
Lancio sentimentale – mia illustrazione pubblicata per la prima volta sulla rivista SISSA News. house-organ della S.I.S.S.A. di Trieste
Sono finalmente riuscito ad andare a vedere Interstellar.
Immagino che, dopo aver fatto di recente una polemica con quanti lo denigravano sine ulla spe (https://squidzoup.com/2014/11/20/un-film-fantascientifico-avvincente-e-scientificamente-esatto-fallo-tu/), ci si aspetti che io sia coerente almeno con me stesso affermando di averlo gradito senza se e senza ma.
Ebbene, correrò il rischio di risultare poco propenso a contraddirmi, scrivendo che sì, mi è piaciuto davvero tanto. É sembrato anche a me di notare delle falle nell’impianto narrativo, alcune piccole, altre più grandi. Sulle piccole sorrido (e non rido sarcastico) in quanto mi sembrano, strano a dirsi, semplici sviste registiche. In particolare, ne cito una notata da mio cugino, Gianluca Barbaro: la navicella che necessitava del passaggio offerto dal razzo vettore per arrivare in orbita attorno alla Terra, è la stessa che riesce ad evitare l’arrivo dell’onda sfuggendo addirittura fin oltre l’atmosfera di un pianeta con una gravità superiore del 30% rispetto a quella della Terra.
Sulle incongruenze più grosse, sospetto che qualcosa mi sfugga per il semplice motivo che, non essendo un relativista, ritengo normale non capire ciò che deriva dalla drammatizzazione di un calcolo raffinato eseguito da Thorne.
Insomma, sono più portato a pensare che, se qualcosa non mi torna, non è che non torni in generale. No, piuttosto credo che non mi risulti chiara solo a causa della mia ignoranza.
Lascerei quindi il compito di imbastire circostanziate polemiche a chi se ne intende (ma che se intenda davvero…) di Relatività Generale; a chi se ne intende davvero di cinema e soprattutto a coloro, se ve ne sono – immagino siano un sottoinsieme minuscolo dei tuttologi – che se ne intendono di rapporti tra Relatività e Cinema.
Della storia non ho gradito (o forse non ho capito…) molto la teoria sull’amore come collante cosmologico, ma direi che ci stava. Anzi, direi che, pur essendo un film americano, sono stati bravi nel limitare, se non addirittura a evitare, le solite sequenze melense a base di bandiere a stelle e strisce innalzate, mani sul cuore e frasi come “Dio lo vuole” & affini.
Ho sempre trovato simili scene fastidiosamente gratuite, o meglio, necessarie solo per un pubblico statunitense: un pubblico che alle elezioni vota il candidato con la camicia più bianca di quelle degli altri, quello che si fa riprendere mentre con la famiglia al completo va a messa alla Domenica per poi recarsi alla partita di baseball o a mangiare il tacchino nel giorno del ringraziamento (lo so, lo so: sto parlando di un modello politico che è da tempo anche italiano, se non addirittura europeo).
In questo, Interstellar mi è sembrato più equilibrato di tantissimi altri film e immagino che, per lo stesso motivo, a molti sia risultato carente di una per loro “necessaria” dimensione spirituale. Quella c’è, ma una volta tanto, dimostrando forse una certa furbizia, non è stata rimarcata troppo la matrice protestante o cattolica, lasciando così che tutti i fruitori del film possano intravedere il proprio sfondo religioso dietro le scene più riconducibili all’entusiasmo (*).
Due aspetti, lo confesso, mi hanno davvero colpito in modo speciale.
Il primo è la rappresentazione del buco nero che, non a caso, dicono essere la migliore mai elaborata fino a oggi seguendo i dati scientifici a nostra disposizione. Ancora ora, ripensandoci, trovo quelle scene terrificanti e tremendamente affascinanti (volevo scrivere “attraenti”, ma mi sembrava un po’ pleonastico…). Insomma, roba da far tremare i polsi di paura, regalando al contempo un fortissimo desiderio di essere lì a orbitare attorno al “mostro” per ammirare la bellezza struggente, ipnotizzante di una manifestazione così estrema della Natura.
Mi immagino per un attimo col cappellino a zuccotto tenuto con la visiera sulla nuca, col cappuccio sulle spalle e i jeans “a cacarella”, mentre mi batto il petto con il pugno proprio come un qualsiasi ridicolo simil-rapper de noantri, urlando Respect! alla volta del buco nero davanti a me.
La seconda è l’insostenibile malinconia, una lacerante disperazione, che mi ha assalito pensando al distacco dagli affetti che comporta un viaggio nel cosmo come quello intrapreso dal protagonista.
Sempre in quel primo articolo che ho scritto pochi giorni fa su Interstellar, parlavo di come la vita mi sia cambiata a partire da d.G., ovvero dopo la nascita di Giovanni. Quando ancora vivevo nell’a.G., una fase durata ben quarantaquattro anni, pensavo e affermavo, ostentando una incrollabile sicurezza, che non avrei mai esitato a partire, a lasciare il pianeta sul quale da sempre vive il genere umano, se mai mi fosse stata offerta l’opportunità di viaggiare nel cosmo.
Sin dalle prime scene del film invece, in un crescendo abbastanza rapido da pp a ff (notazione musicale per pianissimo e fortissimo), ho intuito quanto fosse cambiato nel frattempo il mio stato interiore; ho realizzato quanto tutto sia mutato a partire da quel d.G.. Non voglio rischiare di nuovo di essere frettolosamente spocchioso nell’ipotecare il futuro: temo la possibilità di trovarmi di nuovo al cospetto di simili, imbarazzanti cambi di convinzioni. In ogni caso, oggi credo proprio che tentennerei alla Quinto Fabio Massimo, snervando la NASA o chi per lei, di fronte all’offerta di partire per un viaggio nel cosmo che non mi faccia rivedere più mio figlio o che mi faccia tornare sulla Terra trovando in lui un mio coetaneo; peggio, un irriconoscibile vecchio che porta il suo nome, prossimo alla morte.
Diciamola tutta: oggi come oggi, credo proprio che rinuncerei.
Ecco, questo film, oltre ad avermi confermato più di tanti altri il vero fascino dell’universo, un fascino tutto racchiuso nella sua esagerata incomparabilità con la nostra dimensione microbica, mi ha fatto intenerire pensando a quanto siamo legati a questa scheggia cosmica sulla quale poggiamo.
Dipendiamo da essa per l’aria, l’acqua, la luce, …, finanche per la nostra storia e le dinamiche interpersonali che solo qui hanno senso. Sì, vero: continuano ad averlo in orbita e basta osservare come molti di noi si sono emozionati e commossi, addirittura, seguendo ieri il viaggio della nostra fantastica Samantha Cristoforetti.
Ma già pensare di andare più lontano della Luna, piuttosto che far sentire la potenza dei sentimenti così come descritti nel film, sentimenti capaci di vincere il cosmo unendo chi è distante, credo metta in evidenza la nostra inadeguatezza a stare da soli, senza i nostri affetti, senza la nostra storia, quella personale come quella di tutta l’umanità.
Esiste una sfera di Dyson, un raggio di Swarschild, quindi un orizzonte degli eventi. Esiste pure una sfera di Marconi-Berlusconi-Murdock, come racconto nel capitolo dedicato alla Terra del mio Pianeti tra le note (**), ma la sfera dei sentimenti mi sembra avere un raggio paragonabile a quella di una sottile membrana abbastanza attillata alla superficie di questo globo terracqueo. Qualcosa di così limitato da non poter certo arrivare fin su un’altra galassia.
Oltre quella sottile membrana, quindi molto prima di arrivare a vedere mondi lontani, sospetto che verremmo smembrati dalla disperazione. All’impossibilità di una comunicazione sentimentale con i nostri cari, temo corrisponda un veloce disfacimento organico, un rapido disentanglement emozionale, quindi biologico. E lo temo nonostante io abbia sempre amato la solitudine, in barba a una certa ostentata capacità di stare in compagnia, qualcosa che mi riesce bene, ma solo per limitati intervalli di tempo.
Le motivazioni evoluzionistiche per una simile dinamica psicosomatica, se fosse reale (sarebbe bello se qualche psicologo o antropologo intervenisse a spiegarmi qualcosa che non so, ma che riesco solo a immaginare), potrebbero essere facilmente spiegabili. Se sono nel giusto, si tratterebbe di un circuito innato utile a garantire protezione dei figli di alcune specie animali: quelle che, rispetto ad altre, tardano a emanciparsi dal controllo e dall’assistenza dei genitori.
Per lo stesso motivo, privarsi o essere privati della possibilità di assistere i propri figli credo metta in moto una serie di meccanismi capaci di “punire” il genitore per spingerlo a ripensarci, a tornare sui propri passi e desistere dall’attuare l’abbandono. Una simile punizione potrebbe arrivare a toccare, dopo la sfera mentale, anche quella biologica, punendo il corpo fino a deprimerlo.
Anche per eremiti incalliti, i cento anni di solitudine vagheggiati dal già citato Marquez sarebbero probabilmente troppi, specie in relazione al differente trascorrere del tempo in diversi sistemi di riferimento. Qualora si riuscisse, come nel film, a tornare a baita (così forse direbbe un Rigoni Stern interspaziale di ritorno da una campagna di guerre stellari), si troverebbe un’umanità del tutto diversa da quella che si è lasciata.
Le distanze cosmiche possono essere così esagerate da rendere ridicolo qualsiasi sentimento umano che qui da noi è forse anche troppo potente ed esaltato (potente perché esaltato?), ma che lì viene offeso, triturato, spaghettificato, atomizzato, dissolto da paesaggi planetari che non ci appartengono affatto, mettendo in evidenza l’incompatibilità tra quei nuovi contesti e il nostro cervello con tutto ciò che prova.
Di sicuro la nostra dimensione umana è destinata in futuro a cambiare, ma al momento credo che non ci sia data altra possibilità oltre quella di rivestire il ruolo di osservatori attenti della fetta di Universo godibile da un qui esteso poco più di 384.000 cholometri (distanza media della Luna).
Il film sembra quasi dirci che o ce andiamo in tanti (per non dire tutti) come avveniva nei romanzi alla Universo di Heinlein, così da mantenere quella rete (di protezione) di relazioni affettive, o è meglio che non lo faccia nessuno, pena la follia, la disperazione, la solitudine che non può nemmeno essere urlata. Non a caso, la stazione spaziale nella quale si trovano tutti alla fine del film è una classica realizzazione “sintetica” della Terra, un’idea risalente all’epoca aurea dei vari Chesley Bonestell e Stanley Kubrick.
Forse capiremo qualcosa di più quando riusciremo a inviare quei famosi coloni su Marte di cui parlavo in uno dei primi post di questo blog (https://squidzoup.com/2013/04/23/nuoverrimo-mondo/).
Forse no.
Intanto, riassumendo, confermo che Interstellar mi è parso un gran film.
Americano per effetti speciali, ma franco-polacco per alcuni effetti psicologici che ancora perdurano dentro di me.
Vorrà per caso dire che stavolta gli americani hanno dimostrato di essere stati toccati da un certo modo europeo di fare film? Sarebbe simpatico scoprire che al di là dell’oceano Atlantico, Intestellar venga percepito come un'”europeàta”, intendendo questo neologismo alla stregua del nostro negativo “americanata”.
Se ho ragione, non è così peregrina l’ipotesi che sia stato anche questo discostarsi da alcuni cliché del cinema statunitense ad aver contribuito a far nascere certe critiche totalmente negative incassate dai due Nolan & Co.
SZ
(*) Il termine “entusiasmo” deriva dal greco antico enthusiasmòs, formato da en (in) con theos (dio). Letteralmente si potrebbe tradurre con “con Dio dentro di sé”, o “indiamento”, “invasamento divino” – fonte: wikipedia
(**) Pianeti tra le note – appunti di un astronomo divulgatore, Springer, 2006
http://www.springer.com/astronomy/popular+astronomy/book/978-88-470-1184-7
L’ha ribloggato su gerebrose ha commentato:
Come sottofondo c’ho messo Tony Bennett, My Favorite Things e Christmas Time is Here. Ci stanno benissimo.
Ciao! Concordo! Ma se anche non fossi d’accordo, sarebbe comunque bello scoprire come altrove possano essere interpretate le cose che scrivo. Grazie davvero, Comparo-o! 😀
Pingback: Alieni cugini, figli di nostra CIA | SQUIDZOUP – Il blog di Angelo Adamo
Ciao Angelo, ho partecipato ieri sera alla conferenza che hai tenuto presso il Planetario di Bari. Al temine, se ricordi, ti ho chiesto della rappresentazione del buco nero fatta all’interno di Interstellar. Ho letto i tuoi due post in merito al film (insieme ad altri) e volevo ringraziarti perché hai stimolato in me una riflessione che onestamente non avevo considerato. Ero troppo preso (dall’alto della mia beata ignoranza, forse) a considerare solo gli aspetti prettamente scientifici (fanta e non) del racconto. Invece ho capito che “dietro” c’è ben altro. Continuerò a leggere con piacere il tuo blog. Spero di rivederti presto da queste parti, Alessandro.
PS: questo invece è il video della missione NASA su Titano di cui ti accennavo:
Ciao! Mi ricordo benissimo di te! Del resto, è facile farlo: a causa del maltempo eravamo quattro gatti… 😀
Grazie per l’aver provato a guardare le cose da un punto di vista diverso, grazie del bellissimo video e grazie anche per la tua intenzione di seguire questo blog. Nel mese di Febbraio sono stato costretto a trascurarlo un po’, ma ora conto di riprendere a occuparmene come si deve.
Spero quindi di non deludere te e chi già da un po’ viene a farmi visita.
A prestissimo e grazie ancora!
Angelo
Pingback: Quattro minuscoli buchi neri a pochi chilometri dalla Terra | SQUIDZOUP – Il blog di Angelo Adamo