A quindici anni di distanza da Qui

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Come ogni anno, anche stavolta sono riuscito ad andare ad ArteFiera.

É uno di quei classici eventi capace di farti sentire orgoglioso di vivere in una città che prova costantemente ad allinearsi con quanto di bello accade nel resto del mondo.

Farsi una passeggiata dal centro fino al quartiere fieristico, approfittare per prendere un caffé lungo il percorso; arrivare e immergersi in una atmosfera pregna di una certa attesa di bellezza; scoprire che il progetto della bellezza interessa tante persone mentre di solito si è convinti che il progetto più diffuso sia quello della distruzione globale del mondo, dell’imbrattamento e dell'”imbruttamento”, fa bene. Permette di abbassare il diaframma e impone per qualche ora di sotterrare l’ascia di guerra.

Sarà per la crisi, ma anche quest’anno la kermesse risultava ridotta in dimensioni. Nulla a che vedere con le edizioni di tanti anni fa quando, arrivato da poco nella città felsinea, mi perdevo fra padiglioni adiacenti, sovrapposti, connessi, sconnessi e strabordanti proposte artistiche di ogni tipo.

Ma tant’è. Mi rallegro del fatto di aver trovato nei due padiglioni 25 e 26 uno sforzo immutato di dare diversi ritratti non (sempre) banali al periodo storico nel quale viviamo.

Mentre ero lì, compiendo un rapido raffronto mentale con le opere del passato, per un attimo mi sono trovato a valutare non come arte, ma come illustrazioni tecniche le tele, le foto, le sculture, le installazioni che si paravano davanti ai miei occhi nei vari stand. Un giorno, unitamente agli elettrodomestici, alle auto, ai libri, ai film, esse consentiranno a qualcuno di capire tecnicamente cosa stesse succedendo alla gente in quel lontano inizio del XXI secolo.

Il mio giro non è durato molto e dopo poco più di due ore mi sono ritrovato nella luce di una bella Domenica bolognese.

Di solito, il bottino di sensazioni che mi porto a casa è abbastanza ricco.

Confesso che invece quest’anno, se non fosse stato per i soliti Pomodoro, De Chirico, De Pisis, Sironi, Burri, Fontana, Melotti, sarei tornato a casa a mani quasi vuote (in realtà sono stato piacevolmente incuriosito da un lavoro di Spazzoli e da altri di Deodato).

Chissà, forse si tratta di una crisi degli attuali movimenti artistici, orfani di grandi idee da sottoporre al mondo.

Dimenticandomi per un momento quanto nelle edizioni precedenti sia stato piacevolmente suggestionato da diverse nuove proposte, e avendo constatato in questa edizione della Fiera di essere riuscito a vibrare solo di fronte alle opere dei nomi su citati, un dubbio mi sorge: forse dovrei leggere la mia parziale delusione di oggi pensando di essere sì un “uomo del mio tempo”,  ma arrendendomi al contempo di fronte al dato di fatto di essere comunque un figlio del ‘900.

Lo dico con una punta d’orgoglio, ma anche come confessione di una certa inerzia mentale: le mie radici culturali sono in quel tempo, a Quindici anni da Qui.

Vado a letto con questo dubbio.

La notte porterà insonnia.

SZ

Sottofondo: silenzio, se non fosse per il gorgogliare del frigo che, freddo conservatore, custodisce pensieri di pancia

Aforisma 5: Charlie Parker dixit

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Lo scorso 8 Gennaio mi sono imbattuto in una fotografia pubblicata da un musicista mio amico su Facebook. In essa, un sorridente Pino Daniele sedeva a un tavolo in giardino. Davanti a lui vi erano una chitarra, un amplificatore, alcuni CD e un libro famoso tra chi pratica certi generi musicali: il Charlie Parker Omnibook (1).

La cosa non mi ha sorpreso più di tanto: della serietà del suo approccio alla musica, argomento di un mio recente post (2), credo non si possa dubitare e quella foto me lo ha confermato ampiamente.

Perché puoi anche decidere di fare del Pop; puoi anche scoprire che la tua storia ti ha condotto altrove, laddove magari hai pure dato vita a generi diversi, ma credo che almeno un passaggio da certe stazioni della storia della musica mondiale sia obbligatoria. Quello che musicisti come Parker hanno scoperto, quello che hanno detto e scritto, lo si trova masticato, digerito, metabolizzato finache negli assoli dei più grandi rocker come anche in quelli dei più cattivi metallari; negli arrangiamenti di musica da film e in quelli di certa disco-music.

Ignorare, trascurare le creazioni dei geni del passato, recente o lontano che sia, equivale a non avere cultura musicale, quella che fonda da lontano tutto ciò che ascoltiamo, dai più miseri accordi delle canzoncine per bambini alle composizioni di musica contemporanea nate proprio in opposizione a regole precedenemente codificate. Ascoltando un qualsiasi brano moderno, si sta dando per scontata l’esistenza di giri armonici scaturiti dalle ricerche all’epoca trasgressive di una miriade di compositori classici nati prima del ‘900 e di altri, autori classici e jazzisti, nati nel XX secolo.

Credo che per generi come il blues vada fatto un discorso un po’ diverso ma, ne sono convinto, anche per un bluesman è caldamente consigliato studiare i “classici”… Non si possono certo ignorare alcuni nomi che per quel genere hanno la stessa importanza di Beethoven o di Brahms!

É per questo che a volte mi fa sorridere la pretesa di alcuni di suonare jazz senza passare da un ascolto attento e da almeno un tentativo di riproduzione dei discorsi di personaggi che hanno letteralmente causato alcune svolte epocali dell’idioma jazzistico.

Di quell’idioma, il be-bop è una particolare variante rivelatasi virale dopo l’arrivo sulla scena di Parker, da molti considerato il padre di questo nuovo modo di suonare. Nato quindi come modo proprio del giovane Charlie di approcciare la musica, il be bop, spesso detto brevemente bop, è divenuto un dialetto parlato da una comunità sempre più vasta di musicisti che, suonando in giro, hanno infettato il resto del mondo della musica del secolo appena trascorso. E come sempre accade, le mutazioni subite dal bop per adattarsi alle diverse nicchie ambientali, hanno generato nuovi fecondi rami dell’evoluzione musicale. Un esempio ne è la lingua parlata dal parkeriano Phil Woods, musicista al quale di recente ho dedicato un post in questo stesso blog (3).

Studiare Parker assume quindi lo stesso carattere dell’affrontare il latino di Seneca o di Virgilio, il greco di Omero, l’italiano di Dante, l’algebra di al-Khuwarizmi o di Gauss e la geometria di Euclide: è un modo per far proprio il passato così da rafforzarlo o, se si riesce, così da portare avanti il discorso già condotto fino a lì da personaggi che hanno detto cose fondamentali per l’intera cultura umana.

Per poter andare davvero oltre e, nel caso, per avere consapevolezza di star dicendo  qualcosa di nuovo, è necessario conoscere almeno le pietre miliari della tradizione del paese nel quale si è deciso di vivere.

Vuoi far musica? Bene, ascolta moltissimo e leggi qualcosa delle glorie del paese musica: affronta Bach, di Mozart, di Stravinskji, di Coltrane, di Bill Evans, di Corea… Se non lo farai, forse riuscirai lo stesso a raccontare una storia interessante, ma molto probabilmente sarà tale solo per chi come te ignora da dove veniamo. Per tutti gli altri, si tratterà soltanto di un simpatico far finta che; un curioso trastullarsi col già detto, glorificandosi di aver trovato l’acqua calda.

Se Parker con i suoi temi e le sue improvvisazioni correva a 300 di metronomo, non era certo per vacuo sfoggio tecnico: quelle frasi gli servivano per esprimere ciò che viveva un nero di Kansas City arrivato nella Grande Mela sul finire degli anni ’40 del secolo scorso. Grazie ai voli di Bird (4), a circa settant’anni da quel periodo e a quasi settemila chilometri di distanza da quei luoghi, possiamo avere una qualche possibilità di ricostruirne le atmosfere, di rivivere parte di quelle sensazioni da lui e da altri provate (il fatto stesso che il suo modo di suonare abbia riscosso un così grande successo, ci garantisce che il pubblico di quel periodo avesse corde capaci di vibrare per simpatia con le note emesse dal suo sassofono) nel tentativo di capire da dove vengono le tensioni, le suggestioni e le angosce tipiche del tempo che viviamo.

Andare veloci sullo strumento non significa quindi esibire qualità ginniche o, perlomeno, non dovrebbe essere solo quello. Vi è un certo indubbio autocompiacimento nel saper emettere cascate di note, tutte di uguale intensità, tutte legate, tutte scandite e pronunciate con la giusta decisione, ma invito a rivedere quelle stesse frasi anche sotto una luce diversa: si consideri sempre che, quando sincere e non semplice espressione di un pedissequo esercizio, si tratta pur sempre del frutto del pensare velocemente: è capacità di organizzare il materiale sonoro in una concatenazione di immagini mentali aventi senso; è un’organizzazione di eventi, di movimenti, di analogie, contestualizzati nel mentre si improvvisa su un argomento musicale proposto da altri che discorrono con te.

Viste in questo modo, quelle note veloci sono da considerarsi al pari di teoremi matematici; al pari di fini pensieri politici, economici, filosofici; al pari di pennellate frenetiche o di scarti danzati alla Pollock su di una tela o alla Nureyev su di un palco. Insomma, quelle note  hanno la dignità del più puro dei concetti. Sono esse stesse idee appartenenti a un mondo volatile che fa il suo ingresso nel reale portato dal suono e che altrimenti albergherebbero parte in un iperuranio di curve pure, parte nel più profondo e insondabile recesso del nostro inconscio.

Tempo fa lessi un articolo in rete in cui si elogiava l’andar piano nel suonare. A scrivere era un sedicente jazzista il quale però, suo malgrado, toccava involontariamente un punto fondamentale: a un certo punto si può, anzi, si deve scoprire quale sia la propria cifra espressiva. Non si può rifare sempre il verso ai grandi della storia del pensiero, pretendendo al contempo di dire qualcosa di originale. Se sai suonare Parker alla perfezione, vengo volentieri a sentirti una volta, ma poi compro i suoi dischi, non i tuoi. Vado alla fonte e non bevo sciacquatura (che potrebbe far rima con “spazzatura”).

La lentezza che ha un senso è quella ottenuta accantonando la velocità perché, dopo averla raggiunta, si è scoperto che non ci interessa. Similmente, se il motore Fire della mia vecchia Fiat 600 andava benissimo alle basse velocità consentite nei centri urbani, lo si doveva al fatto che qualcuno da sempre studia come far correre una Formula 1 a 300, non di metronomo, ma in autodromo.

Insomma, viva la lentezza se è il frutto di una scelta consapevole. Se, dopo aver affrontato seriamente lo studio di chi ti ha preceduto, d’un tratto scopri che il tuo mondo musicale è quello delle frasi diradate, dei ritmi lenti, dei sussurri e delle assenze, più che dell’urlo e delle presenze, fai bene a rallentare, a concentrarti su una poetica dal respiro meno frenetico.

Se però non passi dai classici scegliendo di percorrere comode scorciatoie, se pensi che a farlo ti autorizzi il suonare uno strumentino poco conosciuto o col quale in pochi sanno cosa sia davvero possibile suonare; se speri che per questo nessuno ti chiederà spiegazioni su come mai hai evitato di andare almeno per un po’ lungo la strada principale, sappi che infinocchierai moltissimi, ma a un orecchio allenato risulterà chiaro come tu abbia aggirato l’ostacolo scegliendo di non frequentare quella palestra fondamentale.

Le tue frasi lente non avranno mordente, pronuncia, intenzione, ritmo (sì, ritmo. Ce ne vuole tanto anche per andare lentamente). Alla fine, si scopre che non stai suonando jazz. Va benissimo così: ti ascolto lo stesso, ma confessa e dimmi (e ditti) una volta per tutte che stai facendo altro. Non è jazz se sai solo suonare (male) il tema di uno standard e poi, incosciente, hai anche il coraggio di lanciarti in una improbabile improvvisazione. Chi non conosce la musica si farà fuorviare dal tuo ardire, leggendolo in modo errato come consapevolezza, ma tu saprai che non è così. Tu saprai che ti sei lanciato nel buio con la speranza che a salvarti ci siano sempre il tuo pianista, il tuo contrabbassista, il tuo batterista e quel certo odore di jazz che il locale o la situazione regalano alla tua persona lì sul palco.

Ho parlato di pronuncia, di mordente, di ritmo. Aggiungo sincopi, fermate brusche, virate, ripartenze al fulmicotone o ritardate di quell’epsilon che fa soffrire chi impaziente attende la nota successiva. Molti riassumono tutto questo in un termine abbastanza oscuro di cui noi che frequentiamo certi ascolti amiamo far pensare di conoscerne il significato. Inoltre cerchiamo di far passare anche il concetto che si possegga ciò che esso rappresenta.

Il termine fatato è swing e, lo garantiscono tutti: se ascolti, se studi, se provi a rifare per un po’ quello che i maestri hanno fatto, qualcosa dello swing lo capirai, ti rimarrà addosso. Poi è anche vero che quando ti proverai a suonare le tue idee, si paleserà subito quale percentuale di swing tu possieda, quindi anche se ne sei completamente privo. Ma questa è un’altra storia.

L‘aforisma al quale questo post è dedicato è l’assolo su Billie’s Bounce di Parker e, esattamente come accade a tutti i musicisti, a tutti gli oratori, a tutti coloro i quali in qualche modo si esprimono (quindi a tutti…), il modo parkeriano di parlare tradisce una certa bellissima limitatezza di frasi da lui collocate sempre simili, spesso uguali, in particolari punti delle composizioni sue o altrui.

Ad esempio, considerando lo spartito che trovate in alto in questa stessa pagina e tratto dal già citato Omnibook per strumenti in C, la frase che inizia a battuta 22 sull’accordo di G- di Billie’s Bounce la si ritrova molto simile, nell’ordine: ai righi 21 e 29 di Anhropology; al rigo 6 di Celerity; al rigo 8 di Au Privave; al rigo 20 di Constellation; ai righi 18 e al 34 di Ko Ko; al rigo 22 della prima versione e al rigo 13 della seconda versione di Kim; al rigo 7 di Barbados; al rigo 3 dell’impro su Now’s the time; al rigo 9 di Ah-leu-Cha; ai righi 5 e al 16 di Klaun Stance; al rigo 14 di Card Board; all’inizio di Bird gets the worm, ma anche al rigo tredici dello stesso brano; nell’ultimo chorus dell’allegrissimo e spensierato Visa e alla riga 13 dell’impro su Passport; al rigo 13 di The Bird; al rigo 12 di Steeplechase;  al rigo 24 di Merry-Go-Round;  ai righi 11, 19, 21 e 27 di Leap Frog; al rigo 7 di Si Si; …

In tutti questi brani, eccezion fatta per una delle volte in cui viene suonata nell’impro di Leap Frog, la frase in esame viene usata sul C7 o, quando viene annunciata con un arpeggio, sul G- precedente da dove poi si espande sulla risoluzione in C7.

Provando un po’ a suonare i vari assoli riportati nel libro, si scopre come – geniali deviazioni a parte, frutto dell’ispirazione momentanea o forse di meravigliosi errori – su ogni blocco di accordi Parker avesse a disposizione tutta una serie di frasi direi “preconfezionate”, vere e proprie frecce da scagliare al momento opportuno col suo arco contralto.

Il discorso poi, dagli accordi va allargato alle diverse tonalità: per ognuna di esse, disponeva di un intero repertorio prêt-à-porter di blocchi di idee diverse da usare a suo piacimento. Forse qualche sassofonista potrà confermarmelo: ho la netta impressione che la scelta di quali suonare fra quelle da lui immaginate, fosse il risultato di una selezione ulteriore compiuta fra quelle che, in una particolare tonalità, si dimostravano più facili da eseguire sul contralto.

Difficile allora trovare la frase sotto esame in un assolo in A bemolle. La locuzione di Billie’s Bounce che ho selezionato come esempio, quel modo di dire tutto parkeriano, andava bene in C o in F e veniva usata ogni qualvolta Parker si trovava a passare da una struttura II V I come ad esempio la sequenza di accordi G- C7 F o D7 Gm C7.

Con questo non voglio certo dire che il buon Charlie Parker non fosse un genio. No di certo. Sarei un folle anche solo a pensarlo. Il senso di questo discorso piuttosto vuole essere che la lingua da lui parlata e, in buona parte, da lui inventata, si compone di pronuncia, di cadenze, di pause sapientemente usate a creare suspance. Inoltre nella ricetta vanno incluse diverse frasi fatte, modi di dire, detti, motti, frasi idiomatiche esattamente come accade con le lingue parlate composte esattamente dalle stesse cose.

Uno dei primi passi da compiere per farsi accettare in una comunità è impararne la lingua, i detti, il dialetto, la cadenza (la calata), i termini, gli idiomi. Purtroppo tutti, sia quando parliamo che quando scriviamo, andiamo incontro a ripetizioni: come è normale che sia, possediamo una limitata conoscenza di termini e di verbi e una limitata capacità di impararne di nuovi. Possediamo anche una limitata memoria di come grandi autori hanno usato il materiale linguistico e il tutto ha a che fare solo con i limiti naturali del nostro cervello.

Ma non è poi così grave: è facile scoprire che lo stile di un grande scrittore è spesso contenuto non solo nel suo particolare punto di vista, ma anche nei suoi limiti che ce lo rendono riconoscibile tra tanti: la struttura sempre simile data alle sue frasi, i termini che usa più di frequente per definire le situazioni e gli oggetti che capitano sotto il suo occhio di descrittore; quel respiro sempre presente nei suoi periodi; il suo uso della punteggiatura.

Il jazz è un paese che parla tantissimi dialetti, tutti derivati dall’uso della lingua madre che è stata creata dai suoi Dante, dai suoi Omero, dai suoi Shakespeare. Parker è uno di loro. Se non studi un po’ cosa ha detto per poi progressivamente prenderne le distanze con intelligenza e sincerità, procedendo lungo un percorso tutto tuo, sei solo uno straniero in terra straniera (5), e tale rimarrai.

A pensarci bene, può andarti alla grande: anche il pubblico del jazz sta cambiando, convinto che sia jazz ciò che è spesso solo jazzato. Convinto che una svisata sia quanto di più jazzistico si possa chiedere alla vita. Ma sia io che te lo sappiamo: stai barando a un tavolo attorno al quale chi assiste non conosce il gioco e le sue regole.

Io posso essere molto cattivo con me stesso e spesso, quando suono, mi dico alcune delle cose che hai appena letto. E tu?

SZ

1- http://en.wikipedia.org/wiki/Charlie_Parker_Omnibook

2- https://squidzoup.com/2015/01/06/aforisma-4-joe-amoruso-dixit/

3- https://squidzoup.com/2014/12/27/aforisma-3-phil-woods-dixit/

4- “Alcuni lo attribuiscono alla sua passione per le ali di pollo fritte…
Altri al fatto che un giorno, girando con la macchina in campagna, investì un pollo (Bird o Yardbird uccello da cortile). si fermò raccolse l’animale, e lo fece cucinare dal cuoco dell’albergo. E con grandi cerimonie ne offrì a tutti coloro che erano a cena con lui quella sera… A me piace pensare che fosse perchè prima di ogni esibizione, diceva a chi stava accanto a lui: ” ora si comincia a volare ” …A New York City gli dedicarono,  un locale di Jazz sulla 52^ strada. Il famoso “Birdland” appunto…” (ho trovato questo testo alla pagina: http://www.germanoantonini.it/1/aneddoti_curiosita_582266.html)

5- Titolo di un famoso romanzo di fantascienza di Robert Heinlein

Alieni cugini, figli di nostra CIA

Non volevo scrivere questo post – è spesso ritenuto troppo screditante parlare di simili faccende per chi come me si professa amante della scienza ed è impegnato nelle attività di un istituto di ricerca – ma se lo state leggendo, capirete che alla fine ho ceduto.

Ho letto l’articolo di Rampini (1) di commento alla notizia circa l’ammissione della CIA: gli UFO sono una loro creazione. Si tratterebbe di un esperimento aeronautico iniziato più o meno settant’anni fa e che sembra non interessargli più tenere nascosto al mondo.

Ora lo diranno in tanti: “gli UFO non mi hanno mai convinto”.

Succede sempre così. E allora lo dico pure io, motivandolo almeno un po’.

I problemi connessi con la loro esistenza come veicoli di extraterrestri in visita qui sulla Terra sono tanti e ne cito solo un paio: l’Universo è davvero democratico, non fa sconti a nessuno: la velocità della luce è quella per chiunque abiti il Cosmo e se noi abbiamo i nostri bei problemi nel tentare di raggiungere frazioni importanti di essa, quelle necessarie per spostarsi da qui e andare chissà dove nella Galassia, perché non dovrebbero averne anche loro?

Inoltre, se davvero hanno scoperto come aggirare questo problema così da andare lontano dal loro pianeta in tempi accettabili, come avranno risolto gli altri generati dal semplice fatto di muoversi a velocità relativistiche? Già, perché non penserete mica che andando a velocità prossime ai 300.000 km/s, non capiti nulla oltre il semplice arrivare in anticipo, vero? Volete saperne di più? Se non vi interessa un corso di Relatività (2) ma desiderate solo farvi un’idea di quali sorprese attendano viaggiatori verso luoghi lontani del Cosmo, vi consiglio vivamente la visione di Interstellar, film di cui ho già parlato in questo blog (3).

Immagine pubblicata per la prima volta nel Dossier "La vita nell'Universo": http://www.torinoscienza.it/dossier/la_vita_nell_universo_2517.html

Immagine pubblicata per la prima volta nel Dossier “La vita nell’Universo”: http://www.torinoscienza.it/dossier/la_vita_nell_universo_2517.html

Il secondo problema (ve l’avevo detto che ne avrei citato solo un paio…) è che tutti, ma proprio tutti vedono gli UFIs, tranne noi astronomi. Trascorriamo montagne di tempo a osservare il cielo a occhio nudo e con strumenti che, anche quando ci distraiamo per andare in bagno o per scaldarci un hamburger, ci raccontano se in nostra assenza è successo qualcosa di strano, ma niente, nulla, il deserto (cit.). Sembra proprio che gli UFIs attuino scelte precise, decidendo sempre di mostrarsi ai vari Tizio e Caio come quello qui a sinistra, ma mai a Sempronio.

Un’occhiata veloce alla parte inerente gli UFO del Dossier (4, 4-bis) reso pubblico dalla CIA, racconta di problemi molto umani e molto poco alieni intervenuti nei programmi dell’agenzia americana e derivati dalla decisione di spiare i cieli, specie quelli sotto il controllo russo, mediante gli aerei U2 per l’epoca rivoluzionari. Di seguito riporto la parte del dossier che ci interessa estrapolandola da un documento di alcune centinaia di pagine:

UFOs, AND OPERATION BLUE BOOK
High-altitude testing of the U-2 soon led to an unexpected side effect-a tremendous increase in reports of unidentified flying objects (UFOs). In the mid-1950s, most commercial airliners flew at altitudes between 10.000 and 20.000 feet and military aircraft like the B-47s and B-57s operated at altitudes below 40.000 feet. Consequently, once U-2s started flying at altitudes above 60,000 feet, air-traffic controllers began receiving increasing numbers of UFO reports. Such reports were most prevalent in the early evening hours from pilots of airliners flying from east to west. When the sun dropped below the horizon of an airliner flying at 20,000 feet. the plane was in darkness. But, if a U-2 was airborne in the vicinity of the airliner at the same its horizon from an altitude of 60.000 feet was considerably more distant, and, being so high in the sky, its silver wings would catch and reflect the rays of the sun and appear to the airliner pilot 40000 feet below, to be fiery objects. Even during daylight hours, the silver bodies of the high-flying U-2s could catch the sun and cause reflections or glints that could be seen at lower altitudes and even on the ground. At this time, no one believed manned flights was possible above 60000 feet, so no one expected to see an object so high in the sky.

Not only did the airline pilots report their sightings to air-traffic controllers, but they and ground-based observers also wrote letter to the Air Force unit at Wright Air Development Command in Dayton charged with investigating such phenomena.This, in turn, led to the Air Force’s Operation BLUE BOOK. Based at Wright-Patterson, the operation collected all reports of UFO sightings. Air Force investigators then attempted to explain such sightings by linking them to natural phenomena. BLUE BOOK investigators regularly called on the Agency’s Project Staff in Washington to check reported UFO sightints against U-2 flight logs.This enabled the investigators to eliminate the majority of the UFO reports, although they could not reveal to the letter writers the true cause of the UFO sightings. U-2 and later OXCART flights accounted for more than one-half of all UFO reports during the late 1950s and most of the1960s.

Dalle righe precedenti risulta quindi che più della metà dei casi di avvistamenti di oggetti volanti non identificati fosse dovuta all’attività della CIA. Sommiamo a questa metà il gran numero di fake costruiti ad arte, alcuni dei quali già smascherati dagli inquirenti; sommiamo infine gli errori compiuti da persone che, in perfetta buonafede, hanno preso i classici fischi per fiaschi e scopriamo che il 100% dei casi risulta spiegabile senza invocare l’arrivo di visitatori da altri mondi: insomma, stando alla CIA, gli UFO non esistono, con buona pace di chi vi ha dedicato l’esistenza e che nel frattempo, bisogna dirlo, non è riuscito a produrre davanti alla comunità scientifica nessuna prova valida della provenienza extraterrestre dei dischi volanti.

Illustrazione pubblicata la prima volta nel Dossier "La vita nell'Universo", http://www.torinoscienza.it/dossier/la_vita_nell_universo_2517.html

Illustrazione pubblicata la prima volta nel Dossier “La vita nell’Universo”, http://www.torinoscienza.it/dossier/la_vita_nell_universo_2517.html

Non è la prima volta che la CIA si decide a vuotare il sacco. Tra il 2013 e l’anno appena trascorso, quando con un tweet, quando con un articolo, lo ha già fatto in almeno un paio di occasioni. Suona un po’ strano che con un semplice cinguettio si possano liquidare circa settant’anni di avvistamenti, di film, di libri, trasmissioni radiofoniche, dischi, spettacoli, magliette, articoli, barzellette, minkjate, … sui cugini alieni in visita qui da noi, ma dobbiamo rassegnarci all’evidenza: la modernità è anche questo e un pulsante “invio” premuto al momento giusto può annientare secoli di oscurantismo e tonnellate di miti antichi e moderni.

Detto per inciso, questa notizia sugli UFO mi fa attendere fiducioso tweet analoghi scritti da qualcuno a conoscenza di segreti ignoti ai più. Chissà, magari questo qualcuno alle prese col cambio stagionale degli scheletri nel suo armadio, potrà decidere un giorno di rivelare un po’di verità sulla storia recente del nostro paese troppo a lungo taciute. Inoltre, inutile dirlo, spero tanto che, dopo un’attesa millenaria, un futuro profeta laico dotato di carisma e di dati seri, mostrerà un dossier o qualcosa di simile, smascherando definitivamente un famoso esperimento sociale andato fin troppo bene. Se ci sarò, sarà una vera goduria scrivere almeno un post sull’avvento di quel nuovo messia.

Ma torniamo pure agli UFO.

Un’altra ipotesi già da tempo avanzata è che i dischi volanti siano proprio dischi e non aerei, ma di fattura umana. A scuola ci hanno insegnato che dietro ogni leggenda si nasconde sempre una verità e sono assolutamente convinto, e la CIA me lo conferma, che nel caso della leggenda UFO si tratti di una banale verità umana. Se quei sospetti circa l’esistenza di dischi volanti prodotti da ricerche militari di chissà quale nazione terrestre fossero fondati, spero che ci venga presto rivelato ufficialmente: non vedo l’ora di congedare scomodi aerei, bella copia del trabiccolo dei fratelli Wright, per girare il mondo a bordo di un LP o di un piatto da batteria… della U.F.I.P. (5)

Per certi versi, mi dispiace parlare dell’argomento di questo post: come già è stato fatto notare altrove in rete, si è trattato di dire agli adulti che anche il loro Babbo Natale (6), quello che avrebbe dovuto portare in dono conoscenza, saggezza, immortalità, … non esiste. Non credo sia una grossa perdita: la nostra capacità di creare storie non si esaurisce di certo qui e presto avremo qualche altro mito moderno col quale sognare.

E poi, non è detto che la confessione della CIA faccia cambiare idea a chi ha deciso di credere a tutti i costi. La fede incondizionata in qualcosa dimostratosi irrazionale difficilmente si estirpa e non mi sembra così misteriosa nel suo rivelarsi ad alcuni piuttosto che ad altri. Trovo invece misterioso il persistere di quella fede nella testa di tanti piuttosto che solo in quella di alcuni.

Diversamente, trovo più interessante capire come si spieghi l’idea che si trattasse di “dischi” volanti. Dopo aver appreso dalla CIA che al fondo del fenomeno vi fossero aerei, quindi, schematizzando, “croci”, come giustifichiamo da un punto di vista percettivo l’assimilazione di queste croci a oggetti tondi e schiacciati?

Per capirlo, di sicuro andranno chiamate in causa le allucinazioni di massa alle quali da sempre il genere umano si è dimostrato vulnerabile, ma sospetto che una ricerca ben fatta potrebbe rivelare come il motivo di una simile “traveggola” si celi nell’estrema bellezza di quella favola per adulti nella quale per la prima volta si è parlato in modo convincente dell’ avvistamento di UFO discoidali.

Deve essere stata raccontata così tanto bene che, nell’immane passaparola da essa innescato, non ha fatto altro che riversarsi uguale a se stessa in tutte le narrazioni successive. Dall’elemento geometrico tondo e piatto, le nuove versioni di quel mito moderno non hanno potuto proprio prescindere e quel disco è rimasto in cima alle classifiche per almeno settant’anni.

Strano a dirsi, nonostante l’effettiva forma a croce dell’aereo U2, la rivelazione di “qualcuno venuto dal cielo” una volta tanto ha partorito l’esigenza di una figura geometrica diversa: il piatto, un piatto volante. Che sia l’indizio di una nostra tendenza innata ad abbracciare il Pastafarianesimo (7)?

Chiudo questo post con una preghiera: spero che ufologi, dilettanti o “professionisti” che siano, nonché tutti coloro i quali sono stati rapiti dagli alieni (e che per me non sono mai “tornati a casa”), si astengano dal commentare questo post al solo fine di “evangelizzarmi”. A loro va tutta la mia riconoscenza per aver lottato strenuamente nel tentativo di tenere in vita una bellissima storia. Bellissima, ma purtroppo falsa. Parola della CIA!

Mi spiace per loro, in fondo non facevano male a nessuno e – ritengo doveroso riconoscerlo qui – hanno alimentato l’unica fede per me davvero compatibile con la modernità, rendendo più intrigante il mondo nel quale vivono pure gli scettici.

Astrobiologia - Illustrazione pubblicata per la prima volta nel Dossier "La vita nell'Universo", http://www.torinoscienza.it/dossier/la_vita_nell_universo_2517.html

Astrobiologia – Illustrazione pubblicata per la prima volta nel Dossier “La vita nell’Universo”, http://www.torinoscienza.it/dossier/la_vita_nell_universo_2517.html

A loro va il mio grazie più sentito e l’invito a darci una mano nell’alimentare le aspettative aperte dall’astrobiologia, la ricerca di vita altrove nel cosmo condotta con metodi scientifici (8), e dalla congiunta ricerca di pianeti extrasolari abitabili.

SZ

1- http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2015/01/03/il-tweet-verita-della-cia-altro-che-extraterrestri-gli-ufo-eravamo-noi17.html

2- http://it.wikipedia.org/wiki/Relativit%C3%A0_ristretta

3- https://squidzoup.com/2014/11/25/lamore-ai-tempi-di-interstellar/

4) http://www.universetoday.com/104174/cias-declassified-documents-reveals-secrets-about-area-51-and-ufos/

4-bis) http://www.gwu.edu/sites/www.gwu.edu/files/downloads/U2%20%20history%20complete.pdf

5- http://www.ufip.it/index.html

6- http://news.leonardo.it/ufo-anni-50-cia-rivela-erano-nostri-aerei-spia/

7- http://it.wikipedia.org/wiki/Pastafarianesimo

8- Nel 2001 ne ho parlato in un Dossier. Lo si trova in rete, all’indirizzo:

http://www.torinoscienza.it/dossier/la_vita_nell_universo_2517.html

Sottofondo: Charlie Parker, Bird of Paradise

http://grooveshark.com/#!/album/Bird+Of+Paradise/2375981

Aforisma 4: Joe Amoruso Dixit

Solo-su-E-po'-che-fa'

Il successo di tanti nostri cantautori, si sa, gli è stato regalato da testi molto poetici che pretendevano di diventare canzoni. Da noi, in Italia, terra del bel canto e dell’operetta, un buon testo sorretto da musica semplice e ben arrangiata oggi risulta essere un’accoppiata  vincente: è il trionfo del concetto di canzonetta, quella che fa fare incassi facili perché si innesta nel cervello della gente e da lì non la smuove più nessuno. Quella che ancora piace tanto al mercato discografico che oramai mercato più non è.

La commistione di buon testo e di buon arrangiamento che indora musica spesso banale funziona esattamente come un tempo funzionava un buon libretto sostenuto da poche idee melodiche molto cantabili e da una buona orchestrazione. Sono tutti furbi accostamenti capaci di regalare l’impressione di star ascoltando chissà quali chicche musicali estremamente belle e ricercate.

Il problema sorge quando a un falò ferragostano, il principiante di turno prende una chitarra e inizia a intonare una di queste canzonette. In quel momento appare chiaro quanta parte il testo abbia avuto nel decretare il successo di un brano, ma soprattutto emerge subito quanto importante sia stato il sostegno dato dai musicisti che hanno suonato nel disco e che hanno aggiunto sapore a ricette musicali di cantanti molto noti ma spesso incapaci di suonare e di comporre qualcosa di interessante.

Quando si usa una chitarrina strimpellado i quattro accordi riportati in una raccolta di canzoni, capita di frequente che quelle composizioni risultino ricette del tutto insipide, se non addirittura brutte. Il lavoro del turnista, quel musicista esperto del suo strumento che viene chiamato in studio per aiutare a costruire i progetti musicali di altri, è perlopiù questo: fornire l’indoratura a un nulla musicale. Se lui è bravo, se lo sono i suoi colleghi e se l’arrangiatore non è l’ultimo arrivato, assieme renderanno quel nulla un brano di successo.

A un certo punto della serata, se il chitarrista da falò non è un musicista con un po’ di esperienza, capace per questo di dare ritmo e variazioni interessanti a quanto sta suonando, agli altri potrebbe venir voglia di strappargli la chitarra dalle mani e usarla per fare un doppio favore alla comunità: interompere lo strazio e rintuzzare il fuoco.

Nel grande falò dell’Italia della fine degli anni ’70, avvenne qualcosa di strano: in un clima perlopiù canzonettaro, arrivò un personaggio che, oltre a bei testi, a volte struggenti, a volte allegri e cantati in uno dei più bei dialetti dello stivale, aggiunse 1) una voce particolarissima, 2) accordi così diversi da quelli di solito usati nella musica leggera da mettere subito fuorigioco tutti i chitarristi improvvisati, 3) ritmi per nulla banali e 4) una band di professionisti ai quali finalmente si permetteva di suonare sul serio e non di far finta, come spesso accade di sentirsi chiedere quando si lavora in ambiente pop.

L‘aspetto incredibile di questa storia fu che l’italiano medio – cresciuto a interminabili filastrocche dalle parole bellissime, ma spesso sostenute da musiche insulse, noiosissime e sempre uguali – quando si trovò ad ascoltare per la prima volta la musica di quel personaggio nuovo, si dimostrò subito capace di apprezzarla, di capirla, di comprarla.

E questo accadeva nonostante le atmosfere e gli arrangiamenti di quei brani fossero del tipo che di solito viene connesso a generi come il jazz e il blues, quindi di preconcetta difficile fruizione.

La domanda che mi sono posto altre volte, torna allora prepotente: il successo di alcuni prodotti dipende davvero da quanto il pubblico dimostra di gradirli o è piuttosto funzione di ciò che, tramite una azione precisa, potente, capillare, il mercato ci porta a credere che sia il meglio del meglio?

In ogni caso, domandone a parte, il miracolo risultò compiuto: anche il razzista più incallito, si vantava di sapere a memoria le canzoni di quel personaggio nuovo e lo dimostrava storpiando in modo insopportabile la lingua propria di quanti aveva sempre disprezzato e che avrebbe ripreso a osteggiare proprio in questi anni, anche se in modo più subdolo (però avrebbe continuato a cantare Napule è)

Grazie a questo personaggio nuovo, il sud venne così ad avere un nuovo rappresentante che prima, molto prima di essere italiano, era 1) napoletano e 2) meridionale. Il Regno delle due Sicilie in qualche modo tornava a vivere nella cultura, la cultura delle due Sicilie; la cultura delle due Campanie. In quelle parole, quelle proteste, quegli accordi, campani, laziali, pugliesi, calabresi, siciliani, molisani, abbruzzesi e lucani si ritrovavano tutti. Tutti videro in quei testi e in quelle note paesaggi, situazioni, facce tipiche del loro quotidiano di sempre.

Lui, il personaggio nuovo e i suoi artisti non si presentavano certo come i nostri chansonnier più noti, quelli dall’aria intellettuale e macerata nel cocktail della loro pretesa genialità. Alle trasmissioni televisive la band arrivava come fosse appena scesa dal più scalcinato degli autobus cittadini. Una volta giunti negli studi televisivi, suonavano senza playback – e come suonavano! – , sudavano, sporcavano note che erano sempre audaci rispetto alle melodie leccate e agli accordi limati che tutti gli altri proponevano da sempre.

Suonavano e andavano via lasciando il pubblico con il dubbio che fare musica a un certo livello forse non fosse poi cosa da tutti.

La loro esibizione instillava negli astanti l’idea che la musica andasse rispettata perché lontana da quello che di solito erano abituati a sentire. Potevi anche sapere tutto degli accordi “strani”, ma essi sembravano diventare musica solo perché a suonarli erano “animali” che avevano una storia da raccontare che proprio non poteva essere taciuta. Forse è proprio così: in assenza di animalità e storie interessanti da narrare, quegli accordi non sono altro che accrocchi di suoni e, se lui lo desidera, puoi anche mandare tuo figlio a lezione di piano, di chitarra o di chissà quale strumento: sarà di sicuro un’esperienza formativa, ma questo non vorrà dire che automaticamente lui diventerà un musicista. Quella è un’altra faccenda che ha a che fare con un’emergenza espressiva, quella che il personaggio nuovo e i suoi musicisiti chiaramente possedevano.

Quel tale non era stato solo capace di sconvolgere il mondo del pop italiano. Possedeva anche il pregio di radunare attorno a sé un manipolo di adattissimi disadattati (almeno così all’epoca mi apparivano), tutti grandi musicisti e personaggi anche loro, per i quali accordi di tredicesima, sincopi, assoli da suonare per sostenere una canzone, fosse stata anche una canzone d’amore, erano una banale normalità.

Tra le soprese che tutti attendevano a ogni sua uscita discografica, ve n’era una che, mi sa, eravamo in pochissimi a bramare. Nei suoi nuovi dischi ci sarebbero state parole nuove, immagini dal basso di un sud incantato e sofferente, arrangiamenti da copiare. Per me che avevo iniziato a suonare da pochi anni, quegli accordi erano mondi da esplorare attentamente, nei quali perdermi sognando, come tutti i miei coetanei alle prese con la musica, che se li avessi fatti miei, un giorno quel personaggio nuovo avrebbe potuto chiamarmi a suonare con lui.

Quella sorpresa ulteriore che dicevo e che attendevo a ogni sua uscita discografica, era la presenza di un brano suonato con il mio strumento preferito. Davanti a un LP, il mio primo gesto era sempre quello: aprire la confezione alla ricerca dell’elenco dei musicisti per scorrerlo così da vedere se, in mezzo a “piano”, chitarra”, “basso”, “batteria”, “percussioni”, “sassofono”, …  vi fosse anche “armonica”.

La mia era vera e propria fame causata da digiuni forzati: non sapevo nulla circa una discografia specifica per quell’aerofono, non c’era ancora internet e a sud nessuno poteva aiutarmi. Sembrava che a nessuno importasse di quel suono incredibile che ascoltavo solo per caso quando mi giungeva all’orecchio da una radio, o peggio, da un’autoradio in una macchina di passaggio.

Ricordo che una volta vidi a Domenica In il personaggio nuovo con un cappellone da cow-boy in testa e la chitarra a tracolla. A un certo punto tirò fuori dal taschino l’armonica cromatica e ferì l’aria con l’aria, suonando quelle famosissime note acute che danno inizio a Je so pazzo (1979). Quell’immagine e quelle note mi colpirono come un pugno in faccia bene assestato e rimasi tumefatto per un bel po’.

Era contenuta nel suo secondo successo dopo Terra mia (1977) e a questi due dischi seguì un capolavoro assoluto: Nero a metà (1980). Nonostante su Je so pazzo fosse lui stesso a suonare l’armonica, il personaggio nuovo non era certo un virtuoso di quello strumento (*) e in questo suo terzo disco, nella canzone I say ‘I sto ccà, preferì chiamare il buon Bruno de Filippi, decano degli armonicisti jazz italiani, il quale si trovò a poggiare le note leggere della sua chromonica su un blocco sonoro solido, entusiasmante e magistralmente costruito dal gruppo.

Impossibile non passare alla storia. Impossibile che la storia ti ignori.

Non credo vi siano altre canzoni con l’armonica dopo Questa primavera, contenuta nell’LP Che Dio ti benedica (1993). Lì l’armonicista era ancora lui, il De Filippi.

Tra la pubblicazione di I say ‘I sto ccà e Questa Primavera sono intercorsi ben tredici, lunghi anni durante i quali la mia speranza di trovare quel suono nei suoi dischi è sempre stata frustrata.

Unica parziale eccezione, l’assolo su E po’che fà, un brano davvero solare contenuto nell’album dell’82 Bella ‘mbriana.

Breve ma a mio parere bellissimo è l’assolo del pianista Joe Amoruso, stavolta alle prese con la melodica, per suono e per funzionamento (ancia libera) una parente stretta dell’armonica.

Qui, oggi, protagoniste sono quelle note alle quali affido il mio ricordo di un periodo stupendo e irripetibile della musica italiana.

SZ

(*) Non lo era, ma non suonava poi così male. Lui però si rese conto dei suoi limiti e in seguito chiamò a suonare con sé un armonicista davvero esperto. Oggi la tendenza mi sembra essere ben altra: se qualcuno si dovesse scoprire capace di suonare quella linea iniziale, sarebbe immediatamente portato a credere di essere un jazzista arrivato, nonché un navigato armonicista cromatico.

Quando la Diatonica e la Cromatica differiscono solo per una “D”

Anassimene Armonicista - Illustrazione pubblicata nel booklet del CD "The Night Has A Thousand Eyes", Fo(u)r Edition

Anassimene Armonicista – Illustrazione pubblicata nel booklet del CD “The Night Has A Thousand Eyes”, Fo(u)r Edition

Domani sera suonerò con altri armonicisti e musicisiti vari per il solito appuntamento annuale di commemorazione di un amico, anzi due.

Come sempre da oramai dieci anni, siamo in tanti a ritrovarci alla Sala Estense di Ferrara per ricordare Antonio D’Adamo, Dadà per gli amici, grande armonicista blues, ma soprattutto grande uomo, che ci ha lasciati nel 2005.

Quel giorno me lo ricordo bene. Il primo a svegliarmi con una chiamata al telefono fisso fu il mio amico fraterno Renato Geremicca (1). Nei fumi del sonno – la sera prima avevo suonato non so dove ed ero rientrato molto tardi – mi sentii chiedere: “Compare, stai bene?”

Come è facile immaginare, non mi fu subito chiaro il senso della sua domanda. Non mi fu chiaro nemmeno dopo aver risposto “Sì, perché?”, in quanto lui, sentendomi un po’ “impastato”, terminò la comunicazione dicendo “Niente, niente… a dopo”.

Una volta svegliatomi, immemore della telefonata di qualche ora prima, andai a controllare la mia casella mail e lì trovai un messaggio di una mia vecchia conoscenza, l’armonicista londinese Julian Jackson, il quale chiedeva: “Angelo, is it ok?”

Mi tornò allora in mente la domanda dello stesso tipo rivoltami da Renato, andai a controllare i giornali e scoprii che mi avevano dato per morto.

O per lo meno, avevano dato per morto un certo “Angelo D’Adamo”, armonicista italiano.

Quel giorno ho scoperto che, piuttosto che essere totalmente ignorato dal mondo dello spettacolo come spesso mi capita di lamentare, sono assolutamente noto. Purtroppo godo di quella notorietà che fa un po’ di notizia solo in caso di scomparsa. Lo dico perché vedo come capiti di frequente che i miei concerti, come anche quelli dei musicisti del mio livello di notorietà, vengano ignorati finanche dai giornali locali. Ergo, a differenza della mia scomparsa, la mia comparsa non fa notizia.

Mi ritorna in mente quel passaggio del film Ecce Bombo di Nanni Moretti quando lui si chiede: Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?

Ecco, ho scoperto che mi si nota di più se non vengo. Anzi, se vado; se me ne vado del tutto. E sono pronto a scommettere che per Antonio d’Adamo, per Bruno Corticelli, lo storico, bravissimo bassista del gruppo The bluesman (2) in cui suonava pure Dadà e che ci ha lasciato due anni fa, e per moltissimi di noi che suonano e lavorano a un medio livello, vale la stessa cosa: godiamo di quella notorietà utile solo per riempire qualche centimetro quadro di pagina degli spettacoli, a patto che si faccia qualcosa di artisticamente eclatante come, ad esempio, sparire prematuramente.

In fondo, è normale che sia così: i giornali, le televisioni, le radio, i teatri, i festival, … non possono disporre di tutto lo spazio e del tempo necessari per regalare a tutti, democraticamene, quel quarto d’ora di notorietà di cui parlava Andy Wahrol.

Si potrebbe allora discettare del come vengono compiute le scelte di chi deve arrivare dove, ma immagino che tutti abbiano idee diverse sull’argomento, pericolosamente tendenti ad affermare, in modo velato o esplicito: “i criteri che gli altri usano fanno schifo perché escludono me, e io sono il migliore”.

La democrazia svela presto i suoi limiti: è un’idea umana gestita da uomini. Un sano principio di realtà salva tutto e, per quanto mi riguarda, mi piaccia o meno, scopro ancora una volta che questo è il migliore dei mondi possibili (3).

Il rovescio della medaglia è noto: se si fa parte di quella schiera di personaggi che ci assordano di ridondanze riempiendo l’orizzonte degli altri di pezzi non richiesti delle loro vite, il prezzo da pagare è di dover cercare di dire qualcosa, qualsiasi cosa, banale o intelligente che sia, in ogni momento della nostra esistenza.

Il supplizio di Tantalo in quel caso è che, una volta detta, poi bisogna riportare di nuovo quell’intera, pesante esistenza in cima alla montagna, l’unica che rende ben visibili. Cadranno ancora e ancora, ma almeno cadranno dall’alto. Le cose vanno così e alla fine si scopre che le vite di tutti sono ostaggio di dinamiche non proprio simpatiche generate dalla difficile interazione con gli altri e da ciò che abbiamo desiderato diventare “da grandi”.

Ma torniamo a quel brutto giorno. Per colpa degli errori che di solito commettono i giornali, dell’isolamento di casa mia e del lento carburare dopo una notte difficile, conobbi anche una strana e forte sensazione da non ripetere mai più: quella di muovermi in un mondo di vivi senza appartenervi. Non del tutto, almeno.

Antonio d’Adamo lo conoscevo abbastanza bene. Ci eravamo incontrati per la prima volta tanti anni fa, in un festival nei dintorni di Bologna. Lui suonava con il suo gruppo, io ero lì in duo col pianista Teo Ciavarella.

Quella sera abbiamo parlato a lungo: ci accomunava l’armonica, ma lui suonava la diatonica, io la cromatica. Ci accomunava la musica: lui suonava blues, io il jazz. Infine ci accomunava buona parte del cognome, ma quella, come abbiamo avuto modo di scoprire, era l’intersezione più banale.

Poi ci siamo incontrati altre volte negli anni. Quella che ricordo meglio e più piacevolmente fu quando prendemmo parte assieme a tanti altri a una mega jam session organizzata dall’Enki Studio di Imola. Anche lì trascorremo il resto della serata a discorrere, di una montagna di argomenti e a farci un bel po’ di risate.

10864015_1034208626605368_3503006760264820860_oDomani verrò accompagnato dal suo gruppo capeggiato dall’inossidabile Roberto Formignani, chitarrista e cantante. Con lui ci saranno Massimo Mantovani alle tastiere, Roberto Poltronieri al basso e Roberto Morsiani alla batteria.

Tutti questi ottimi musicisti non accompagneranno solo me, ci mancherebbe! A darci il cambio sul palco saremo in tanti armonicisti, alcuni dei quali con Dadà avevano un rapporto di amicizia profonda e non solo, come nel mio caso, uno di grande stima e grande simpatia reciproche.

Li menziono seguendo l’ordine di apparizione previsto dal programma della serata: Ermanno Costa, Gianadrea Pasquinelli, Paolo Giacomini, Federico Pellegrini, il sottoscritto, Andrea Cocco, Fabrizio Sevà, Gianni Massarutto, Marco Balboni, Guido Poppi, Massimo De Rosa, Gianluca Caselli, Paolo Santini, Federico Benedetti.

Per tutti noi, il 5 di Gennaio significa quindi una possibilità di incontrare di nuovo persone con le quali non ci si vede da almeno un anno; amici persi dietro ai fatti loro che però non dimenticano l’appartenenza a un mondo, quello della musica, fatto di note, di emozioni e anche di persone care.

Inclusa nel prezzo del biglietto, verrà regalata la ristampa del primo disco del gruppo, Intrepido Blues, pubblicato ben 20 anni fa. Come ogni anno, l’intero ricavato della serata andrà interamente devoluto all’ADO, Assistenza Domiciliare Oncologica.

Venite?

SZ

1- https://gerebros.wordpress.com/

2- http://www.thebluesmen.it/#

3- https://squidzoup.com/2014/09/16/il-mondo-che-fanno-gli-altri-il-migliore-tra-quelli-possibili/