedimentare quelle che all’inizio erano solo sensazioni forti.

É probabile quindi che io abbia ritardato questo momento nell’intento di far diventare una matassa di sensazioni, qualcosa di più facilmente modellabile, scalfibile tramite le parole, quasi si trattasse di un progetto di scultura piuttosto che di scrittura.

Ora mi sa che è giunto il momento di dare forma ai pensieri, ed eccomi qui seduto a provare a scheggiare la matassa con le prime parole-scalpello.

Era il 7 Giugno e, da poco arrivato a Catania per riprendere il lavoro al fianco di Giuseppe Cutispoto, responsabile delle attività divulgative dell’OACT, sono stato gentilmente invitato da Grazia Umana, direttrice dell’istituto, a partecipare come semplice osservatore ai lavori del congresso SKA (Square Kilometer Array) che si sarebbe svolto a Giardini Naxos dal 9 al 13/6.

Non mi sono certo fatto pregare e così ho iniziato a fare su e giù tra Catania e Giardini in compagnia di colleghi con i quali non ci vedevamo da un anno, cogliendo l’occasione per fare simpatiche chiacchierate su varie ed eventuali.

Intanto mi sembra doveroso dire in due parole cosa si intende per Square Kilometer Array.

Si tratta di un network di radiotelescopi posizionati parte in sud Africa, parte in Australia, che complessivamente andranno a disegnare sulla superficie terrestre una macchia estesa più o meno un chilometro quadrato.

Questi radiotelescopi lavoreranno in un range abbastanza ampio di frequenze e, grazie al posizionamento nei due continenti (distanza tra la stazione africana e quella australiana di circa 3000 chilometri) e alla grande superficie di raccolta della radiazione, raggiungeranno interferometricamente una precisione cinquanta volte superiore a quella degli odierni radiotelescopi.

Una rapida occhiata al programma del congresso (http://astronomers.skatelescope.org/documents/aaska14-presentations/), fa capire bene come si sia trattata di una lunga e interessante dichiarazione di intenti scientifici ad ampissimo raggio nell’attesa del varo ufficiale del progetto che partirà nel 2018.

La prima giornata è stata interamente dedicata alla cosmologia e a chiusura lavori risultavo essere del tutto intossicato dal concetto di reionizzazione che ho assaggiato in tutte le salse. Ho visto lo stesso grafico in almeno una decina di talk, ho seguito gli interventi di speaker decisi a usare SKA per studi cosmologici che differivano di un epsilon gli uni dagli altri e – cosa che trovo sia da evitare quando mi esibisco su un palco (credo che un palco sia sempre un palco e che un pubblico sia sempre un pubblico, anche se si parla di cosmologia) – la consapevolezza della sovrapposizione a volte parziale, a volte notevole, tra l’argomento del proprio talk e quello di chi precedeva/seguiva, non sembrava generare alcun imbarazzo in loro.

Anzi, cosa strana, sembrava proprio che a una maggiore sovrapposizione tra argomenti e modi espressivi, corrispondesse una maggiore soddisfazione di relatore e astanti. Si sa, repetita iuvant, specie in una fase preliminare alla partenza. Le ripetizioni servono a regolare bene tutti i parametri in vista dell’inizio così da essere sicuri che non vi siano (troppe) sorprese dell’ultim’ora. Questo implicitamente significa che cose analoghe avvengono anche in altri meeting e che quindi non ci sia stato niente di così grave e sconvolgente (ma neanche eccitante) in quel primo giorno di congresso.

Al di là di questa necessità oserei dire logistica di ripetere il già noto, non ho potuto fare a meno di notare ciò che già in molti hanno denunciato: a dispetto dei passi da gigante compiuti da un punto di vista tecnologico, quindi sperimentale, siamo fermi a concetti teorici vecchi di cento anni e, pur sapendo alla perfezione tutto ciò che c’è da sapere in un certo ambito (questo valeva per i relatori e molti convenuti, non certo per me, purtroppo), non riusciamo a sbloccarci da un impasse lungo un secolo.

Forse il problema è proprio dato dal fatto che tutti coloro i quali devono sapere certe cose, le sanno benissimo, anche se le sanno allo stesso modo, le dicono allo stesso modo, le progettano allo stesso modo.

Fatto sta che ci ritroviamo tutti ad affollare il margine estremo della ricerca (quella detta “di punta”) in attesa che siano gli strumenti a darci il LA per poter azzardare un timido passo in avanti.

Il balzo più recente che abbiamo compiuto – parlo della scoperta del bosone di Higgs – appoggiava su quella che forse è stata l’ultima teoria davvero interessante da un punto di vista di una certa fantasia scientifica, quella che consente di farsi un’idea di come stanno le cose in netto anticipo sulla creazione della tecnologia che potrebbe avvalorarla.

Prima di essere una scoperta, il suddetto bosone è stato una pura idea e questo lo rende interessante quanto le onde gravitazionali, il multiverso, le stringhe e pochi altri concetti che sono emersi da una certa capacità di guardare la Natura con occhi disintossicati dai trend, ovvero da ciò che viene pedissequamente fatto in tutti gli istituti di ricerca.

In questo periodo storico, le idee su come potenziare la tecnologia in nostro possesso si sprecano e sembra quasi che gli strumenti siano gli unici a poter indirizzare la comunità scientifica verso nuovi orizzonti della fisica.

La fantasia, perché di fantasia si tratta, di grandi visionari del passato non trova più posto nei congressi, nelle pubblicazioni, nei libri.

Nessuno si sbilancia a dire qualcosa di nuovo, ad azzardare nuovissime idee sconvolgenti, forse perché nuove idee non ve ne sono; forse perché si sta tutti attenti a che il vicino, se ne ha, non le esponga, stando pronti a tacciarlo di antiscientificità qualora decidesse di arrischiare un nuovo punto di vista. O forse il motivo per l’assenza di nuovissime idee (parlo di quelle capaci di sconvolgere un paradigma. Ovvio che piccole, nuove idee vengono proposte ogni giorno) è da ricercare nella constatazione che elaborarne vuol dire correre il rischio che esse non vengano considerate, riprese, approfondite da altri. Tutto ciò inciderebbe negativamente sull’impact factor, un parametro sociologico strettamente connesso alla piccola frazione di finanziamenti dedicati alla ricerca e che per questo tiene in ostaggio la comunità scientifica.

La paura.

Il terrore di dire la cosa sbagliata. Il timore di essere additati come stupidi, ignoranti, incapaci. Questa paura ha agito sulla mente di noi “uomini di scienza” per tutti gli anni della formazione universitaria. Di sicuro è cosa in parte sana, ma credo che non ci siano stati forniti sufficienti antidoti per vincerla a partire da un certo momento in poi e sono pochi coloro i quali riescono a emanciparsene così da andare al di là di essa. Gli stessi lavori di tesi sono sempre frutto di idee altrui, da potenziare, verificare, estendere così da non dover temere di incorrere in un giudizio negativo; così da non finire in un perpetuo indice dei casi risibili; così da non rischiare di finire in un eterno registro delle barzellette accademiche.

Ma quando si era studenti, nessuno ci chiedeva cosa pensavamo davvero; mai nessuno ci invitava a “giocare” con il linguaggio fisico-matematico imparato sui banchi universitari.

Il risultato è che oramai la scienza appare spesso essere una sorta di culto con dei mantra che vanno ripetuti e riconfermati.

Il dato nuovo ogni tanto si fa strada a forza fra la ridda di misure sempre simili o forse solo riguardate in modo sempre uguale ma, quando accade che qualcosa di inaspettato finalmente emerge, si scopre che si è trattato perlopiù di serendipity e non certo di folgorazioni che oramai appartengono solo alla storia della scienza e agli aneddoti circa figure mitiche di un recente passato apparentemente irrecuperabile.

Ecco che se Einstein pubblicava ben cinque sconvolgenti articoli nel giro di un anno standosene da solo e lontano dai tanti, oggi i tanti firmano insieme un articolo che, come ho già avuto modo di raccontare in un mio precedente post, non potrà mai essere sottoposto a una decente operazione di peer-review. Perché? Per il fatto stesso che tutti coloro i quali sono in grado di esaminarlo, sono lì tra i firmatari e non metteranno mai in moto un inopportuno conflitto di interessi scientifico.

Inoltre un altro dei principi aurei su cui si basa la ricerca, quello della riproducibilità dell’esperimento, viene perso per strada: dove mai si potrà tentare di riprodurre ciò che è stato misurato al CERN?

Insomma, mi sembra che l’enunciazione di cosa sia il metodo scientifico necessiti di una ritoccatina tale da risultare quantomeno coerente con quanto davvero si fa nella pratica scientifica di altissimo livello.

Quando mi trovo a divulgare e a raccontare come proceda la scienza per abbattere il rischio di errori tramite il controllo delle affermazioni condotto con metodo scientifico, spesso mi sento un millantatore che racconta il falso per puro amore di una certa retorica epistemica e/o per eccesso di corporativismo.

Il problema, oltre che epistemologico, credo davvero sia di ordine didattico: una volta impartiti i rudimenti del linguaggio che va usato per colloquiare con la Natura – La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l’universo), ma non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne’ quali è scritto… – bisognerebbe affrettarsi a spiegare agli studenti come giocare con esso, come fare per imbastire discorsi propri in questa lingua; come fare a intavolare personali chiacchierate con ciò che circonda tutti. Nulla di tutto ciò. Ci ritroviamo spesso a essere ragionieri del computo scientifico, continuatori pedissequi di meravigliose, interessantissime litanie (che, tra l’altro, ritengo assolutamente necessarie, da continuare), ma sono davvero pochi i docenti che si sognano di dare fiducia alla capacità del singolo così da spingerlo a tentare di trovare un modo nuovo di guardare il mondo.

Nessuno ci insegna questo, ma tutti ci lasciano intendere come stare nel solco di ricerche che hanno già dato ottimi frutti. Ecco che le virtù di chi lavora in ambito scientifico diventano nella maggioranza dei casi la costanza, l’abnegazione, la precisione, la puntualità, l’attenzione e una certa capacità di capire dove si è posizionati, di capire cosa si può dire e cosa proprio non può essere detto; quando parlare e quando far parlare il proprio capo. Insomma, bisogna aver presente in quale anello della filiera si è arrivati e comportarsi di conseguenza, stando attenti a non uscire dal solco. E se non si spingono i giovani a mettere in discussione tutto, non credo ci si debba aspettare che siano gli anziani a farlo.

Ovvio che non pretendo di compendiare in questo discorso tutti e tutta la ricerca che viene compiuta nel mondo. Io stesso ho avuto la fortuna di imbattermi in alcuni docenti illuminati e inoltre non mi è dato sapere come vanno le cose oltre il limitato orizzonte che si si osserva dal mio computer. In ogni caso, se su grande scala la situazione differisse davvero da come la descrivo, credo avremmo meeting scoppiettanti, pieni di interventi stimolanti e ci troveremmo a vivere in un mondo in cui, a furia di nuove teorie e idee, avremmo già da tempo trovato un bel po’ di soluzioni aggiuntive a problemi interessanti.

Certo, avremmo di sicuro a che fare con una certa quantità di idee sbagliate, da smaltire, ma che credo risulterebbero affascinanti e – perché no? – finanche trainanti per trovarne altre più probabilmente “vere”. Senza scomodare i soliti noti, da quanto tempo non ci imbattiamo in un Fred Hoyle con le sue trovate a volte strampalate ma di sicuro geniali? Riuscite a immaginare oggi un giovane scienziato che prenda la parola in un congresso internazionale per esporre qualcosa di equivalente alla teoria dello stato stazionario?

Se l’aspetto inerente una certa fantasia scientifica non viene curato nelle università e nei centri di ricerca, trovo normale che poi si abbia uno eccesso incontrollato e incontrollabile di fantasia pseudo-scientifica nel mondo che circonda l’accademia.

Lasciare il campo delle idee libero a qualcuno, vuol dire trovarlo occupato nel giro di poco tempo da squatter del pensiero, altrimenti detti complottisti e analfabeti scientifici.

Insomma, la Big-Science è necessaria, di questo ne sono stra-convinto.

Ciò che non mi convince e che scopro non convincere nemmeno i miei colleghi Antonio Frasca, Ettore Marilli e Corrado Trigilio, è che oramai la scienza debba procedere solo lungo le linee tracciate nei grandi progetti.

Buco Nero ginevrino -  Angelo Adamo - Questa illustrazione è stata pubblicata per la prima volta sulla rivista SISSA News, House-Organ della SISSA di Trieste

Buco Nero ginevrino – Angelo Adamo – Questa illustrazione è stata pubblicata per la prima volta sulla rivista SISSA News, House-Organ della SISSA di Trieste

Si tratta di percorsi che, dovendo combattere con ingenti attriti socio-politici, portano a inventare strategie inaspettate di coinvolgimento del pubblico. Esse vanno dalla diffusione di paure per un possibile buco nero ginevrino che si sarebbe potuto creare in seguito all’accensione di un LHC potenziato (2008), all’articolo sulla “gara di velocità” tra fotoni e neutrini, vinta dai bit che trasportavano la falsa e prematura informazione.Falsa partenza

Ben venga la Big-Science con la quale potremo finalmente arrivare a scoprire ciò che giace a distanze enormi da noi, ai due estremi micro e macro del nostro universo, ma lavorare con la little-science, a esempio quella dei piccoli telescopi, potrebbe essere la palestra per stimolare fantasie che ora dormono per il nostro erroneo ritenere che degli oggetti raggiungibili con strumenti normali sappiamo già tutto ciò che di interessante c’era da sapere.

Sarebbe bello almeno allenarsi a rivedere con sguardi diversi, prima educati e poi rieducati a essere maleducati, tutto ciò che crediamo di conoscere così bene da non richiedere ulteriori studi.

Mi viene in mente una bella storiella circa un esame di Fisica 1 che aveva per oggetto il calcolo dell’altezza di un palazzo mediante l’uso di un barometro e come protagonista uno studente che proprio non voleva saperne di ripetere la lezione così come sapeva che il prof avrebbe gradito sentirla.

Tornando a SKA, di sicuro premierà posizionare due “pezze” radiotelescopiche in Africa e Australia e scopriremo cose incredibili, ne sono certo. Immagino quindi che, facendo un fantascientifico e fantapolitico passaggio al limite della funzione progresso della ricerca, l’optimum possa essere rappresentato dall’uso di una quantità enorme di radiotelescopi che vada a ricoprire, se non proprio l’intero orbe terraqueo, almeno la parte di terre emerse.

Una terra che assomigli più a un occhio di mosca che a un pianeta ci donerebbe una visione completa, profonda, dettagliata dell’ambiente cosmico nel quale ci troviamo a fluttuare.

Mettere insieme i segnali provenienti dalle antenne di SKA richiederà una potenza di calcolo incredibile e per capire la portata del problema informatico e ingegneristico da risolvere, vi invito a dare un’occhiata alla seguente pagina:

https://www.skatelescope.org/signal-processing-2/

Un occhio del genere implica una ricerca nella ricerca.

Già, perché programmare questo network di radiotelescopi per coordinarne i numerosissimi segnali così da farli convergere in modo adeguato nella realizzazione di visioni estremamente dettagliate di oggetti posti molto, molto lontano da noi nello spazio e nel tempo, implica sforzi intellettuali enormi che immagino sconfinino anche in ricerche di Intelligenza Artificiale.

Si tratterà di far cooperare milioni di assoni e neuroni di fibre ottiche e rame il cui schema di connessioni prevedo assomiglierà molto da vicino a una possibile cartina delle nostre connessioni cerebrali.

Il nostro occhio non è un luogo dove le idee vengono elaborate, ma fa intimamente parte di quella rete posta più a monte e con essa coopera nell’elaborazione del concetto di realtà esterna.

Devo aver letto da qualche parte che la specializzazione delle cellule nervose dell’occhio è un processo capace di lavorare su cellule inizialmente simili a quelle che abbiamo nell’encefalo, differenziandole in un secondo momento per ottenere da esse prestazioni diverse. Forte di ciò, spero di non sbagliare troppo spingendomi ad affermare che una certa “intelligenza” corra già lungo i nostri nervi ottici e chissà: magari la primissima forma di intelligenza è stata proprio di tipo visivo.

Si pensi poi a quanto le nostre capacità intellettive siano debitrici nei confronti dell’evoluzione del nostro senso visivo: la visione stereoscopica e il posizionamento degli occhi nella parte alta della struttura corporea grazie alla conquistata posizione eretta, ha regalato ai nostri antenati la possibilità di rivestire un ruolo di sicuro dominio nell’ecosistema terrestre.

Credo che andare a costruire una rete di telescopi come SKA sia il risultato, forse inconsapevole, dell’aver capito che non possiamo più avere idee davvero originali su una Natura che ora abbisogna di interlocutori più capaci con i quali colloquiare. É possibile che per avere nuove e sconvolgenti idee dovremo attendere che a elaborarle, o quantomeno a suggerircele con la produzione di dati inaspettati, siano le nostre macchine di prossima generazione che ci accingiamo a costruire.

Una simile, possibile ammissione di incapacità ad andare avanti nel dialogo tra la realtà e il solo cervello umano non collegato ad appendici che ne potenzino le prestazioni mi affascina, ma mi fa anche un po’ paura e voglio credere che vi sia ancora margine per delle idee completamente nuove e umane, per delle visioni scientifiche sconvolgenti in anticipo sui tempi tecnologici, quindi politici.

Se nella prima parte di questo articolo mi sono concentrato sulla sola prima giornata del meeting è anche perché quel giorno sui giornali è uscita la notizia inerente un computer che sembrava aver superato il famoso test di Turing (http://loebner.net/Prizef/TuringArticle.html) colloquiando con un uomo in modo da fargli credere di essere il sedicenne russo Eugene Goostman e non una macchina.

Rileggendo la conversazione intercorsa tra il computer e i suoi interlocutori, credo risulti chiaro quanto sia stato prematuro gioire per il risultato annunciato e ancora una volta, come nel caso della presunta scoperta del neutrino superluminale, possiamo registrare la maggiore velocità dell’informazione sul reale contenuto informativo (sembra proprio un ossimoro).

Una maggiore velocità frutto, anche questa volta, dell’accelerazione impartita da strategie pubblicitarie che poco hanno a che fare con la scienza e che invece molto condividono con la necessità di sensibilizzare il pubblico alla bellezza della ricerca e della sua necessità (e delle sue necessità…).

In ogni caso, ciò che mi interessa mettere in evidenza è che la strada sulla quale procediamo è quella che prima o poi condurrà a una emancipazione di pensiero delle macchine, fine ultimo (almeno credo) della ricerca nel campo dell’Intelligenza Artificiale.

Aver letto la notizia sul test di Turing proprio nel giorno in cui si parlava di una rete di telescopi che assomiglieranno a una rete neuronale estesa, mi ha rincuorato.

Probabilmente stiamo generando un meta-organismo che sarà capace di andare oltre localismi, piccole meschinità, razzismi e altre aberrazioni che tipicamente affliggono i nostri piccoli encefali da passeggio. Esso avrà le dimensioni del nostro pianeta, avrà la fantasia che al momento non riusciamo ad avere e sarà migliore di noi, salvo poi scoprire che replicherà i nostri difetti quando entrerà in relazione, se mai ci riuscirà, con altri meta-organismi lontani.

Magari ci stiamo avviando a diventare hardware organici posti a valle di un processo scientifico-creativo che ci renderà classificatori di spettri di idee visive suggerite dalle macchine della Big-Science. Nostro ruolo sarà quello di sistemare questi fantasmi in un quadro più o meno coerente e assolveremo le funzioni quasi da App al servizio di una intelligenza visiva che ancora non potrà fare determinate operazioni.

Da amante della fantascienza, questa visione di un moderno nous inteso alla maniera di Anassagora mi soddisfa pienamente.

Illustrazione apparsa per la prima volta sul trimestrale SISSA News, house organo della Sissa di Trieste

NOUS – Angelo Adamo – Illustrazione apparsa per la prima volta sul trimestrale SISSA News, house organo della Sissa di Trieste

Spero solo che vi sia ancora un po’ di margine per divertirci con quello che siamo e che da sempre sappiamo fare molto bene.

Avere nuove, grandi idee può ancora essere una prerogativa del genere umano e, senza dover abbandonare le migliori che abbiamo elaborato in passato, credo sia il caso di compiere ulteriori sforzi per trovarne qualcuna prima di abdicare del tutto a favore di una intelligentissima e fantasiosissima GAIA*.

SZ

 

VIdeo del mio fast talk (5 minuti) del 3/10/2014 ALL’OAPD sugli argomenti di questo post. Ero al convegno Pubblica, blogga, twitta sulle nuove tecniche di comunicazione per ricercatori (info alla pagina http://www.scicomm.it/p/relatori.html):

* Un mio racconto parla del nostro pianeta proprio in questi termini. Lo si trova nella raccolta Storie  di Soli e di Lune – racconti di sogni, racconti di scienza, Giraldi, Bologna, 2009  http://www.giraldieditore.it/index.php?option=com_abook&view=book&id=804:storie-di-soli-e-di-lune&catid=17:racconti&Itemid=175

Sottofondo:

Herbie Hancock – Maiden Voyage

http://grooveshark.com/#!/album/Maiden+Voyage/246017