NULLA DIES SINE LINEA

Riporto qui per intero un articolo che ho pubblicato ieri sul sito Doctor Harp (https://www.doctorharp.it/) per il quale curo la mia rubrica HarmonicA Mundi

Come è noto, la massima di Plinio Il Vecchio (I secolo d.C.) che leggete nel titolo di questa rubrica è stata estrapolata dalla sua “Storia naturale”. Essa era in origine riferita alla pratica della pittura e viene di solito usata per sottolineare l’importanza dell’impegno costante da profondere in qualsiasi attività umana che lo richieda: lo studio, lo sport, la musica, … Quale modo migliore, quindi, di intitolare una rubrica dedicata allo studio di brani musicali?

A dirla tutta, in un primo momento avevo pensato di parafrasare questa massima così da renderla più sinceramente adatta a ciò che davvero succede nella vita di un musicista il quale, data la situazione attuale dei “lavori culturali”, è probabile si guadagni da vivere non solo con la musica, ma anche con un più che necessario e dignitoso “daily job” che gli consenta di emanciparsi da ansie varie, come anche da proposte musicali non soddisfacenti da un punto di vista professionale.

È proprio ciò che capita al sottoscritto, anche se ho motivi per ritenermi davvero fortunato: il mio lavoro fisso non è un ripiego, bensì la realizzazione, “da grande”, di un’altra mia passione giovanile tanto forte quanto lo è la musica.

Tornando al tentativo di parafrasi che mi ero prefisso di realizzare, non ho potuto fare a meno di notare che il gioco si era nel frattempo fatto comunque interessante: ridimensionare il significato della massima di Plinio così da renderlo, in latino, “pochi giorni senza linea” in luogo di “nessun giorno senza linea”, mi costringeva a pormi domande circa l’uso di quella lingua che non frequentavo da più di trent’anni (37, per essere precisi… Sì, lo so: avrei potuto scrivere “da quasi quarant’anni”, ma non volevo infliggermi troppe frustrazioni).

Complice forse la grande distanza temporale che mi separa da quando, al liceo, tradurre poteva anche essere fonte di stress da prestazione scolastica, confesso che cimentarmi di nuovo con quella lingua mi ha alquanto divertito. Volendo cambiare “nessun giorno” in “pochi giorni”, mi è sembrato in un primo momento naturale porre quel sostantivo all’accusativo, sottintendendo quindi il verbo “trascorrere”.

In pratica, nella mia interpretazione, quella frase doveva essere una sorta di esortazione, se non addirittura un precetto alla stregua di quell’altro famosissimo monito (“Non entri nessuno che non conosca la geometria”) posto all’entrata dell’Accademia di Platone: “Non si trascorra alcun giorno senza aver tracciato una linea (!)”, ma la possibilità che invece si trattasse di una semplice constatazione, quindi della semplice presa di coscienza che per un serio professionista dell’arte della pittura “non trascorre nemmeno un giorno senza aver tracciato una linea”, mi ha portato a rivedere un po’ la faccenda con la lente della grammatica: se “dies” fosse stato neutro, la mia parafrasi avrebbe preso la forma “pauca dies sine linea”, ma dal vocabolario risultava che quel termine può essere sia maschile che femminile (oggi diremmo “fluido”), ma di certo non neutro. Stando così le cose, era chiaro che il “dies” del titolo non è un accusativo, bensì un nominativo; avevo torto e la frase, ahimè!, risultava essere una semplice constatazione.

Una volta… constatatolo, non potevo che rendere la mia parafrasi con “pauci dies sine linea”; roba da far inorridire i puristi (tramite una comune amica, ho contattato un bravo insegnante di lettere esponendogli il problema e, come c’era da attendersi, costui mi ha giustamente invitato a rivalutare la mia intenzione di cambiare quel testo…).

Ecco quindi spiegata la scelta di lasciare come titolo di questa sezione la frase originale di Plinio, seguita da tutta questa spiegazione che, ne sono sicuro, potrebbe meritare di essere a sua volta completata da un “esticazzi!” se non fosse che anche quel giochino linguistico in quel giorno di circa tre settimane fa ha preso il valore di ginnastica mentale, quindi di “linea” tracciata quantomeno per non rimanere col cervello fermo.

Ci sono giorni in cui suono, altri in cui penso alla musica senza emettere una nota; altri ancora in cui leggo, disegno, scrivo, calcolo, ascolto, … Insomma, l’importante è tenere impegnato il “muscolo cerebrale” con diversi tipi di ginnastica, ma non voglio certo farvi temere alcunché: giuro che in questa sezione farò confluire solo quei “gesti mentali” che hanno a che fare con il suonare, e con il farlo usando perlopiù la mia, anzi, la “nostra” armonica.

Eccovi allora, per iniziare questa rubrica, un brano che ho amato molto.

Si tratta del tango in 6/8 El Cacerolazo: un brano che ho scoperto grazie al mio amico Pierpaolo Petta, grande fisarmonicista con il quale mi vanto di condividere più di un progetto musicale, e composto dal fantastico sassofonista Javier Girotto; un tripudio di II-V-I – quasi un Autumn leaves argentino – dalla struttura particolarmente stimolante che, a parte una battuta introduttiva, risulta suddiviso in quattro sezioni, ognuna della durata di 16 misure. Inizia in G-, prosegue poi con una II-V-I nella tonalità di Ddalla quale, con una sequenza di accordi a distanza di quarta armonicamente ondivaga e un bridge di altri accordi diminuiti e semidiminuiti, modula in E-. Da lì, poi, in modo molto naturale, arriva alla sezione finale che prevede un ritorno alla stessa tonalità con la quale il brano era iniziato.

É una composizione a mio parere molto triste – il titolo si riferisce a una particolare forma di protesta adottata nei paesi latini dove per fare rumore davanti ai palazzi del potere si usa percuotere pentole e casseruole varie -, ma di una tristezza frenetica; una disperazione capace di togliere il fiato, specie nell’interpretazione suonata a circa 140 bpm dello stesso Girotto accompagnato dal grande Luciano Biondini alla fisarmonica. (Fonte: https://youtu.be/0KYT8-LbE5A?si=GUYBrI8jO2dKe1Wb), una versione dalla quale ho rubato la bellissima idea di usare il pedale di Mi nella sezione in E-.

Come si può evincere dalla visione del mio video nel quale mi sono divertito a improvvisare anche in E- (nella versione originale, per tutta l’impro si rimane nella tonalità di G-), ho registrato il brano fermandomi a 130 bpm perché, pur essendo riuscito a studiarlo fino a portarlo alla stessa velocità del link più su – lo studio con metronomo fa miracoli! – alle volte, nella sezione in D, durante i salti di terza minore/maggiore, il trascinamento dello strumento mi faceva “sporcare” la linea melodica col suono di ance intermedie che in quel momento invece avrebbero dovuto tacere.

Un problema che in fase di studio ho in parte risolto 1) suonando tutte quelle note come se sulla testa di ognuna di esse vi fosse segnato il puntino dello “staccato”, e 2) adottando in alcuni passaggi la tecnica del tongue-shifting, ma che ad alte velocità risulta comunque difficile eliminare del tutto.

Bisogna accettarlo: pur essendo convinto che vi siano in giro giovani armonicisti capaci di fare cose fino a poco tempo fa ritenute impossibili, è inevitabile che passaggi particolarmente facili per strumenti sui quali si muovono solo le dita, si rivelino estremamente difficili e scomodi per altri come il nostro sui quali bisogna muovere mani, testa, bocca, magari ragionando pure, a grande velocità, circa quali fori scartare e quali scegliere (senza vederli), in quali soffiare con o senza premere il registro e in quali aspirare con o senza premere il solito registro, …

Studiare questo brano si è comunque rivelata un’ottima occasione per riprendere pure lo studio del pianoforte, quindi dell’armonia: tutte attività che, come il latino, tengono le meningi alquanto occupate.

Insomma, se non ho studiato sullo strumento proprio tutti i giorni, almeno so che lo scorso 12 Dicembre 2023 ho “tracciato la mia linea”. Una linea che oggi rinforzo scrivendo queste righe – quindi non suonando, ma ragionando di musica – e raccontandovi abbastanza nel dettaglio la preparazione del brano che trovate nel video.

Spero che almeno a qualcuno di voi serva da stimolo per prendere la sua matita e riempire di linee, righe e gesti nuovi questa splendida giornata.

SZ

Ragionando di Armonica, Jazz, Armonica & Jazz

L’11 Gennaio scorso, su invito di Simone Nobile che guida con maestria il ciclo di incontri Harmonica Hub, ho tenuto un seminario sul tema “Armonica e Jazz”. A parlare con me c’era il grande Leonardo Triassi, amico, armonicista e creatore del sito Doctor Harp nel quale giorni fa ho pubblicato l’articolo cre trovate più in basso, nato dalle idee che prima dell’incontro avevo buttato giù sull’argomento.

In esso troverete gli argomenti di cui avrei voluto parlare, quindi tutto ciò che nella diretta ho detto e tutto ciò che per vari motivi – non ultimo il fatto che il tempo stringeva – avrei voluto dire e che poi invece ho omesso.

Buona Lettura.

Armonica e Jazz


Il titolo che ho dato a questo breve scritto riflette il disagio che avverto ogniqualvolta mi trovo a dover discutere dell’ ”armonica jazz”: una associazione tra le due parole che ha sempre il potere di farmi sentire un po’ in errore. Quanto sto per dire potrà forse sembrare un’inutile pignoleria, ma me la si conceda: nonostante parlandone così, al bar, venga spontaneo a tutti, quindi anche al sottoscritto, dire “armonica jazz”, pensandoci bene preferirei usare la locuzione “l’armonica nel jazz”: di sicuro qualcosa di meno comodo e altisonante, ma che mi consente di descrivere meglio, e in modo più onesto, l’annaspare del nostro strumento nel mare magnum di un genere davvero vasto che accoglie noi armonicisti come fa con chiunque voglia farsi una nuotata in quelle acque. Un mare balneabile, quindi, che però di certo con la musica prodotta dal nostro strumento non si identifica se non per l’operato di pochissimi interpreti di grande fama e vaglia, in testa il belga Jean “Toots” Thielemans.


Discorso diverso credo valga invece nel caso dell’espressione ”armonica blues”: un modo di indicare l’uso di quel piccolo aerofono che trovo più appropriato; è noto, infatti, che la diatonica, suonata nei vari stili che ci ha descritto Gianni Massarutto nel suo seminario1, può di diritto sentirsi parte importante di alcune correnti di quel genere musicale in quanto piombata sulla scena americana ancora in tempo per poter “incidere” sullo sviluppo di quel genere all’interno del quale si è ritagliata uno spazio tutto suo.

Figura 1 – Illustrazione che nel 2017 mi fu gentilmente richiesta da Paolo Santini per adornare l’aula di Armonica della “Scuola di Musica Moderna” di Ferrara dove nel tempo, ben prima di chi scrive, hanno insegnato lo stesso Santini, Gianandrea Pasquinelli e Paolo Giacomini

Nell’affermarlo, la mente va a un periodo storico in cui per i musicisti neri meno fortunati, ma non solo per loro, desiderosi di esprimersi senza dover affrontare spese del tutto fuori dalla portata delle loro tasche, gli strumenti elettivi erano di sicuro la voce, la chitarra, il bidofono, qualche percussione povera come il washboard e la nostra armonica.

Più o meno negli stessi anni in cui per l’armonica blues si sviluppa il cosiddetto stile pre-war, nasce la cromatica e va da sé che il periodo in cui questo nuovo personaggio della famiglia degli strumenti ad ancia libera muove i suoi primi passi si sovrappone in parte a quello della diatonica, sua sorella maggiore, che già possedeva una sua tradizione ben consolidata.
Mi piace pensare che sili imitativi tipici del blues come il fox-chase e il treno – modi di suonare la diatonica nati chiaramente in un mondo rurale animato dai suoni tipici della campagna la cui calma piatta a volte veniva interrotta da battute di caccia o ferita, quasi, dallo sferragliare di sbuffanti treni a vapore – siano espressione dello stupore di chi abitava quelle contrade quando si trovava ad assistere ai passatempi dei ricchi possidenti o allo spettacolo offerto dalle novità tecnologiche in arrivo dai grandi, caotici e lontani centri cittadini.


Figura 2 – Vagoni Diatonici


Uno stupore che di certo provava in misura alquanto minore chi invece viveva la sua quotidianeità standosene sempre immerso nel frastuono cittadino, tra grattacieli, strade trafficate, smog, semafori, folla, vita frenetica. Sospetto che in questo paesaggio sonoro fosse piuttosto la rara irruzione del silenzio ad attrarre l’attenzione, e non un rumore particolare, per quanto forte, fra i tantissimi che lì si sentivano e che colmavano l’orizzonte uditivo dei cittadini.
In questo ambiente urbano si svilupparono diversi stili nati, come è noto, dall’incontro felice della musica nera con altre tendenze musicali in arrivo dal vecchio continente. In particolare, dall’incrocio tra gospel, blues, spiritual, …, e musica colta europea pare abbia preso vita il jazz.

Fig. 3 – La rumorosa e distorta motrice (matrice?) del blues

A questo incrocio di suoni ordinati e tradizioni consolidate aggiungerei, come si diceva, anche l’apporto dei frastuono entropico prodotto dalle città e dai poli industriali. Un frastuono la cui persistenza, che faceva da contraltare alla episodicità di simili eventi rumorosi in ambiente rurale, immagino abbia imposto una certa revisione del concetto stesso di suono, di armonia, di consonanza e dissonanza, di sinfonia e, in definitiva, di musica; basti, a tal proposito, pensare alle composizioni di Edgar Varese e a quanto nei primi decenni del ‘900 proponevano i futuristi italiani come Luigi Russolo2, inventore degli “intonarumori”, e Francesco Balilla Pratella.
Trovo alquanto normale, quindi, che nell’ambiente cittadino, a partire da un certo momento in poi, l’imitazione interessante da compiere sul nostro come anche sugli altri strumenti non sia stata più (solo) quella dei suoni delle solitarie periferie agricole e che una certa “attenzione mimetica” dei musicisti si sia concentrata soprattutto sulla riproduzione della sovrapposizione di rumori assordanti; delle parlate straniere, del mescolarsi di chiacchiere “dissonanti” e temi differenti e spesso sconnessi; delle urla smodate, degli scontri di idee e delle coralità organizzate dei cortei, nonché di tutto ciò che erano in grado di produrre strumenti come legni, ottoni, cordofoni, … di chiara origine bandistica e sinfonica, facilmente ascoltabili in ambito urbano: sassofono, tromba, trombone, clarinetto, pianoforte, violino, … (a proposito di imitazione del suono e del “piglio” di altri strumenti, consiglio l’ascolto di Larry Adler in una famosa circostanza fortunosamente documentata nella quale si trovò a suonare con Django Rheinardt3.


Immagino quindi che gli armonicisti si siano trovati di fronte alla necessità di provare a imitare le voci degli altri strumenti, ma anche i generi musicali e i vari stili popolari importati dal vecchio continente che proprio in quel periodo stavano progressivamente facendo il loro ingresso sulla scena americana grazie al continuo apporto culturale fornito dal fenomeno dell’immigrazione.
Ad esempio, dall’ascolto del modo di improvvisare con ottave e accordi di Eddie Shu, al secolo Edward Schulman, sassofonista della formazione capitanata dal grande batterista Gene Krupa e citato, se ricordo bene, in una monografia dedicata a Toots Thielemans4 come il primo armonicista jazz della storia, si può capire come egli fosse stato chiaramente folgorato dallo stile fisarmonicistico di quegli anni: una influenza che potrebbe derivare dalla musica francese e da quella italiana, entrambe giunte in america con i nostri nostri parenti andati lì a cercare fortuna. Inoltre, ascoltandolo, non si può fare a meno di notare che, pur essendo un sassofonista/clarinettista/trombettista capace di esprimersi col linguaggio tipico parkeriano di quegli anni, quando suonava la sua armonica cromatica, sceglieva di non fraseggiare come faceva sul sax tenore, preferendo piuttosto suonare “sezioni fiati” o scale arabe e naturali armoniche ottenute con un timbro molto classico, alla Adler, quasi a indicare che il nostro strumento era per lui un modo di evocare quando atmosfere tipiche del repertorio colto, quando e soprattutto suggestioni esotiche, lontane, orientaleggianti5.


Nel suo Jazz Harp6, forse l’unico libro su rapporto tra il nostro strumento e quel genere musicale – un titolo che introduce e, a parer mio, riflette proprio quel problema di cui parlavo in introduzione a questo articolo – Richard Hunter scriveva: “il jazz è un nuovo mondo da esplorare per gli armonicisti e ha un solo eroe: Toots Thielemans” e chiudeva il periodo affermando che, ne era convinto il meglio doveva ancora venire.

Dalla pubblicazione del libro di Hunter a oggi molti altri importanti personaggi si sono affacciati sulla scena mondiale, e ce n’è per tutti i gusti. A parte Stevie Wonder, che pur non essendo un jazzista, con la sua cromatica “canta” su strutture di sua composizione di certo classificabili come “jazzistiche”, possiamo citare il brasiliano Mauricio Heinhorn, il tedesco Hendrick Meurkens, gli americani Leo Diamond, Ron Kalina, William Galison, Mike Turk, Howard Levy; lo svizzero Gregoire Maret, il francese Olivier Ker Ourio, lo spagnolo Antonio Serrano e tantissimi altri provenienti da diverse parti del mondo.


A questo elenco di nomi mi piace pensare che sarebbe il caso di aggiungere anche quelli di eroi della terra di mezzo ai quali è toccato traghettare il nostro strumento da una sponda, quella blues, all’altra jazzistica. Per un elenco di simili personaggi rimando a testi più completi come, ad esempio, quelli di Krampert7 e di Pasquinelli8. Personalmente, da cromatico, trovo sia in tal senso pregevole l’apporto fornito da Paul Delay9, un bluesman di razza che con la sua musica non ha mai fatto mistero della fascinazione da lui subita per gli stimoli che gli arrivavano dall’ambito jazzistico.

Anche se spesso, troppo spesso dimenticati a causa di una certa inveterata tendenza a esaltare tutto ciò che viene da fuori i confini del nostro bel paese, tra i paladini riconosciuti dell’armonica in ambito jazz sarebbe di sicuro il caso di annoverare anche molti italiani. Per evitare di incorrere in un classico problema di conflitto di interessi, preferisco comunque lasciare ad altri il compito di indagare sui nomi della nostra nazionale.

Quanto detto fin’ora conduce quindi ad affermare qualcosa che ha del lapalissiano, ma che ritengo davvero importante: studiare l’armonica jazz significa semplicemente studiare… il jazz tentando di imitare soprattutto quello prodotto da musicisti che armonicisti non sono.

Cosa esso davvero sia è un problema che, come si diceva più su, ha a che fare con la bellissima storia dell’incrocio fra tradizioni musicali provenienti da varie parti del mondo e combinate insieme nella fucina americana. Suonarlo, invece, è un problema che chiama in causa alcuni parametri musicali fondamentali come, semplificando un bel po’, l’armonia, il ritmo, l’accentazione e la pronuncia: quattro parametri, specie gli ultimi tre, capaci di rendere chiaro come mai spesso, piuttosto che parlare di jazz, si preferisca discutere di “linguaggio jazzistico” o di “idioma jazzistico”: si tratta infatti, e a tutti gli effetti, di una lingua: un linguaggio musicale con precise regole sintattiche e grammaticali, con una sua pronuncia corretta e varie inflessioni locali o dialettali; e ancora con cadenze, con modi di dire che spesso si ripetono, con aforismi da mandare a memoria, con detti (pattern), con stili narrativi e con classici della sua letteratura che ha subito e subisce di continuo contaminazioni provenienti dal contatto con altre culture “limitrofe”.


L’analogia con la lingua e con un certo modo concitato e sincopato di raccontare vicende quotidiane vissute nelle stressanti e popolose città – un modo che, quando non si tratta di ballads, si pone chiaramente come alternativo a quello stanco e cadenzato tipico di molto blues – credo possa essere pienamente compresa notando come la tradizione jazzistica si muova perlopiù su un repertorio di brani, i cosiddetti standards, composti per il musical. Si tratta quindi di composizioni che prevedevano un testo cantato e che, per questo, hanno continuato a dare una certa importanza alla figura del cantante jazz. Crooners e Ladies a parte, per cogliere appieno la similitudine tra un certo tipo di discorso parlato e l’improvvisazione, invito ad ascoltare non solo gli svolazzi scat di Ella Fitzgerald10, ma anche il cosiddetto vocalese: un genere promosso da vari personaggi, come ad esempio, Jon Hendricks11, i quali, per elaborare il loro originale apporto alla storia della vocalità jazzistica, credo siano partiti proprio dalla profonda similitudine esistente tra lingua parlata e improvvisazione, gettando forse le basi per altre correnti più tarde come il rap.


Per quanto detto fin qui, spero appaia dunque chiaro come suonare jazz risulti essere un gioco estremamente complicato e intellettuale di rimandi, sottintesi, citazioni al quale si giunge non certo senza un allenamento delle mani, delle dita, ma anche e soprattutto dell’orecchio; sì, perché bisogna ascoltare tantissimo, imparare interi assoli da cantare per meglio mandarli a memoria facendo proprie le note delle frasi (si parla anche e spesso di “fraseggio jazzistico”), i respiri e le loro interruzioni; il ritmo, l’accento, le intenzioni di solisti, compositori, arrangiatori e le risposte degli strumenti che accompagnano, accolgono o a volte contrastano le “provocazioni” di chi in quel momento si sta facendo carico di costruire il solo.


Spesso l’attenzione di chi decide di cimentarsi con questo genere è tutta e solo per le note suonate dai suoi beniamini, ma facendo seguito a studi scientifici che hanno messo in risalto come la comunicazione verbale pesi solo e sorprendetemente per il 7% della nostra comunicazione globale, ritengo che, rinverdendo la già suggerita analogia tra musica improvvisata e lingugaggio, si possa traslare questo dato numerico dalla linguistica alla musica supponendo che ritmo e accento, intenzione e sensazione abbiano molto di più da dirci delle note-parole di quanto non si sia portati a credere (tra l’altro, quando parliamo per strada con qualcuno, di sicuro non leggiamo un copione prestabilito ma “andiamo a braccio” improvvisando grazie alle parole che abbiamo imparato a usare, destreggiandoci con toni di voce quando pacati, dolci, sereni, quando più nervosi, aggressivi, preoccupati, … Praticamente improvvisiamo sulla “struttura armonica” dell’argomento della discussione. Più jazz di così…).


E poi c’è l’armonia: il contesto, l’orizzonte entro il quale si svolge la chiacchierata jazzistica.


Qualcuno potrebbe chiedere, “in cosa differisce una discussione del genere appena descritto da quello di un rocker, di un musicista pop o di un altro che suona musica celtica?”. L’armonia fornisce in tal senso un chiaro distinguo che ci viene in aiuto nel tentare di dare una riposta quanto più esaustiva possibile a questo quesito: l’armonia jazzistica, infatti, costruita com’è su accordi resi più complessi e sapidi di quelli usati negli altri generi musicali dall’uso di quadriadi, di “innesti” di note estranee alla tonalità che tengano alta la tensione espressiva e di strutture che rilanciano continuamente la discussione con l’introduzione di “aspetti” e “sotto-argomenti” sempre nuovi e non banali del discorso iniziale, è costruita in modo da stimolare idee di un tipo particolare, che possano condurre il musicista in direzione di una ricerca degli angoli più sconosciuti o meno battuti del tema iniziale.


Il blues, il folk, la musica pop possiedono complessità in media abbastanza limitate. Pur subendo spesso l’influenza di stili più difficili, risultano essere tarati sui gusti e quindi sulla capacità di comprensione e di attenzione, di un pubblico che non ha un orecchio così abituato da riuscire a cogliere, e magari apprezzare, sfumature armoniche che a un orecchio non allenato potrebbero risultare come accrocchi cacofonici di suoni disordinati e forse anche fastidiosamente provocatori.


Temo di incorrere nelle ire di molti affermando qui che, a parte le solite eccezioni, il blues, parente stretto del jazz e di sicuro da annoverare tra i suoi genitori, contempla poche tecniche base, una armonia perlopiù semplice e ripetitiva e una marea di incredibili sfumature donate al repertorio dall’inventiva dei tantissimi musicisti che ne hanno costruito la grande storia. Il jazz, invece, è un mondo nel quale, pur eiissendo contemplata la ripetizione di molte cellule armoniche, il tessuto di accordi si arricchisce di innesti, direzioni, collegamenti, rimandi molto più complessi e capaci di aprire potenzialmente all’infinito le possibilità che si offrono al solista di costruire frasi musicali a partire dal terreno fertilissimo delle note degli accordi “sottostanti”.
Tornando a parlare dell’armonica, le tecniche da conoscere per suonare il blues sono importanti, necessarie, a volte difficili, ma sono comunque un repertorio limitato e numerabile: l’armonica blues ha un suo spazio preciso e possiede anch’essa una sua grammatica e una sua sintassi blues, nonché, ovviamente, anche sue dignità e necessità. Si tratta di uno spazio nettamente distinto da quello della chitarra blues, del pianoforte blues, ecc. e reso unico da una storia dello strumento diatonico – cui in seguito si unirà anche quello cromatico – molto articolata.


Di contro, l’armonica jazz, anzi, l’armonica nel jazz, non ha sue tecniche così nettamente distinguibili da quelle degli altri strumenti: non ci sono trucchi, come avverte Paolo Ganz il quale, descrivendo in un suo bellissimo libro le varie tipologie di armonicisti12, si lascia andare alla constatazione che

la metà di chi si accinge a imparare l’armonica crede fermamente che esista un trucco, una parola magica o una formula segreta grazie alla quale si possa apprendere ogni malizia senza la minima applicazione. (…) Per questi casi disperati c’è poco da fare: non avanzeranno mai nello studio perché saranno sempre tesi a ricercare il “trucco”, convinti che l’insegnante non voglia rivelarglielo.

Fig. 8: Progetto di cromatica del 1926, quindi successivo e variato rispetto a quello a suo tempo depositato come brevetto originale

Con gli altri strumenti la cromatica (e la diatonica così come suonata da alcuni alieni di cui dopo avremo ancora modo di dire qualcosa) condivide tantissimo – fuorché la storia: se non sbaglio, questa tipologia di armonica è giovanissima, nata solo nel 1910 – e deve cercare di riprodurre quanto più può il linguaggio maturato col tempo grazie all’apporto dei vari musicisti che nei secoli li hanno imbracciati.


In introduzione al suo libro già citato all’inizio di questo articolo, il solito Richard Hunter riporta un modo di pensare condiviso da molti: “the harp is not designed in a way that makes jazz easy to play”, per poi prenderne le distanze pochi righi dopo. Riconosce che l’alternanza di note soffiate e aspirate – e, aggiungerei, il fatto che i salti tra note lontane siano ovviamente meno agevoli da eseguire sull’armonica di quanto non siano su altri strumenti nei quali si usano le dita – rende difficile ottenere il legato di chi colloca fluide cascate di suoni su un’unica emissione di fiato. Va da sé che cercare di riportare il linguaggio di Parker e Coltrane sull’armonica è chiaramente un obiettivo molto ambizioso, anche se non del tutto impossibile.
Hunter poi invita a fare in modo che “if harp players cant’ play jazz like sax players, than they’ll have to play their own kind of jazz, just as blues harp players play their own kind of blues”, un concetto che, come vedremo, trovava d’accordo anche il più grande vate dell’uso dell’armonica nel jazz.


Il nostro strumento, è cosa nota, presenta alcune innegabili limitazioni tecniche, ma offre pure alcuni vantaggi rispetto ad altri più blasonati, e lo dice ancora una volta l’autore di quel saggio unico nel suo genere, il quale sottolinea che “there are a lot of great sounds that can only come from the harp”. Pur essendo orgogliosamente d’accordo con lui, trovo che questo punto per noi non costituisca, e non credo dovrebbe costituire, un grosso vantaggio. Perché? Perché intendiamo qui parlare di jazz, ovvero di un idioma il cui statuto è stabilito da tempo. Non intendo certo dire con questo che non sono ammesse deroghe alle regole dell’armonia e improvvisazione jazzistica, tutt’altro! Viva la creatività e il cercare nuove strade e sfide espressive, ma parlare quel linguaggio senza conoscere il repertorio di cose già dette da chi ne ha scritto la letteratura, allontanandosene senza prima averle fatte quanto più possibile proprie, credo equivalga a barare, a far finta di saper parlare bene quella lingua. Una pretesa che si rivela subito ridicolmente assurda quando ad ascoltare simili deliri è un madrelingua. E questo lo affermo anche se l’invito di Hunter a pensarla in modo leggermente diverso è chiaro: lui infatti sostiene che “jazz harp is not jazz: it’s harp”.


A
sostegno di ciò che ho appena scritto, riporto ciò che Raymond Queneau13 ebbe modo di dire circa la letteratura e che, adattandolo al presente discorso, torna utile pure per parlare di musica e di armonica:

Fig. 9: Raymond Queneau



Un‘idea falsa, che oggi è corrente, è l’equivalenza che si stabilisce tra ispirazione, espressione dell’inconscio e liberazione: tra caso, automatismo e libertà. Questa ispirazione, che consiste nell’obbedire ciecamente a ogni impulso, è in realtà una schiavitù. Il classico che scrive la sua tragedia osservando un certo numero di regole che egli conosce è più libero del poeta che scrive quello che gli passa per la testa ed è schiavo di altre regole che ignora.
Sempre in quel bellissimo libro, in una illuminante intervista, Toots Thielemans – sì, proprio lui! – riferisce che:


Every instrument does some things very easily, and some things poorly. When I worked on the Smackwater Jack album with Quincy Jones, at one point they transcribed one of my solos and gave it to the violonist Harry Lookofsky to play. The solo was fine for the harp, but Lookofsky couldn’t play it on the violin with the same accents and feeling. And this is a guy who can read and play practically anything: so I think that any instruent has limitations, and the harmonica isn’t any worse off that most. When the right players come along, it’ll happen; (…) The main thing Is that you have to play the things that sound good on the instrument, and not try to do the things that don’t come off right.

Sono in buona parte d’accordo con lui, e devo dire che la ricerca di ciò che suona bene sull’armonica e, ancora meglio, la ricerca di ciò che solo sull’armonica suona bene, trovo sia davvero eccitante.


Al contempo credo si debba riconoscere che se si ragionasse sempre così, non ci sarebbe mai stato un Howard Levy che ha letteralmente “violentato” il concetto stesso che si aveva di diatonica piegandolo alle sue esigenze tanto quanto è riuscito a piegare le ance del suo strumento, e io stesso non sarei mai stato autorizzato a compiere la mia personale ricerca sulla resa dei brani di Bach con la cromatica suonandoli senza sconti, ovvero cercando di attenermi quanto più possibile alla partitura originale scritta per altri strumenti. Come spesso è accaduto nel corso della storia umana, certi limiti di qualcuno o qualcosa, universalmente e pigramente riconosciuti come reali ed evidenti, una volta messi alla prova dei fatti dai più caparbi e insodddisfatti si sono rivelati frutto di supposizioni sì prudenti, ma a suo tempo non abbastanza soppesate e osteggiate.


E se anche l’ottimo Paolo Ganz, nel descrivere gli usi consigliati delle armoniche, scrive che la cromatica serve a suonare jazz, di sicuro è perché sa di riferirsi a un pubblico di non esperti e preferisce, quindi, semplificare le cose facendo finta di ignorare che esistono il già citato Howard Levy14 e Sebastien Charlier16 i quali riescono a essere addirittura più veloci e fluidi nel costruire complicatissime frasi di quanto non lo siano i più ginnici tra i loro cugini cromatici. Avviandomi a concludere questo breve articolo, che fa il paio con quello a suo tempo da me pubblicato qui in Doctor Harp a corredo dell’Aforisma musicale dedicato a Charlie Parker17, ci tengo a precisare che con con entrambi questi scritti intendo invitare gli armonicisti a non pretendere che il proprio strumento abbia finalmente una piena dignità riconosciuta dal pubblico quando sono spesso loro stessi a concedergliene una altalenante, con cicli che assecondano le loro stesse mutevoli esigenze e riparano le proprie mancanze.

Con questo intendo dire che i primi a dover pensare sempre al nostro strumento come a qualcosa in grado di fare musica e non “musica con l’armonica”, sottintendendo così la locuzione più lunga, ma meno confessabile, “musica pensata per essere suonata con la povera armonica, quindi una musica indulgente verso i limiti che esso strumento presenta”, sono proprio gli armonicisti, ovvero persone che spesso tendono a nascondere dietro quelli dell’oggetto, limiti personali a volte ascrivibili solo a una grande pigrizia.
Mi spiego con un esempio.


Un
sassofonista sa che il suo strumento gli consentirà di suonare le frasi più veloci che siano mai state pensate, ma sa anche che senza lavorare duro, esse non usciranno per il solo imbracciare quell’ottone. Conosco tanti che si cimentano col sax, ma che, consci di non essere capaci di suonarlo in modo corretto, evitano di esibirsi e di autodefinirsi jazzisti. Loro lo sanno bene: se non si affronta seriamente lo studio del sax, esso risulterà essere proprio così, ovvero null’altro che un bellissimo pezzo di metallo laccato. Purtroppo l’aspirante sassofonista sa anche che verrà puntualmente sottoposto a un duro esame: tutti da lui pretenderanno tecnica, conoscenza del repertorio, stile, ecc, perché i suoi colleghi sono tantissimi, e tutti ricercano le stesse cose senza autoassolversi di fronte alle oggettive difficoltà che lo studio di un idioma e la sua traduzione in azioni pratiche e manuali da compiere con il corpo comporta.


Inoltre
il nostro aspirante sassofonista sa che anche il pubblico ha molto ben presente cosa dovrebbe saper fare chi decide di suonare quel magico pezzo di metallo ricurvo: nella vita di chiunque è capitato spesso, per scelta o per puro caso, di sentire così tanti esempi di improvvisazioni suonate con un sassofono da poter dire con una certa sicurezza se chi ha davanti è un vero jazzista o sta solo millantando di esserlo.


Sono
convinto che questo esempio – che, mutatis mutandis, calza di sicuro anche per gli altri strumentisti non sassofonisti – basti a spiegare quale credo debba essere il giusto atteggiamento da tenere nel momento in cui si dovesse decidere di diventare un armonicista jazz e non di affermarlo semplicemente suonando l’armonica su brani della tradizione jazzistica, magari facendosi accompagnare da musicisti che invece sanno esattamente cosa stanno facendo. Chi bara in questo modo, confida nel fatto che il pubblico è abituato a connettere l’armonica a quel “coso” suonato (male) da cantautori che di solito la usano a mo’ di colore sonoro sapientemente aggiunto a un bel quadro dipinto con pianoforte, chitarra, basso, batteria (suonati benissimo).


Il nostro armonicista giézz allora si cela dietro il classico dito, confidando sull’ignoranza del pubblico circa cosa il nostro strumento davvero potrebbe fare, sicuro di sorprendere già solo per l’ardire di cimentarsi sull’armonica con un genere notoriamente difficile e chiedendo quindi comprensione per gli errori e gli orrori, per il fatto che è lo strumento a condurlo, non senza incidenti a dir poco rovinosi, lungo il brano e non l’inverso, e per la pochezza delle sue idee solistiche: in fondo, non è colpa sua! È l’armonichina a essere un giocattolo, no?


A parziale discolpa dell’armonicista giézz, registro anche una certa collusione di alcuni giornalisti (pochi, a dire il vero) che nel recensire dischi di altri strumentisti sfoggiano una conoscenza del panorama culturale di riferimento vasta e capillare grazie alla quale fare la classica e desiderabile “punta agli spilli” ma poi, trovandosi a recensire il disco del nostro armonicista giézz, sembrano cambiare del tutto i propri parametri di riferimento riscalandoli, adeguandoli in minore, al presunto handicap che il nostro strumento, per una tacita ammissione di quel nostro sedicente collega, pare si debba portare dietro: tutto a un tratto assenza di swing, di pronuncia, di fraseggio, di riferimenti, di linguaggio e, in definitiva, … di jazz, viene fatta passare come scelta stilistica, punto di forza, qualcosa da ammirare e premiare. E, come per magia, quel disco, ascoltabile solo nelle parti in cui l’armonica tace, diviene un capolavoro da premiare di sicuro. Roba da fare inferocire innanzitutto i sassofonisti, trombettisti, pianisti, chitarristi, batteristi, contrabbassisti, … ai quali difficilmente vengono fatti simili sconti. E poi noi armonicisti.


In conclusione, qualsiasi sia il genere che si decida di suonare professionalmente con l’armonica (conto di parlare presto anche dell’armonica che si confronta con il repertorio classico), suggerirei di affiancare all’amore per il bellissimo oggetto che si è scelto per esprimersi, anche le necessarie voglia e onestà di diventare non un armonicista – a mio modo di vedere, dato il gran numero di declinazioni spesso discutibili di questo ruolo, lo ritengo un obiettivo non così elevato -, ma un musicista professionista.


Un
musicista che incidentalmente, per motivi suoi aventi a che fare con stimoli familiari, gusti estetici, incontri casuali o chissà cos’altro, ha scelto di suonare l’armonica.

Può non sembrarlo, ma vi assicuro che è tutt’altra cosa.

SZ


Biblio-Video-Sito-Grafia


1) Massarutto, Gianni:
https://www.youtube.com/watch?v=Fw_LAp04YfA

2) Russolo, Luigi, L’arte dei rumori, Edizioni Futuriste di “Poesia”, Milano, 1916

3) Adler, Larry: https://it.wikipedia.org/wiki/Larry_Adler
Ascolti consigliati:
https://:www.youtube.com/watch?v=STuJHuOo_Q8)
https://www.youtube.com/watch?v=STuJHuOo_Q8

4) Thielemans, Toots, Collana I grandi del Jazz, Fabbri Editore

5) Shu, Eddie: https://en.wikipedia.org/wiki/Eddie_Shu
Ascolti consigliati:
https://www.youtube.com/watch?v=EiCNZXZ947I
https://www.youtube.com/watch?v=EiCNZXZ947I

6) Hunter, Richard, Jazz Harp, Oak Publications, 1980

7) Krampert, Peter, The Encyclopedia of Harmonica, Mel Bay

8) Pasquinelli, Gianandrea, Soffiando e risoffiando, Autopubblicazione, 2015

9) Delay, Paul: https://en.wikipedia.org/wiki/Paul_deLay
Ascolti consigliati:
https://en.wikipedia.org/wiki/Paul_deLay
https://www.youtube.com/watch?v=4TQQitNBCms
https://www.youtube.com/watch?v=X0wS3kD2MYM
https://www.youtube.com/watch?v=dk6H8dIWoJU
https://www.youtube.com/watch?v=gWepAFBqsN4

10) Fitzgerald, Ella: https://it.wikipedia.org/wiki/Ella_Fitzgerald
Ascolti consigliati:
https://www.youtube.com/watch?v=1GUmxnYheK0

11) Hendricks, Jon: https://it.wikipedia.org/wiki/Jon_Hendricks
Ascolto consigliato:
https://www.youtube.com/watch?v=jKAVgM82-gs

12) Ganz, Paolo, Armonicomio, Fernandel, 2012

13) Queneau, Raymond, citato in Fiabe esatte, di Gianni Zanarini, Doppiavoce, 2020

14) Levy, Howard, https://it.wikipedia.org/wiki/Jon_Hendricks

15) Charlier, Sebastien, https://en.wikipedia.org/wiki/S%C3%A9bastien_Charlier

14) Adamo, Angelo, Aforisma 5: Charlie Parker Dixit
https://www.doctorharp.it/aforisma-5-charlie-parker-dixit/

CRONACA VIRUS – Giorno 29

                                               PICCOLE E CHIUSE COSE

Cosa significa davvero “capire”?

È un problema inerente la pura comprensione di un periodo composto dalla somma sapiente dei significati dei singoli termini o è qualcosa di più elevato, qualcosa che va oltre il ristretto orizzonte linguistico?

Come al solito, il tutto è più della somma delle singole parti. A modo suo, lo dimostra la recente indagine OCSE-PISA sui risultati della quale tornerò prima o poi in queste cronache.

E lo dimosta anche il fatto di aver creduto, a suo tempo, di avere pienamente compreso il messaggio di Pascoli.

Oggi invece mi accorgo ancora una volta che la cifra del suo messaggio come anche quello di altri autori non poteva che essere l’integrale di decine e decine di sue esperienze che oggi, grazie all’età ma anche e soprattutto alla situazione che stiamo vivendo, mi sembra rivelare il suo vero significato, la sua parte extrasemantica.

Un discorso che di certo non si applica solo alla produzione del poeta romagnolo, anche se nel suo caso ho l’impressione che pur nelle sue note trovate pregrammaticali, abbia sempre e soltanto avuto intenzioni postgrammaticali (intendendo qui impropriamente quel termine come “intenzioni reali da rivelare molto, molto a posteriori”).

A farmi sentire il bisogno di ritornare sul luogo del delitto giovanile per tentare di comprendere cosa accidenti volesse davvero dire con quella sua famosa poetica delle piccole cose è proprio la sommatoria delle mie esperienze, condotta sul periodo pluridecennale, che come credo tutti i miei coetanei mi sento chiamato a calcolare. Inoltre vi è anche l’aggravante dell’anomala attenzione – stavolta ritengo sia cosa che riguardi tutti, coetanei e non – che sono costretto a dedicare alle mie azioni dalla limitatezza imposta ai miei spostamenti fisici,.

Allora, passando in rassegna gli eventi che mi hanno condotto qui e ora, guardando la mia vita di questi giorni come potrebbe fare un drone personale silenzioso e indiscreto che svolazza dalle parti del soffitto, capisco che molti dei suoi versi mi si confanno esattamente come a un adolescente si addicono quelli di una canzone che riassuma le senzazioni tipiche della sua età.

Ancora una volta scopri che valeva la pena arrivare fin qui per comprendere ciò che ti è capitato in altri momenti “non sospetti”: fai tuo adesso ciò che ti hanno fatto ascoltare forse un po’ troppo presto, pretendendo che già allora fosse per te importante. Dittelo pure: solo ora puoi avere la sensazione di apprezzare intimamente la differenza tra tutto e parti, tra territorio e mappa, tra leggere Pascoli o chiunque altro degli autori incontrati da ragazzo e, forse, comprenderli (più) a fondo.

Piccole cose.

Si diventa pascoliani nel ricordare meravigliosi spazi aperti, naturali, che proprio per questo possono però rappresentare la morte tanto evocata da quel poeta, quella che sappiamo annidarsi lì fuori attendendo una tua distrazione.

E lo si diventa anche privilegiando la frugalità dei pasti (altrimenti “inquarto”), la piccola ambizione di compiere ogni giorno quei gesti tra l’utile e il piacevole che costellano la giornata di un abitudinario. Piacevoli perché familiari, conosciuti, appaganti, tuoi.

E se pascoliano non lo eri, in qualche misura, forse senza accorgertene, lo diventi: il tuo sistema fisico, quello composto dalle tue particelle, a furia di muoversi sempre all’interno dello stesso ambiente a 3 + 1 dimensioni, trasforma pian piano quello spazio perlopiù euclideo in uno spazio delle fasi nel quale passa e ripassa dagli stessi punti, ritrovando lì gli stessi valori di almeno 6 delle tue coordinate e dei tuoi limitati gradi di libertà.

La tua casa, quasi fosse descrivibile come un universo-spugna composto da vuoti e pieni di materia barionica, diventa un invisibile sistema di vuoti e di pieni di densità di probabilità delle tue configurazioni.

Scopri così che la parola abitudine potrebbe per te essere definita dalla Crusca come “curva che descrive l’evoluzione della probabilità di trovarti seduto in cucina a mangiare o a letto a leggere, guardare la televisione; scrivere, a volte. In soggiorno, al tavolo, a scrivere, disegnare, suonare o sempre in soggiorno, sul tappeto a fare ginnastica. In bagno a prenderti cura del tuo animale domestico“.

Posizione e azione allora appaiono ciò che davvero sono: un sinolo inscindibile che forse di suo basterebbe a dare una risposta al quesito, ancora in attesa di una risposta univoca, circa cosa sia da considerarsi vivo e cosa no.

E se non si è o se proprio non si vuole essere pascoliani – un appellativo qui banalizzato, compresso, sunto improprio di abitudinario e di perso nella contemplazione della bellezza evocativa, apollinea, quasi, di piccoli gesti, di piccoli oggetti e pensieri – meglio far finta di decidere di diventarlo; se non lo si deciderà, si potrà rimanere delusi dallo scoprirsi più banali, meno fantasiosi e imprevedibili, meno figli dei fiori e più piccoli yuppie dell’azienda domestica di quanto si amava pensare di sé.

La mattina si legge e si scrive. Lo fai tenendo un orecchio alla radio e l’attenzione alla pagina piena o a quella da riempire. Se decidi di leggere e non ti sei già svegliato con le idee chiare, rimani un po’ sospeso, indeciso a quale musa votarti. Una attività che mangia la sua fetta di tempo.

Tra la scelta, la lettura e la scrittura, volano via due o tre ore e sei a ridosso dell’ora di pranzo. Un po’ di ginnastica, un pasto contenuto – non è mica sempre Sabato o Domenica! -, lavi i piatti e sono già le tre del pomeriggio. Al fine settimana, questo è il momento del film, della tavoletta di cioccolato e di un fondo di tazzina da caffé occupato dal tuo torbato preferito da sniffare, prima che da bere. E ti senti un Regolo, un piccolo re.

Intanto la radio continua a tenerti compagnia. A volte la ascolti attento; a volte ribolle in sottofondo mentre pensi ad altro e in questi casi sembra avere la sola funzione di simulare l’interno di un autobus, di una metro, di un bar per inscenare una situazione di normalità sociale.

Ogni tanto, come può capitare di sentire la confessione di una coppia alla fermata dell’autobus o i ragionamenti di due signore in fila al supermarket, capti una frase, un tono, una musica, interessanti e ti fermi. Smetti di scrivere, di suonare, di disegnare; mentre lavi i piatti, interrompi il rumoroso flusso d’acqua. Ascolti, soppesi, e riprendi la la tua corsetta.

Due-tre telefonate: a tua madre, a tuo figlio, a qualche amico/a; e un’ora almeno se ne va così.

In un ambiente piccolo come il mio, è bene che anche gli oggetti siano frugali come i pasti, altrimenti l’ambizione comodamente contenuta da uno molto ingombrante, ucciderebbe altre più contenute, nascoste dentro oggetti minimi che pure hanno diritto ad esistere in questa frazione di mondo.

Ad esempio, le mie armoniche, vere e proprie myricae musicali, di spazio ne chiedono davvero poco e spesso capita di non trovarle, nascoste da altre piccole ambizioni concretizzate in oggetti come libri, fogli, giornali o più prosaicamente investite da frane di vestiti buttati disordinatamente qui e là.

Nel caso del mio strumento preferito, l’ambizione è trovarvi dentro quanta più musica possibile. E se proprio lì non la si trova, si cerca di soffiarcela dentro a forza, violentando il loro spazio tridimensionale per farlo stavolta diventare uno spazio delle fRasi.

Così facendo, ci si gioca qualche altra ora, e non è male, anche se poi ti disperi per non poterle più riafferrare.

Scrivendo, suonando una piccola armonica, organizzando segni su una pagina, ti scopri a non fare altro che tentare di isolare pezzi di mondo nel tentativo di farti, a partire da essi, un’idea sintetica che lo riassuma; un’idea sintetica che ne sveli in negativo quella famosa differenza che manca e che sempre mancherà alla somma delle sue parti tengibili.

Scopri ad esempio, che pur appassionandoti l’avventura della Big Science col suo concertare gli sforzi di centinaia di persone verso uno stesso obiettivo conoscitivo (magari farne parte!), continui a immaginare l’attività di uno scienziato come lo sforzo romantico di una mente da sola di fronte alla Natura.

E allora sospetti che sia proprio questo che ti fa amare la scienza allo stesso modo in cui ami la letteratura, la pittura, la musica: pur essendo anche queste attività interpretabili come avventure collettive, sono più facilmente riconducibili all’impertinenza di un singolo che, ritto in piedi, non arretra e, anzi, urla contro la realtà: un enorme grizzly incazzato, sfidandola ad attaccare.

Ami le scommesse da piccoli, folli Achab che pur sapendo di non poter fare altra fine se non quella di venir risucchiati dall’abisso, sono comunque felici di aver anche solo scalfito la pellaccia spessa del leviatano lasciandogli una cicatrice, una piccola traccia del loro arpione spuntato.

Sulla scorta di simili pensieri, mi trovo a sperare che questa fase storica insegnerà a essere più prudenti nel chiudere le porte ai piccoli progetti scientifici, quelli ai quali basterebbe un’infima frazione del budget sempre prenotato da altri ipertrofici, che però  da casa non possono proprio proseguire.

In un rifugio, antiatomico o antivirus che sia, non puoi portarti una mandria da macellare o una campagna da coltivare. C’è spazio solo per loro comodi, piccoli riassunti: cibo in scatola.

In una emergenza come questa, non puoi lanciare sonde o far collidere particelle. Puoi solo fermarti a pensarle in maniera diversa, cercando nuove inquadrature; sintetizzandone il pensiero in nuovi versi scientifici ancora mai scritti: l’equazione di Dirac è stata scritta da lui solo. A casa sua.

Immagino le immense cattedrali della scienza al momento vuote di persone e mi intristisco, ma al contempo rivaluto la possibilità che qualcuno, nel tentativo puerile ed eroico di giocare a fare dio, possa ancora scoprire qualcosa dal tavolino del tinello, o con un piccolo telescopio sistemato sul suo balcone.

La stessa fame globalizzante, onnivora, spietata che muoveva ogni giorno masse enormi di persone in nome di una ineluttabile economia, rimandava una necessaria fermata per riprendere fiato. Una dinamica che attanagliava tutto, anche la ricerca, l’arte e l’intero spettro delle attività umane, comprese quelle che più si pretendeva fossero pure e lontane da logiche di profitto.

Una fame globalizzante che ha trasformato molti dei migliori scienziati in cupi strateghi, freddi politici, affamati amministratori del denaro pubblico che veniva elargito solo ai loro progetti più ambiziosi; solo a quelli che vestivano meglio di altri il tricolore per il gran galà della scienza.

Ora forse, privati per un po’ dei loro Monòpoli e monopòli, alcuni di loro scopriranno che quel gioco non era poi così necessario e affascinante. Me li voglio immaginare nel mentre – riaprendo un impolveratissimo manuale di Fisica del primo anno e scoprendo che quel tal grafico era davvero lì, in quella posizione che ricordavano e con quelle unità di misura segnate sugli assi – riscoprono perché da ragazzi hanno fatto quella scelta universitaria e non quella di iscriversi a Economia, Scienze Politiche o al Partito.

Piccoli pensieri, piccoli gesti, piccole oggetti che anche oggi tornano a farmi compagnia.

E, al passare delle ore, mi dico che Quasi-quasi cambio -modo, poetica e poeta.

Scopro, allora, che dopo aver scorazzato in un piccolo panorama di oggetti, attività e ambizioni, sempre quelli, sempre uguali, sempre qui, la giornata è pressoché finita.

Ed è subito sera.

SZ

 

CRONACA VIRUS – Giorno 21

… PERCHÉ DI TANTO INGANNI I FIGLI TUOI?

Ieri sera la mia amica Sara mi ha inviato in posta privata un video in cui si vedono una decina di daini brucare l’erba delle aiuole di un parcheggio, lì tra le macchine ferme da chissà quando.

A girarlo sembra essere stato il papà di una famigliola di San Lazzaro (BO) che, bisbigliando per non far far scappare gli attori di quello spettacolo improvvisato, si sente nel video mentre segnala ai figli piccoli la posizione, sul quel palco inusuale, di protagonisti e comparse.

Tutti, anche io che guardo la scena in differita, trattengono l’applauso che vorrebbe invece scoppiare fragoroso davanti a tanta bellezza.

Volendo essere sempre un po’ malizioso – non certo nei confronti della mia amica, ma delle dinamiche che hanno portato quel video a essere condiviso così tanto da giungere fino a me – non sono del tutto sicuro che esso sia stato davvero girato in questi giorni e valuto la possibilità che si tratti invece di un classico filmato di repertorio.

Mi scopro comunque propenso a credere all’autenticità di chi afferma che sia un prodotto fresco della giornata di ieri per un paio di (per me) buoni motivi. Il primo: mi va di crederlo, mi fa bene crederlo e, credendolo, non ritengo di far male a chichessia.

Il secondo: a Chernobyl (“dopo averla citata nell’articolo di due giorni fa sul papa, parli ancora di quella città? Dai, Angelo, rinnovati!”) come a Fukushima accadde proprio qualcosa di simile: alcuni articoli pubblicati a Giugno 2019 per la cittadina russa e a Gennaio 2020 per quella giapponese, raccontano di come inviati e telecamere fisse rivelarono in quei luoghi una Natura di nuovo padrona: gli animali selvatici, vinta l’oramai atavica paura dell’uomo e dei suoi accessori, si sono avventurati là dove sapere della presenza del nemico radioattivo e invisibile ha tenuto lontani noi.

Di sicuro contaminati, quegli animali raccontano di un adattamento praticamente immediato della flora e della fauna alle nuove condizioni introdotte dalle nostre azioni; fanno registrare vite più brevi di alcune specie minute e una aumentata longevità di quelle di maggiori dimensioni; testimoniano l’esistenza un nuovo equilibrio che dimostra di funzionare benissimo (“e vissero felici e contenti”).

Un equilibrio che mi fa tornare alla mente due testi di sicuro importanti: il primo parla dell’evoluzione umana tra sviluppo delle armi da una parte, e graduale comprensione di come cibarci e curare le malattie che hanno afflitto la storia della nostra specie dall’altro;

Il secondo, invece è una specie di facetime applicato al nostro pianeta e tenta, sulla base di ciò che sappiamo, di fare uno schizzo, quasi un morphing della Terra per fconsentirci di farci un’idea di come potrebbe apparire il mondo senza la pressione antropica che ogni giorno esercitiamo, relegando in territori sempre più striminziti e angusti la Natura selvatica, la Palestina del pianeta.

In qualche modo, posso certificare che anche io ho una specie di video girato da me nel quale, in modo del tutto simile a quello inviatomi da Sara, si vede chiaramente la Natura farsi strada. La scena è stata girata Sabato scorso e, guardandola, mi si può vedere mentre vado a fare la spesa.

Già al mio arrivo al Centro Commerciale dove da anni mi servo – ci vado portandomi una tensione personale che in condizioni normali potrei valutare come di, diciamo…, 5 tacche? Ok, cinque tacche – mi sento diverso. Mi sembra tutto diverso.

La prima volta che due settimane fa sono andato lì dopo l’inizio dell’emergenza, lo stesso “video” faceva vedere un me stesso molto preoccupato e con una tensione da fondo scala valutabile in dieci tacche. Preoccupato sì, ma anche molto curioso di provare come ci si sente a interpretare la parte da protagonista dei film che ho sempre amato vedere.

L’altro ieri, invece, ero un me stesso sì preoccupato, ma con una tensione di sette-otto tacche. Risultavo già più adattato alla pressione psicologica di questo periodo; più pronto alla lunga fila da fare; meno meravigliato del poco traffico, del silenzio, delle saracinesche chiuse.

Una voce interiore mi ha suggerito: “tranquillizzati: pensavi di non poter nemmeno immaginare un mondo diverso da quello che conoscevi, e invece stai già riuscendo a trovare tutto abbastanza normale. L’importante ora è soltanto tentare di rimanere vivo più a lungo possibile per poter assistere all’arrivo del nuovo e apprezzarlo per quello che sarà”.

Proprio nel mentre il corpo degli animali selvatici di Chernobyl (“ancora? BASTA!”) e Fukushima, non vedendo la radioattività come noi non vediamo il virus, torna in Natura quasi a dirle “fa’ di me ciò che vuoi. Io ti assseconderò qualsiasi cosa tu deciderai di fare di me – il mio corpo, la parte di me che stupidamente sono portato a considerare quella meno evoluta, non oppone particolari problemi al consiglio di stare al sicuro dentro casa.

Il mio cervello, invece, quello che identificavo con la mia parte più evoluta (e, a questo punto, più stupida), mi manifesta una notevole prossimità alle dinamiche del mondo fuori e mi rassicura dicendo che “sì, dai. Oramai si può abbassare un po’ la guardia”.

La Primavera, prima che nelle cellule della mia pelle, delle mie gambe, della mia pancia, …, sembra essere in quelle encefaliche dove è arrivata facendomi gemmare le sinapsi e fiorire i neuroni. Un netto rincoglionimento alla luce del Sole.

Ascolto il canto delle sirene fuori che, più che a farmi portare dai comodi flutti di internet come il pavido e pallido epigono degli eroi omerici, mi invitano a navigare il mondo come un impavido Ulisse (ho finalmente trovato una falla nelle impeccabili narrazioni omeriche: non c’è nemmeno un verso che citi un virus qualsiasi! 🙂 ).

Quel canto mi invita a comportarmi come gli animali di Chernobyl (“Bastaaaaa!!!”) e di Fukushima, ma non devo abbassare la guardia: voglio ascoltarlo, ma lo farò con le cuffie tenendo ancora ben legato il mio corpo all’albero maestro di questa piccola imbarcazione domestica. A dire il vero, non ci sarebbe nemmeno bisogno di legarlo. Al momento decisamente più saggio della mia testa, dimostra di sostenere bene la progionia e sono propio curioso di vedere fino a quando resisterà.

Del resto, non dobbiamo dimenticarci che quello umano è il corpo dell’animale domestico per definizione: se gli si dà il comando giusto, lui, docile, si distende davanti al camino e attende fintanto che non (ne) avrà la vescica davvero piena.

Forse, caro Leibnitz, se tu fossi qui, scopriresti che il migliore dei mondi possibili non era né quello di prima, né quello di ora. Prevedo, invece, che lo sarà il suo aggiornamento che in queste notti si sta gradualmente installando sul sasso sul quale scorazzavamo occupando tutto lo spazio disponibile e lasciando ovunque tracce indelebili del nostro passaggio.

Bisogna solo avere un po’ di pazienza: qui dice “Attesa: calcolo del tempo rimanente…” nel mentre la rotellina del download gira senza ancora mostrare il risultato.

Dobbiamo attendere che si scarichi tutto e poi, giusto il tempo di riavviare il sistema, tutte le nostre preferenze finalmente avranno un nuovo valore.

 

SZ

CRONACA VIRUS – Giorno 20

I GRAFICI PRECISI DELL’IMPONDERABILE, LE PREVISIONI DETTAGLIATE DELL’IMPREVEDIBILE

Tra i tanti fenomeni interessanti che in questi giorni stanno verificandosi, ve ne è uno un po’ sottotraccia che però trovo particolarmente adatto per dare il via a un chiacchiericcio sommesso e domenicale, che non disturbi chi ancora sta dormendo.

Lo vedo così perché mi sento chiamato in causa nella veste di potenziale imputato – qui si fa il processo a quelle che erano anche mie intenzioni – e in quella di spettatore ammesso all’aula di tribunale nella quale, con le porte chiuse, si svolge il dibattito processuale.

In reatà, le porte sono rimaste spalancate, ma è come se fossero ben serrate e piantonate da due gendarmi per la solita scelta della rete di ignorare alcuni dibattimenti, almeno fintanto che la discussione mantiene il suo carattere decisamente tecnico.

Si tengono tutti a distanza, in attesa di vedere se da quell’aula uscira un “sì” o un “no”, un 1 o uno 0, un giudizio netto, insomma, e che non richieda troppo impengo interpretativo.

Solo così, infatti, tutti, anche i laureati nei due atenei più importanti, quello della vita e quello della strada, potranno poi precipitarsi a scrivere sui loro profili cose del tipo: “l’ho sempre detto che di quelli lì non c’era da fidarsi!”, “sono tutti stipendiati da Sòros” e altre minkjate di questo tenore di cui la rete pare non essere mai sazia.

Ma veniamo al fenomeno.

Come ho letto in due articoli molto interessanti, qualcuno alla fine ha reagito a quel tentativo non richiesto di “dare una mano” all’interpretazione dei dati offerto da fisici e, soprattutto, astrofisici.

Nell’erba alta delle discussioni sui social circa la diffusione del contagio, negli ultimi giorni si è osservata di tanto in tanto una strana florescenza di grafici smongoli che interpolano i numeri di morti, ricoverati e guariti forniti da regioni e nazioni e pare che in alcune bolle facebookiane il fenomeno sia così intenso da meritare addirittura l’appellativo di Epidemia di epidemiologia da poltrona.

Vestendo la sicumera che regala l’assunzione grautita del valore delle costanti di integrazione, elevandosi più dell’esponente da dare a un numero di Nepero, un’intera gerarchia di ricercatori si sono lanciati nella valutazione delle impennate delle cifre dei contagi o del loro tentennare che disegna un accidentato plateau.

Questo li ha portati a soccombere all’emergenza espressiva e, senza dirlo davvero (in quei post si lascia spesso fare al motto chi ha orecchie per intendere, intenda), hanno espresso cosa secondo loro accadrà.

Piuttosto che essere sempre e soltanto il trastullo innocente e social di fisici e astrofisici cresciuti a pane e dati, in alcuni casi il frutto di simili passatempi ha avuto spazio sulle pagine di giornali a grande diffusione, dimostrando così di riuscire a polarizzare il comportamento di intere fette di popolazione, convincendole quando dell’inesistenza di un pericolo realmente incombente, quando di qualcosa di ancora più tremendo di ciò che stiamo vivendo.

Intanto questa storia pare abbia avuto la capacità di fare emergere un dato di sicuro interessante: la gente sembra ancora farsi influenzare più dai giornali che dal gossip assordante dei social. Non so per quanto durerà ancora questa situazione per cui, finchcé la cosa funziona, direi di godercela, no?

Senza prendermela qui con quanti hanno avuto la possibilità di amplificare la visibilità dei loro sudoku evoluti tramite la loro pubblicazione su canali comunicativi decisamente sproporzionati rispetto alle loro (nostre) competenze in materia di diffusione delle epidemie, qui mi soffermerei sul tentativo di tratteggiare l’identikit del generatore medio da social di quei grafici.

Si tratta, come un altro articolo diceva, di:

fisici abituati, nelle loro attività quotidiane, a pensare razionalmente ai fenomeni. Il loro compito è misurare costanti e parametri senza distorsioni e con la minima incertezza possibile, interpretare i risultati e costruire visioni del mondo che espandano la nostra comprensione dell’universo. In tal modo, sono guidati da principi molto ben consolidati come il metodo scientifico, l’idea di falsificabilità, il rasoio di Occam e in generale il rigore scientifico, in cui le ipotesi non verificate oltre ogni dubbio e in molti modi sono per impostazione predefinita considerate false. E le loro azioni sono modellate dalla certezza implicita che l’autorevolezza della loro parola, parlata o scritta, è il loro unico mezzo per portare il pane sulla loro tavola: quindi sono spaventati oltre ogni misura di rendersi ridicoli sulla carta per sciatteria o errori di valutazione.

Tra l’altro, stiamo parlando di persone molto facilmente identificabili tramite i modelli cui si ispirano e che sono noti finanche a chi vive al di fuori dei loro ambienti lavorativi. Questo è un aspetto che ritengo importante e singolare: qualcosa che accade di sicuro per gli umanisti (avranno tutti almeno un libro di Leopardi o una versione della Divina Commedia) e per alcune categorie di artisti (un pianista classico di sicuro avrà spartiti di Beethoven o di Mozart) ma che, tra tutti scienziati, mi pare di poter dire che sia riservata solo a fisici e astrofisici.

Senza infatti nulla togliere a biologi, chimici, geologi, matematici… è singolare che chiunque possa indovinare, senza tema di sbagliare troppo, quali siano i nomi degli autori di alcuni libri che di sicuro si trovano nelle librerie come la mia.

Questo credo sia uno dei problemi fondamentali (sì, volevo proprio scrivere “problemi”): oltre a crescere intellettualmente nel rispetto di idee fondamentali, esteticamente perfette, rigorose, predittive, …, studiamo subendo il fascino irresistibile di intelligenze fuori dal normale che quelle idee le hanno elaborate.

A elaborarle sono stati personaggi che spesso hanno furbescamente alimentato il loro mito con atteggiamenti a dir poco bislacchi e contingenti, in aperto, apparente contrasto con l’univocità delle loro idee così scarne, essenziali, corrette. Sono stati vere e proprie divinità del pensiero che, pur pretendendo spesso di essere anche simpatici, non possono che risultare estremamente antipatici per come si macchiano del reato di applicazione non meditata di ingiustificata tuttologia.

Molti di loro hanno davvero parlato di tutto, sentendosi autorizzati, nel farlo, dall’avere fornito contributi importanti ad ambiti nei quali è onestamente molto difficile muoversi con la disinvoltura con la quale un danzatore si appropria di un palco o con la quale un pittore riempie di segni non banali una tela bianca.

A tal proposito, giusto per delineare ancora meglio quell’identikit, stamattina mi è tornato in mente un libello che, ahimé, lessi da ragazzo e che oggi mi è costata una certa fatica ritrovare tra i libri di quei famosi scaffali di cui parlavo prima. Si tratta del dialogo tra Primo Levi e Tullio Regge, una lettura che ostenta una realtà dura a digerire: fai incontrare due teste di quel tipo e scoprirai che, specie se vi è Ernesto Ferrero che poi riporterà tutto in una pubblicazione Einaudi, il tenore delle loro chiacchiere più stupide possiede, non solo un’aura, ma anche un livello contenutistico tale da disintegrare il tuo ego, polverizzando la tua persona di fronte al peso di cotanta assennatezza, cultura, leggerezza nel trattare ciò che per altri è grave, pesante.

In particolare, trovo che quel geniaccio di Regge, nella sua ricercata (e forse poco autentica, non so) simpatia, fosse decisamente antipatico, tutto preso com’era dall’ esaltare i suoi hobby così inusuali e nel rimarcare, quando non occupato a parlare velatamente bene di sé, quanto lui fosse interessante per la bellezza intrinseca e il livello culturale delle persone che frequentava. Praticamente non andava mai al bar. Usciva solo per recarsi a congressi e si rilassava analizzando finemente, col suo palato educato, lo spettro di aromi di vini d’annata. Tutto questo ovviamente durante una lettura pomeridiana del Talmud.

Tra l’altro, in un punto del dialogo (praticamente un monolgo con Levi che, stando basso sotto rete, alza la palla per le alte schiacciate di Regge), allo spunto offerto dal chimico-scrittore quando dice:

Spesso la simpatia è un modo per contrabbandare l’incompetenza. L’Italia è piena di gente simpatica che non conosce il suo mestiere. Saper tarare la controparte è un’operazione fondamentale… Pesarla… Immagino che anche tra i fisici ci sono quelli che recitano la parte

il fisico replica:

É facilissimo. Io qualche volta lo faccio per scherzo, mi diverto a posare da competente in campi in cui non assolutamente niente. Ci riesco con una facilità incredibile. Basta iformarsi prima delle parole-chiave. Come fisico sperimenale valgo poco. Una volta mi sono fatto spiegare che cosa bisogna dire a chi costruisce acceleratori. Ci sono un paio di frasi, tune shift, aumentare la corrente di iniezione, la stabilità del campo… Le ho imparate e una volta in una cena le ho tirate fuori, sono andato avanti per venti minuti.

Qui l’autocompiacimento mi sembra talmente tanto intenso da richiedere anche il sacrificio di una autodenuncia e credo vada letto come: “se non so qualcosa, sono così intelligente da poter simulare senza essere scoperto di saperne tantissimo; almeno tanto quanto i più grandi esperti di quel campo” (che, implicitamente, diventa un campo di importanza secondaria rispetto al suo). Per non parlare, poi, della richiesta di essere valutato come persona la quale, nonostante abbia trascorso tutto il suo tempo a ragionare di cose elevatissime, sa anche stare al mondo manifesando la stessa scaltrezza di uno scafatissimo gambler da saloon. Insomma, (per me) insopportabile.

Ho preso questo modello a caso, ma avrei tranquillamente potuto citare altri mille libri dello stesso tenore (con questa frase ho ceduto alla tentazione di farvi sapere che ho letto mille libri, e che la mia biblioteca è molto più ricca della vostra) nei quali viene ostentata la leggerezza di ciò che leggero non è; la facilità di ciò che facile non è.

Il problema non credo stia nell’impossibilità di trovare leggerezza e facilità in cose ritenute definitivamente pesanti e ostiche. Tutt’altro. In quanto vittima anche io di certe letture e certi miti, mi sento investito da tanto del ruolo di eroico paladino del messaggio positivo che vuole qualsiasi argomento affrontabile e godibile da chiunque.

Qui intendo piuttosto denunciare, come ho già pubblicamente fatto in diverse occasioni, l’evidente discrasia nell’atteggiamento usato da alcuni nel dire che una certa cosa dura da digerire è in reatà molto meno dura di quello che sembra, e ciò che con i loro modi esprimono davvero.

Parlo di quel modo di fare tipico di chi, piuttosto che invitarti DAVVERO a scoprirne con lui la relativa facilità di alcuni argomenti, ti sta ancora una volta dicendo che per lui è facile e che se tu, nonostante la sua spiegazione, ancora non riesci a capirli, lui non sa più che fare.” Io, genio, ho fatto di tutto per spiegarteli, ergo, se non ce la fai a seguirmi, è solo un problema della limitatezza del cervello che ti è toccato in sorte”.

Il mestiere di fisico e di astrofisico, oltreché di sicuro interessantissimo, è certamente arduo per la difficoltà stessa dei problemi che ci si prefigge di risolvere. Purtroppo, per quanto ci si sforzi di assomigliare a quei modelli – che, beninteso, è comunque bene che esistano: sono di sicuro portatori di immensa ispirazione – che, nel mentre intuiscono la curvatura dello spaziotempo, si fanno fotografare con la lingua di fuori nel fare boccacce, nella stragrande maggioranza dei casi si scopre di essere degli ottimi professionisti e nulla di più.

Tutto ciò è difficile da digerire, specie sapendo della vecchia previsione di Wharol il quale ha preconizzato che avremmo tutti, anche noi, goduto di un quarto d’ora di notorietà.

Il futuro in cui la previsione del buon Andy doveva avverarsi dovrebbe essere suppergiù il periodo che stiamo vivendo e allora, non avendo ancora (stranamente) ricevuto gli stessi inviti che furono a suo tempo fatti a Regge e Levi, ci si autoinvita sulla rete facendo articoli, post, video (e fin qui la critica è anche per il sottoscritto…) e, purtroppo, grafici di previsione dell’evoluzione dell’epidemia.

Dico purtroppo perché alla fin fine si tratta comunque di un autogoal; della traduzione grafica di un problema dall’evoluzione ancora impredicibile per l’esiguità della documentazione disponibile e per l’impossibilità di demarcare esattamente i confini entro i quali agire.

Una vecchia barzelletta, che fa ridere solo gli addetti ai lavori, metteva di fronte all’evidenza di come per un fisico sia tutto risolvibile se solo si assume che le mucche possano essere approssimate usando delle sfere.

Un esempio che mi permette di scherzare esagerando un po’ nel dire che in questa fase, il problema della diffusione dell’epidemia può forse risultare predicibile mediante un grafico sotto la sola, plausibile assunzione che il malato quadratico medio sia una sfera. Per definizione, mentre rotola nell’ambiente, lui interagisce con i suoi simili toccandoli solo in punto delle loro liscissime superfici: quello è il punto attraverso il quale avverrà il contagio!

In uno dei due articoli, l’autore, pur ammettendo quanto possa essere divertente giocare con i numeri, si chiede se

deve un non epidemiologo attento alla scienza come me cedere all’impulso di pubblicare analisi improvvisate? Se lo facessi, aggiungerei elementi importanti alla discussione o costituirei semplicemente un’altra fonte di disinformazione ammantandomi con un carattere potenzialmente pericoloso di autorità? (traduzione mia)

Gli fa eco l’autore dell’altro articolo il quale esplicitamente invita ad ignorare coloro i quali, resi dai social ancora più autocompiaciuti, mentono nell’apparire esperti capaci di dire, per vie traverse e scorciatoie grafiche, qualcosa di importante circa ciò che non conoscono, offrendo di conseguenza false ipotesi e, nel peggiore dei casi, certezze (…). L’idea avanzata in quell’articolo è che ciò accada perché sui social

ci sentiamo più protetti dalle critiche esterne. O forse la poltrona di casa è troppo comoda rispetto alla sedia della nostra scrivania in ufficio. Inoltre, i social media non sono uno luogo dove avviene la cosiddetta peer review (un processo di revisione delle idee scientifiche operato da colleghi di chi le propone che operano segretamente per conto di riviste specializzate; nota mia), e in una situazione in rapida evoluzione nessuno ci accuserà di analisi dei dati sciatte se ci abbandoniamo a tale attività (Traduzione ancora mia. Sì, modestamente, so anche tradurre).

Quest’ultimo articolo si chiude con il condivisibilissimo e importante invito a salvare il metodo scientifico che dovrebbe valere sempre e comunque, specie per chi lo ha eletto a modo di vivere e di esprimere la propria professionalità.

Non posso che trovarmi d’accordo su queste posizioni le quali fondamentalmente non fanno altro che puntare il dito sulla forte similitudine, non dichiarata, che vi è tra previsioni compiute senza aver mai studiato seriamente, da epidemiologi, cosa davvero sia una epidemia e come si siano manifestate e diffuse quelle del passato, e quelle ottenute maneggiando un mazzo di carte da tarocchi nelle quali si assume essere filtrato, per contatto, il proprio raro talento da streghe chiaramente manifestatosi sin dalla più tenera età in innumerevoli episodi (se non ci credete, chiedete a mia madre/mia zia/la mia vicina/…)

Siamo qui dunque a denunciare astrologi evoluti mascherati da astrofisici? No di sicuro, anche se in questi frangenti assistiamo ad atteggiamenti apparentati con quelli alla lontana. Ci stiamo muovendo in un ambito che con la fisica e l’epidemiologia non ha più nulla a che fare, finendo invece di diritto solo il controllo della sociologia: una disciplina che  condivide con l’epidemiologia il bisogno di avere molti più dati a disposizione.

In conclusione, avanzo un’ipotesi di lavoro. Di fronte al vero e proprio diluvio di pareri squinternati reperibili in rete ed espressi negli idiomi più imrobabili, è anche ovvio che chi nella vita fa lo scienziato si esprima, per deformazione professionale, usando elementi propri del suo linguaggio quotidiano e metodi di analisi tipici del suo modo di approcciare i problemi in generale.

Lo fanno il geometra, il pittore, la massaia, il camionista, l’impiegato, … (se fossi martello, vedrei un mondo di chiodi) e lo fa anche lui, il fisico che prova a parlare in rete risultando ad alcuni occhi impacciato, ad altri saccente. In questo coro di notizie e pareri, ne ho visti davvero di assurdi e leggendo, ad esempio, che secondo la newsletter Al Naba (L’annuncio), organo di informazione interna dell’Isis, il coronavirus

è un tormento che Dio può mandare contro chi vuole, e Lui ne ha fatto una benedizione per i credenti. Chiunque stia sulla terra, aspettando che la piaga colpisca, e sapendo che colpirà solo coloro che Dio ha scelto, per lui sarà come la ricompensa di un martire

trovo un peccato decisamente veniale non solo che i fisici e gli astrofisici pubblichino grafici con la delirante pretesa di dire qualcosa di anche solo lontanamente giusto nel superenalotto di ciò che capiterà davvero, ma anche la notizia – che evidentemente proprio non poteva non essere comunicata – della richiesta ufficiale inoltrata dal Papa a un destinatario non meglio identificato di un intervento miracoloso per la fine della pandemia.

Insomma, rimango agnostico, sorrido e giustifico chi, in maniera colta, ma forse in modo un po’ maldesto, fornisce comunque spunti di riflessione, se non medica, almeno sociologica. Mi compiaccio, poi, del fatto che almeno qui da noi si scelga di affidare chiacchiere evolute (non si può certo dire che non lo siano) ai social senza pretenderne la pericolosa pubblicazione sugli organi di stampa più letti dalla popolazione.

In fondo, è da tempo che auspichiamo una crescita della cultura scientifica della società.

Vedere comparire in un social un grafico che comunque richiede, per chi davvero decida di interpretarlo, l’attivazione di processi mentali altrimenti intorpiditi dal profluvio di giudizi tecnici incentrati solo sull’ultima partita della juve, ritengo possa essere proprio qualcosa che spinge in quella direzione.

Pungoliamo pure la rete con dosi omeopatiche di (quasi) scienza antipatica! Chissà, forse qualcosa succederà. Probabilmente si incazzeranno tutti, ma alla fine vorrà dire che avranno notato come sia possibile parlare anche di altro e che per spararla davvero grossa, per dire un certo genere di cazzate, bisogna comunque avere studiato bene e a lungo negli atenei giusti.

SZ

CRONACA VIRUS – Giorno 19

                                                     VOX CLAMANTIS IN DESERTO

Non possedendo il filtro della fede, vedo solo le tinte reali di una foto comunque bellissima.

La guardo e mi convinco di avere colto finalmente ciò che è in quel luogo da molto tempo, ma che proprio non riuscivo a focalizzare per la costante presenza di rumore umano: persone di tutte le razze lì alla ricerca della sensazione di schiacciamento che da sempre pietre e tradizione riescono a donare.

Vedo un immenso stabilimento siderurgico oramai in disuso per mancanza di materia prima.

Vedo un’enorme forma circolare in duro marmo nella quale, dal canale di colata della bellissima via della Conciliazione, alla Domenica mattina effondeva in fossa il magma umano pronto a farsi condensare, solidificare dal fascino imponente di quel modello.

Dentro quelle pareti arcuate, materne e contenitive di anime colonnate, al settimo giorno la massa veniva plasmata facendole assumere per un paio d’ore la forma di un’idea antica e viscosa.

Allora, mistero della fede, la calca si faceva calco e poi, a funzione e fusione finita, si scioglieva in pace e rifluiva via di nuovo liquida da dove era entrata.

Di lì a poco, al passaggio da uno Stato all’altro, mutava ancora in tenue gas di persone-particelle disperse verso casa.

Vedere quell’impianto ora vuoto fa impressione.

Resta la bellezza architettonica, orgoglio dell’industria vaticana, ma al contempo, senza il contenuto umano che lo farebbe funzionare, essa assume il valore di un solido ossimoro: un meraviglioso ecomostro costruito in un delirio di vana gloria.

Mi ricorda quando un’immensa fabbrica dismessa, quando una centrale abbandonata che non produce più energia. Una Chernobyl di noialtri avvolta dal black out, nella quale ieri era possibile scorgere nitida, unico punto caldo in tutta quella caldera vuota e fredda, la singolarità nuda: il piccolo nucleo bianco e incredulo che si fa chiamare Francesco.

Sì, quella foto mi impressiona e lo sguardo oscilla tra la voglia di urlare “Bellissima!” e quella di ritirarsi in un silenzio atterrito.

Eppure, per quanto strano possa essermi sembrato vedere l’ostinazione di un singolo uomo lasciato solo a soccombere davanti alla statica indifferenza di marmi, acciottolato e cielo, una certezza si è fatta strada nella mia testa: sono sicuro di avere già visto quella scena più volte.

Sono addirittura certo di averla già vissuta in prima persona; di essere stato, mio malgrado e nel mio piccolo, papa in mezzo a una piazza analoga; di essere stato puntino bianco con gli occhi sbarrati sul niente; di avere ascoltato il rimbombo sordo del mio tenero tentativo di imporre una visione umana a un paesaggio che, gentile, l’ha contenuta senza minimamente curarsene.

Poi a un tratto capisco e sciolgo il nodo del deja vu intravisto:

lo sgomento estatico e affascinato che si legge in quella foto di ieri è lo stesso che si sperimenta stando in un osservatorio a scrutare un cosmo muto e introverso.

La vertigine che si prova guardandola, lo so per certo, è la stessa che fa vacillare mentre si sta a cavallo di un ciclotrone a frugare particelle nelle paradossali cattedrali nascoste in un nonnulla.

Guardandola e misurandola, da uomini e donne di scienza non facciamo altro che pregare la Natura di anticiparci l’evoluzione dell’epidemia di forze che infettano dal profondo la materia.

La stritolano con la gravità, la contaminano con radiazioni X e gamma, la isterizzano con intensissimi campi magnetici, la sciolgono con temperature estreme o la ammalano col più profondo dei geli.

Sappiamo che tutto sarebbe riassumibile e comprensibile se solo si conoscesse ogni volta l’esponente giusto, la vera pendenza di un tracciato epidemico che è sacro Graal di una religione attiva; un credo che non attende segni divini, ma li cerca.

Allora mi chiedo come mai lo sgomento degli uomini di scienza sia lasciato solo a loro che pregano sgranando rosari di dati tangibili, mentre quello del papa – quello di un altro uomo solo che è solo un uomo – viene condiviso subito dal mondo intero.

Se è di questo timore reverenziale della Natura che finalmente avete voglia, non limitatevi a chiederlo alla fede, ma accomodatevi pure nelle platee vuote della scienza.

Se è di quella bellezza austera e distratta del paesaggio di ieri che avete bisogno, non cercatela esclusivamente nelle piazze vaticane o nelle cupole delle chiese, ma accorgetevi definitivamente dell’enorme e desolata piazza cosmica; accomodatevi pure nelle cupole degli osservatori.

Se è di questo rispetto verso un essere invisibile – a tutti gli effetti un nuovo messia che c’è, eccome se c’è! – che attendevate l’arrivo, allora accorgetevi pure dei laboratori che, per non disturbare i vostri sguardi sensibili, preferite posizionati sul retro degli ospedali e nei loro scantinati.

Il papa è nudo.

Con lui, lo siamo sempre stati tutti e accorgercene ci fa benissimo.

SZ

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Rimane un miscuglio di tinte non certo programmato, ma davvero perfetto. Portici vanitosi che, illuminati da filari di luci artificiali, occhieggiano solitari verso una piazza distratta: un calco

 

CRONACA VIRUS – Giorno 18

                                                     L’ULTIMO FOTOGRAMMA

Dicono che prima di morire si riveda l’intero film della propria vita compresso in pochi secondi. Forse addirittura in uno, prezioso e ultimo. Prezioso perché ultimo.

Mi immagino, allora, nel mentre trasalirò migliaia di volte pensando “Ecco dove accidenti avevo messo quella tal cosa che ho cercato tanto!” o “Nonostante io stia morendo, il mio comportamento di quella volta continua a imbarazzarmi tremendamente,…”.

Capiterà anche di arrabbiarmi, di gioire e di rinnamorarmi innumerevoli volte per poi subito disperarmi per dieci, cento, mille amori finiti; amori velocissimi, ma non per questo poco intensi, anzi. Infine proverò milioni di volte la nostalgia di alcuni momenti che hanno reso la vita degna di essere vissuta e forse sarà proprio questo il motivo per cui morirò. Non credo che a uccidermi sarà una patologia di qualche tipo. Quella servirà solo a condurmi sull’uscio oscuro e misterioso dell’Ade. A farlo, a darmi la spintarella, sospetto che sarà l’eccesso di informazioni emozionali così compresse nel tempo che consumerà l’ultimo millimetro di stoppino; quello che, tenace, separerà la fiammella dalla cera rimasta della mia candela.

Lo penso perché mi rendo conto che la situazione odierna mi sta stimolando la memoria in modo diverso dal solito: sarà che ho più tempo per farlo, ma passo buona parte del mio tempo a compiere l’involontaria operazione di ricordare eventi lontani.

In fondo, è abbastanza normale: da neonati si  parte (apparentemente) senza ricordi e poi, man mano che nei giorni, nei mesi, negli anni si accumulano le esperienze, il materiale esperienziale impilato fa sorgere per la sua gestione il bisogno di qualcosa come il processo di memorizzazione, conscio o inconscio che sia.

Credo, ma purtroppo non ne serbo un ricordo netto, di avere già parlato, in passato in questo stesso blog, del fatto che l’avere accumulato diversi decenni di esperienza in fatto di vita, mi ha dato spesso la possibilità di comprendere a posteriori il perché di alcuni eventi del passato.

Quelli che – quasi fossi affetto da una specie di prematura e duratura presbiopia della visione interiore che impedisce di focalizzare l’adesso vicino – nel mentre li vivevo, sembravano assolutamente privi di alcun valore.

Aver avuto la pazienza di attendere mi ha consentito, a distanza di uno o più decenni, di capirne il significato, di sentire il sapore vero e sottile di cibi che, giovane e affamato di sapori forti, sembravano sciapi.

Questo genere di esperienze mi porta a immaginare il tempo come strutturato in fili: lenze delle quali non vedo l’amo e che pescano molto, molto lontano da qui; nervature lunghissime, stese a connettere gli stimoli odierni con una mia reazione molto lontana nel futuro.

Simili pensieri mi fanno sorridere ancora una volta scoprendo che, se è vero ciò che si dice sull’istante prima di morire, è probabile che scoprirò quale sia la lezione insita in chissà quali eventi di molto precedenti senza poterne fare tesoro per intervenuta decorrenza dei termini.

Ecco, questa potrebbe essere la scoperta in assoluto più importante: l’inutilità della morte che, in barba alla saggezza finalmente conquistata, mi metterà in condizione di dover rinunciare alla possibilità di aggiustare il tiro.

O forse no. La lezione, dopo un’intera esistenza trascorsa a cercare di scorgere insegnamenti da mandare a memoria, potrebbe proprio venirmi dall’accorgermi che è la vita, e non la morte, ad essere stata inutile col suo carico di sovrastrutture che siamo bravissimi a costruire per combattere l’horror vacui.

Come già il pensiero biologico ci ha suggerito, il vero scopo della nostra presenza qui potrebbe non essere connesso ad altro se non alla necessità di propagare i propri geni – la Natura lo vuole! – per creare un altro essere che non potrà esimersi dallo scoprire la stessa nuda verità.

Nel caso, farò spallucce: tutto il film della mia esistenza collasserà su quell’unica, magica scena di quel pomeriggio del 24 Maggio 2012 in cui qui, nella stessa stanza della casa in cui ora mi trovo, aveva davvero inizio l’avventura di mio figlio Giovanni: un’avventura che invece – perpetrando un’inveterata abitudine storica alla inevitabile mistificazione dei dati cronologici di cui i nostri libri sono pieni – all’anagrafe risulta essere iniziata il 27 Febbraio dell’anno successivo.

In un estremo tentativo di salvare la validità di ciò che ho detto prima, mi aggrappo al dato che vede i figli come memorie solide e organiche della nostra struttura biologica di genitori.

Visto così, il significato al momento valutabile come scarso della mia esistenza, avrà modo di prendersi la sua rivincita rivelando la sua importanza quando, una volta che mi sarò tolto dalle balle, mio figlio realizzerà la sua vita, quindi la mia.

Forse dovrei iniziare a preoccuparmi: lo stare chiuso qui dentro senza poter uscire, senza poterr fare le mie lunghe passeggiate, senza poter stimolare in modo adeguato la produzione di vitamina D e soprattutto senza poter confidare in una previsione credibile di quando tutto ciò avrà termine, sta assumendo sempre più il carattere di un viaggio definitivo. Quello oltre l’orizzonte degli eventi collocato all’inizio di questo mese, a partire dal quale non possiamo più fare a meno di spiraleggiare in avvitamento stretto attorno a una destinazione oscura e compatta.

Questo giustificherebbe la lentezza con la quale mi arrivano i ricordi, ma anche il loro giungere a farmi visita sempre più di frequente laddove, in condizioni normali, mi lascerebbero vivere abbastanza in pace.

Qualcuno potrebbe essere stufo di questi discorsi e chiedermi di non tergiversare oltre rivelando finalmente quali sono stati questi famosi ricordi di ieri. E io, se così è, ve lo dico.

In uno ci sono io ragazzino che gioco col Lego a casa del mio amico Ivan. É una casa enorme, risultato dall’unione di due appartamenti, e noi ci troviamo in un ambiente inondato dalla luce lasciata entrare dalla lunghissima vetrata che abbraccia la metà del perimetro di quella abitazione.

Prima che venisse chiusa per diventare a tutti gli effetti un ambiente vivibile, quella doveva essere solo un’enorme veranda dalla quale dominare tutto il quartiere e godere della vista dell’orizzonte che invece da casa mia, più piccola e meno sopraelevata, oramai non si scorgeva più, occultato com’era dai nuovi palazzi costruiti nel circondario.

Eravamo entrambi molto bravi e creativi nell’usare quei pezzi colorati e avevamo costruito ognuno la sua astronave personale. La sua, un analogo della casa dove viveva, aveva dimensioni decisamente notevoli e poteva ospitare un equipaggio di alcuni astronauti. La mia era invece, molto più modesta e piccola della sua e forse, anche nel mio caso, essa rispecchiava la dimensione di casa dei miei, nonché pure una certa diversità di ceto e di disponibilità economica delle mia famiglia rispetto alla sua.

Potrei definire quella mia astronave una semplice monoposto che sotto il pavimento dell’abitacolo celava un ripostiglio. Ripensandolo, mi viene da metterlo in relazione allo scantinato buio e odoroso di muffa, conserve di pomodori e goccie di vino sfuggite da quei fiaschi avvolti in ceste lignee della casa dei miei nonni materni. Odori e luci soffuse che me lo rendevano estremamente affascinante, forse perché, a causa della poca luce, imponeva di orientarsi con tutti i sensi meno che il gusto.

Al ripostiglio della mia astronave, una specie di “doppio fondo” di una 24 ore, si accedeva tramite una botola nel pavimento ed era diviso dalla sala motori da una paratia spessa che, secondo le mie intenzioni, avrebbe dovuto proteggere l’ambiente dalle radiazioni prodotte dai propulsori a fusione nucleare.

Immaginavamo di viaggiare nel cosmo per andare a vedere da vicino le meraviglie di cui si parlava nei libri e in alcuni programmi televisivi (la trasmissione Quark fu inaugurata quando ero in terza media…) e l’angustia di quell’ambiente non mi preoccupava affatto, anzi.

Grazie alla distanza di una quarantina d’anni dalla quale rivisito quei momenti, ho la possibilità di interpretare quella ed altre per l’epoca strane ed episodiche tendenze all’isolamento come possibili espressioni di un viaggio mentale e professionale che avrei percorso sempre più slegato dagli altri.

Una tendenza che, forse intuendo quale fosse davvero ciò che la mia natura più autentica mi avrebbe riservato in futuro, ho sconfessato fino a pochi anni fa conducendo una vita sociale intensissima, all’aperto, muovendomi veloce e affamato in spazi enormi, così ampi da apparire in stridente contrasto con il piccolo ambiente della mia astronave.

Va a finire che stavo solo costruendo una cantina di ricordi sociali d’annata, utili a costruirmi un vitalizio mnemonico cui attingere, come in questo momento, per ubriacarmi e non sentire il peso di ciò che sono diventato.

La solitudine dei miei sogni da ragazzo ammetteva solo una eccezione, quella protagonista del secondo ricordo:

stavolta mi trovo, di sera, a discutere con mio padre nel suo studio, ultima stanza in fondo a sinistra del corridoio del nostro appartamento. A quell’ora mi capitava spesso di essere lì con il primo Giovanni della mia vita a chiacchierare sul sottofondo di note non banali emesse dal solito canale radio della Rai – non ricordo se all’epoca fosse il secondo o se invece si trattasse sempre del terzo…-, nella calma aromatica generata dalla sua pipa o dai sigari che amava concedersi alla sera.

Una calma che, non avendo mai fumato, di tanto in tanto provo a riprodurre affondando il mio lungo naso in un bicchiere di torbido Laphroig.

Una sera, quella sera del ricordo – all’epoca ero già studente di Fisica al primo o secondo anno -, si parlava della bellezza del cosmo: in simili discussioni a me veniva prematuramente affidato il ruolo di consulente scientifico, mentre lui sondava gli aspetti più estetici e cosmogonici della faccenda. Quelli che, da insegnante di filosofia e intellettuale onnivoro quale era, di sicuro gli spettavano per aver conquistato le stellette sul campo di battaglia.

Guardando dalla finestra chiusa il fazzoletto di cielo da lì visibile, immaginai per un attimo di volare via a bordo di quella stanza tappezzata di libri che, come la mia piccola astronave di Lego, staccatasi dal resto della casa, della famiglia, del palazzo, …, conduceva me e lui in giro nel cosmo per vedere ancora una volta da vicino ciò che stando ancorati al terreno poteva solo essere evocato.

Oggi sono ancora qui a immaginare spesso di partire. Lui non ha atteso: impaziente, ventitré anni fa è andato in avanscoperta e ogni tanto mi chiedo se in un fotogramma del suo ultimo film sia riuscito a notare, anche solo per un attimo velocissimo, la mia commozione di quella sera.

SZ

 

CRONACA VIRUS – Giorno 17

                                                           INVISIBILI SCULTURE

A volte quasi la offendiamo definendola “viziata”, “pesante”, “brutta”. In altre situazioni  ci manca, la cambiamo o la nominiamo per invitare qualcuno ad andare via.

E se ieri parlavo di memorie di ieri e memorie del domani, tra le memorie dell’adesso, quindi tra le cose che diamo per scontate senza focalizzare mai la nostra attenzione del momento su di esse, vi è lei: l’aria che respiriamo.

Essa, da sempre presente alle nosre azioni, oltre a permetterci di vivere, contiene, materna, tutti i nostri gesti: li accoglie, li coccola, li accarezza senza farci sentire troppo il peso della sua presenza e, se fosse personificabile, verrebbe quasi da chiedersi: “ma noi che da essa riceviamo tanto, cosa diamo in cambio all’aria?”

No, questo articolo non intende essere un’ulteriore denuncia dell’inquinamento di origine antropica. Vuole piuttosto soffermarsi su un altro aspetto che da sempre mi colpisce piacevolmente e che uso per tentare di comprendere quale sia l’utilità, la funzione reale di alcuni aspetti della nostra vita psichica che tanto mi interessano.

Sospetto che i pensieri che sto per confessare si siano evoluti a partire dal 22 Settembre del 1995, giorno in cui annotai un semplice pensiero su un piccolissimo block notes verde: uno di quelli che fino a una decina di anni fa, prima che i cellulari divenissero la pietra d’appoggio di tutta la nostra esistenza, portavo sempre con me per appuntare pensieri, idee grafiche e musicali.

La sua rilettura ieri mi ha riempito di sensazioni strane e di nostalgie solo in parte decifrabili; quelle che stamattina, al mio risveglio, erano tutte qui ad attendermi, imponendomi di scriverne. In quelle righe dicevo:

Mi rifugio in stanze di musica, con muri di note che coprono le immagini di fuori; chi le costruisce? Un mio ideale batterista percussore mentale che tenta di inserirsi nel ritmo del battito cosmico, un trombettista dal soffio educato, un sassofonista dall’alito pentagrammato.

Quella che potrebbe sembrare solo una metafora è in realtà anche il modo con cui alle volte mi spiego cosa sia realmente una cosa così impalpabile come la musica. Mi sono da un po’ persuaso che essa altro non sia se non un modo di scolpire l’aria; un modo di dare ordine al moto altrimenti caotico delle particelle che la compongono così da far loro assumere la forma dei nostri pensieri alrimenti non comunicabili; così da renderli finalmente decifrabili da chi possiede quella particolare sensibilità geometrica. Chi la possiede, a sua volta consente l’accesso a geometrie aeree che riorganizzano le geometrie disegnate dall’attivazione di una “scelta” opportuna di neuroni.

In fondo,  anche quando ci muoviamo non facciamo altro che scolpire l’aria. I nostri gesti, le nostre posture, possono essere riguardati come pensieri del corpo (si pensi alla danza), nostro cervello esteso.

Essi, però, in quanto visibili, risultano troppo facilmente decifrabili e il loro negativo acustico quindi geometrico – l’involucro che un Michelangelo dell’aria salverebbe buttando via il corpo che lo modella da dentro, ottenendo così una specie di scultura per ciechi – diventa assolutamente secondario rispetto a ciò che, esibizionista, si impone alla nostra vista.

La facilità della decifrazione visiva ancora una volta ci fa dimenticare l’esistenza dell’atmosfera che tutto pervade e assiste con l’impareggiabile discrezione che è propria di ciò che, pur presente, non può essere visto.

In questo periodo di immensa solitudine mi rendo conto che è lei, l’aria, a farmi maggiormente compagnia: col silenzio – un caotico contenitore di particelle che, non spinte di qua e di là da oggetti in movimento, si spostano più lente del solito – o con la musica che arreda i nostri ambienti anche più delle architetture solide attorno a noi.

Saltando di pensiero in pensiero, facendomi dare un passaggio dalle ali dell’analogia, mi tornano allora alla mente le parole della mia amica Francesca: un tipo particolare, amante sì del bello, ma che lo frequenta ponendo più di un metro di distanza di sicurezza tra lei e la possibilità di farsi toccare così in profondità da perdere la sua libertà di essere una

“donna eternamente cazzeggiante, ancorché inconcludente e ingiustificabile, che però ha la capacità di regalarsi estasi da dettagli che racchiudono mondi che ai più sfuggono, e con consapevolezza se ne appropria”.

Qualche mese fa, durante una discussione circa i nostri ascolti preferiti, mi confidò:

Trovo che la musica di Bach abbia la capacità di mettere in ordine i pensieri”

Un punto di vista che mi trovò assolutamente d’accordo, anche se, per quanto affermato più su, mi sembra di scorgere un ordine, una geometria più o meno precisa (quella delle composizioni bachiane è a dir poco impeccabile) in tutti i pensieri organizzati: essi disegnano sempre una forma che, prima di essere ordine di particelle d’aria o di segni alfanumerici e/o pittorici, è ordine, geometria, forse anche ecologia di connessioni neuronali rispecchiate da ciò che manifestiamo all’esterno del nostro corpo.

Sono portato a pensare che anche la scrittura rientri di diritto in questo discorso: le parole, dette, lette o scritte che siano, sono una sorta di monodica e monòtona musica a progetto che, a differenza delle colonne sonore a ben vedere adattabili a diverse situazioni, crea immagini visive vivide e univoche: sentendo la parola “sedia”, ognuno di noi visualizza quella che per lui è in quel momento l’archetipo di riferimento per quell’oggetto. Un archetipo che condivide con gli archetipi altrui la forma sintetica di una sedia e il suo uso (chissà, forse è proprio in questo aspetto che va cercata la spiegazione del maggiore successo riscosso dalla musica cantata rispetto a quella suonata…)

A questo punto, credo che anche l’arte astratta, quella di più difficile interpretazione, acquisti un valore del tutto decifrabile: le pulsioni, le fantasie, i sogni, gli incubi – quelli che da un ingegnere elettronico potrebbero forse essere messi in connessione con le dark currents o con gli ineliminabili rumori stocastici presenti in tutti i processori microelettronici – forse a causa della loro episodicità, non ci impongono la stessa pressante attenzione dei pensieri organizzati nei quali più facilmente ci imbattiamo stando in Natura o immersi in società.

Se così fosse, per esprimere il manifestarsi di stimoli disordinati di quel tipo non credo avremmo molte altre alternative oltre quelle offerte dalle destrutturazioni, dalle deviazioni, spesso le più improbabili, dalla facile e comodamente interpretabile struttura euclidea dei discorsi, dei suoni, dei segni. Una geometria che, per capirci meglio,  abbiamo reso la più diffusa, quindi stocasticamente più probabile.

Ed è così che, attraverso i livelli intermedi come ad esempio, quelli offerti da Mondrian in pittura o da Hindemith in musica, finiamo nell’ambito non euclideo, nella destrutturazione di Malevič, nella pittura dinamica di Pollock, nei tagli di Fontana, …

Come che sia, oggi mi farò tenere ancora una volta compagnia dalle trasmissioni del terzo canale Rai della radio.

In particolare, affido le geometrie di parte dei miei pensieri alla voce familiare di Eduardo Camurri e alla sua rubrica Pagina 3, alle musiche del Concerto del mattino introdotte dalla voce di Arturo Stalteri, alle strampalate follie della divertentissima Barcaccia e ai concerti serali proposti da Radio 3 suite.

Sono sicuro che, oltre a intrattenermi, mi metteranno a posto casa cambiando l’aria dell’ ambiente quotidianamente viziata da tanta bellezza.

SZ