Molto in fondo, A dAstra

Out-to-lunch-con-stelleIeri sera ho opposto una strenua resistenza alle lusinghe del letto e, nonostante l’ora (erano le 21:00), tre uova strapazzate, una insalatona, mezzo bicchiere di vino rosso e una mela che hanno tentato per tutto il tempo di riportarmi gravitazionalmente sul divano, ho optato per il cinema.

Andare a vedere film di fantascienza, da astrofisico-divulgatore-ecc, lo considero un dovere che qualche volta si rivela pure un piacere. In ogni caso, io DEVO vedere queste produzioni, altrimenti di cosa parlo alle feste?

Sono andato da solo: il tentativo compiuto alcuni giorni fa di trovare qualcuno interessanto a vedere Ad Astra aveva sortito effetti così deludenti da non voler provare più il sapore della sconfitta, e ho preferito tenermi in bocca quello della cena decidendo così di andare in mia compagnia: ieri sera, almeno, ero abbastanza d’accordo con me stesso (anche se il divano…) e non potevo lasciarmi sfuggire la rara occasione.

Arrivato lì, ho scoperto che molti altri avevano invano invitato gli amici: eravamo davvero in pochi, riuniti in una sala enorme di un cinema dal nome che è esso stesso glorificazione della fantascienza: The space.

È per questo che proprio non capisco come mai le poche persone presenti avevano tutti posti assegnati gli uni vicini-vicini agli altri. C’era un sacco di space libero, ma io sono caduto nel campo gavitazionale di un signore che è venuto a sedersi alla mia destra e che di uova evidentemente ne aveva mangiate molte, ma molte più di me.

Risultato: finché lui non ha deciso, purtoppo solo a film finito, di andarsene a casa, non sono proprio riuscito ad abbandonare il mio posto per andare a colonizzare pionieristicamente una delle tante regioni disabitate di quell’ambiente.

Dopo una infilata di pubblicità così lunga da avermi fatto temere di avere sbagliato sala, finalmente è iniziato il film che, pare, avevo scelto e giuro che, dopo tutto quel tempo e un po’ di oblio – ero chiaramente invecchiato rispetto a quando avevo fatto il mio glorioso ingresso nella sala – è stato bello ricordarmi perché mi trovassi lì.

E qui inizia la vera narrazione, resa interessante dal mio sonnecchiare generato dalle uova, dall’insalatona, dal vino, dalla mela, dal ronfare del corpo autogravitante del mio vicino che deformava lo SPACE-tempo della poltrona adiacente alla mia, dalla pubblicità e dalla comodissima imbottitura della mia poltrona che mi invitava con insistenza a chiudere le palpebre.

Tra i fumi del sonno, negli sprazzi di semicoscienza intermittente prima del buio totale, (sprazzi che oramai caratterizzano tutte le mie serate), ho visto cose che voi rimasti a casa non potrete immaginare.

Ho visto, o almeno credo di avere visto, una struttura attorno alla Terra che inizialmene pensavo fosse la versione futuristica e ipercazzuta della stazione spaziale internazionale e che poi invece si è rivelata una torre così alta da arrivare nello spazio, ad almeno una altezza di un centinaio di chilometri dal suolo.

Ricordo di essermi detto nel dormiverglia che di sicuro dovevo aver visto male. Su un pianeta come il nostro che, con la sua gravità, non consentirebbe mai e poi mai a una struttura, naturale o artificiale che sia, di spingersi oltre più o meno dieci chilometri, una specie di ipertraliccio di quel tipo sarebbe subito crollato frustando una intera regione grande come il Molise (povero: neanche il tempo di iniziare ad esistere che subito si trova a essere sommerso dalla ferraglia…)

Out-to-launch-con-stelle

Su questa torre, i terrestri, anzi, a questo punto, per l’imponenza di quella struttura, li chiamerei i torrestri, si muovevano con la stessa disinvoltura con la quale andreste a comprare un’acqua tonica in spiaggia a Fregene in un qualsiasi giorno di Agosto diverso dal 15 (escludo Ferragosto perché, una volta trovato un po’ di spazio in spiaggia, rinuncereste alla tonica pur di non lasciarlo ad altri e desiderereste trovarvi nello spazio, magari su una torre).

Ho visto (al solito, credo di aver visto) i raggi cosmici balenare nel buio alle porte di Nettuno e arrivare su quella torre sconvolgendola e sconvolgendo pure l’intero nostro pianeta: una salva di protoni e radiazione gamma tale da far pensare che il nostro Sole avesse generato un flare alquanto anomalo o che, non più… solo, avesse finalmente trovato una compagna vicina divenuta una specie di supernova in preda a uno strano climaterio stellare.

Ho visto (ho creduto di avere visto) navi mercantili abitate da incazzatissime scimmie da esperimento al largo dei bastioni di Giove, o giù di lì.

Ho visto anche un brachicardico-tardigrado di dimensioni umane, eroe figlio di eroe, che si trovava a suo agio quasi ovunque: in un profondo lago marziano (!); su un rover lunare lanciato a velocità folle e speronato dai pirati che infestavano il nostro saltellite naturale; nella sala d’aspetto dell’agenzia delle entrate; … Insomma, stava bene ovunque e comunque, ma non a letto con la bella Liv Tyler.

Per inciso, la recitazione del Pitt Brad ricorda qui quelle della bellissima Bellucci impegnata in qualcuna delle sue interpretazioni più intense. Imperdibile.

Ho visto poi un Tommy Lee Jones, nel film padre dell’eroe, truccato così tanto bene da  sembrare una delle scimmie da esperimento di cui sopra.

Credo di aver visto tutto ciò soltanto grazie a interruzioni del mio sonno provocate da scossoni gravitazionali generati dalla precessione dell’ingente massa alla mia destra. A ogni giro, simile a una pulsar,  da una zona vicino al suo polo nord emetteva sibili e rantoli tipici di chi lottava per rimanere sveglio, contrastato nel suo progetto da un quantitativo di cibo molto più impegnativo delle mie tre uova strapazzate.

Non oso pensare cosa sia successo durante la notte dalle parti del suo polo sud.

Durante una di queste brevi veglie, mi è parso anche di capire che la fonte di quei raggi cosmici che investivano la Terra provocando incredibili sbalzi di tensione seguiti da black out, quindi morti, feriti e altri disagi, fosse proprio l’astronave di Tommy Lee Jones. Per un problema tecnico non ricordo più di quale natura, quella specie di camper spaziale ogni tot inondava l’intero sistema solare di emissioni che, pur se spegnessimo tutti i frullatori, i tostapane e le macchinette da caffè del mondo, nemmeno al CERN riuscirebbero a generare.

Si-loca-con-stelle

Ecco, lì confesso che sono stato davvero sul punto di andare a casa a finire il mio sonno in un  sistema di riferimento che, pur essendo qui sulla Terra, lontano dal mio vicino avrei pure potuto definire “inerziale”.

Ma ho scelto di rimanere (in realtà non possedevo una adeguata velocità di fuga per fuggire via dalla massa planetaria vicina che mi teneva avvinto) perché mi piace soffrire e devo dire che ho fatto proprio bene.

Sì, perché in questo pot-pourri di elementi ripresi da classiconi come Solaris, 2001 Odissea nello spazio (alcune scene di lui nell’astronave con i riflessi delle elettroniche sul casco non potevano non richiamare Frank Bowman alle prese con Hal 9000), Space Cowboy*; con musiche che, per genere, tentano di replicare il successo di quelle bellissime di Interstellar, con Pitt che, come il Clooney di Gravity se ne va con gran disinvoltura a spasso tra gli anelli di Nettuno, facendosi scudo con un cofano di Bianchina di fantozziana memoria, … c’è stato spazio per qualcosa di interessante, che val la pena dire qui.

Nei film di fantascienza spaziale ci hanno abituato a vedere gli arredamenti delle astronavi come qualcosa di davvero lontano dalla nostra esperienza terrestre. In questo film, invece, mi ha colpito l’aspetto dell’interno dell’astronave nella quale Tommy Lee Jones da un trentennio scrutava il cosmo alla ricerca di vita extraterrestre.

Mi si conceda una piccola divagazione. Tantissimi anni fa, qui a Bologna mi è capitato di andare dal dentista della mutua che all’epoca era dalle parti di via XXI Aprile. Una volta entrato, abituato all’idea di studio dentistico che mi ero fatto quando a pagare le cure erano i miei genitori, ebbi una sensazione straniante: lo studio appariva fatiscente, con attrezzature vecchie, brutte, da museo dell’odontoiatria.

Si trattava, per questo, di un ambiente molto vero, forse più vero di quelli moderni, e magari il dottore era il più bravo di tutti quelli da me incontrati in precedenza ma, oramai satollo di verità – il mio dente pulsava con la violenza e la schiettezza di un film neorealista – decisi di fuggire via per andare a farmi debiti altrove.

Insomma, anche il dente ogni tanto ascolta l’occhio che pretende la sua parte.

Alcuni interni di quell’astronave parcheggiata da trent’anni nell’orbita di Nettuno mi hanno restituito quell’idea di vecchio, di malandato, di superato. Una inadeguatezza tecnologica che mai nessun regista aveva messo così a nudo nei numerosi film di fantascienza spaziale che ho visto.

Similmente, a un certo punto, anche l’inscalfibile eroe tardigrado brachicardico nel film cede e viene smascherato con tutte le sue umane debolezze che, anche queste, a mio parere non erano mai state messe così bene in evidenza – forse a funzionare è stato proprio il contrasto con la freddezza fino a quel momento ostentata dal personaggio – in altre produzioni cinematografiche. Lo spazio è immenso ma, diversamente da quello che succede nel cinema nel quale mi trovavo, ciò che manca a chi si avventura lontano dalla Terra è il contatto con l’altro.

Ci-siamo-trasferiti-al-civico

Ieri sera l’universo mi è apparso per quello che ora mi sembra ragionevole che sia: contrariamente a quanto sostengono i seguaci del principio antropico, nel film esso si mostrava per nulla fatto su misura per noi o, se preferite, noi umani apparivamo ancora del tutto inadatti a stare stare dentro il cosmo senza i paesaggi terrestri e un bel po’ di nostri simili a rompere le balle.

La sensazione netta è stata che l’unico luogo naturale di aristotelica memoria dove possiamo stare fosse la Terra e che, se davvero c’è un altro posto simile a questo, il tentativo di raggiungerlo al momento è un suicidio: si tratterebbe di un viaggio capace di distruggerci dentro e fuori.

Mentre sulla Terra invecchiamo sullo sfondo di un mondo che si rinnova e di una tecnologia che di giorno in giorno muta, migliorando se stessa e la qualità della nostra vita, nei lunghi anni di viaggio per raggiungere un pianeta lontano capace di ospitarci, invecchieremmo dentro un ambiente che invecchia con noi, assumendo sempre più l’aspetto dello studio del dentista della mutua.

“Ciò che non uccide fortifica”, recita un detto. In realtà, se l’universo ti fa il torto di non ucciderti, vuol dire che ha deciso di indebolirti mentalmente, oltre che fisicamente, e l’aver posto i riflettori su questa dimensione così disumana di ciò che invece i film di fantascienza hanno fino a oggi tenuto a far apparire alla nostra portata, credo sia la vera cifra di questo film perlopiù mediocre (mi riservo comunque di rivederlo a stomaco vuoto o dopo un pasto leggero. Le mie frequenti assenze cognitive di quella sera, per quanto giustificate, non dovrebbero consentirmi di essere così definitivo nel giudizio).

In esso, la ricerca del padre dato per morto e poi ritrovato vivo e vegeto (anche se un po’ defunto dentro) molto lontano da tutto il consesso umano, la voglia di rivederlo, l’enorme difficoltà a lasciarlo andare nonostante, essendo “più di là che di qua”, non appartenesse più al mondo sul quale lo si voleva riportare, mi hanno fatto capire ancora una volta quanto, nonostante i ventidue anni oramai trascorsi dalla sua morte, sia ancora per me irrisolto il problema del distacco da mio padre.

Inoltre sono più di sei anni che questo pensiero si è intrecciato finemente con un altro che pure il film ha evidenziato: sono spesso aggredito dalla consapevolezza che un giorno sarò costretto, per decorrenza dei termini, ad allontanarmi da mio figlio. Si tratta di un incubo normale; un’idea ricorrente che, ne sono sicuro, aggredisce spesso tutti i genitori e le due cose, ovvero la morte dei nostri genitori e la consapevolezza che morendo, toccherà anche a noi lasciare i nostri figli, si mescolano rivelandoci quanto siamo soli. Se poi questi pensieri li si pone non sulla quinta di una piazza popolata e festosa di una domenica mattina, ma sul drappo nero del buio cosmico, la nostra esistenza solitaria diventa incontestabilmente pesante, chiara, definitiva.

É quindi un film di fantascienza, ma che ha per argomenti anche la fragilità umana e il rapporto padre-figlio: un argomento di cui parlo anche io nel mio spettacolo Giovannino e il Cosmo, una favola astronomico-musicale alla Prokofiev nella quale sottolineo l’importanza di un rapporto importantissimo, quello padri-figli, del quale ancora pochi parlano nella maniera adeguata e dandone l’importanza che merita.

In preda a simili pensieri, a un certo punto mi è sembrato addirittura soave ciò che di solito aborro: sono stato grato al crokkiare di patatine, nachos, pop corn e al turbinare rumoroso delle ultime gocce rimaste negli scaldabagni di cartone che impropriamente al bar del cinema chiamano bicchieri di coca: un repertorio di cacofonie che mi ha ricordato la presenza ingombrante, quindi (solo) per una volta gradita, degli altri spettatori nel The Space.

Vendesi-per-cessata-attività-respiratoria

Finanche la geometria perturbata dello SPACE-tempo della mia poltrona, dolcemente digradante verso il mio ingombrante vicino, mi ha donato per un fugacissimo, meraviglioso istante la gioia di vivere in una buca di potenziale popolata da un altro umano dal corpo politropico, evidentemente degenere.

La morale del film, da me seguito tra una ronfata e l’altra, in definitiva credo fosse il recupero di un’umanità inespressa che l’eroe celava dentro, da qualche parte. Una volta tornato a casa, distrutto nel corpo e nella mente, egli ritrova anche la giusta dimensione sentimentale con la sua ex – una dimensione che la sua precedente esperienza familiare non gli aveva permesso di sondare in modo adeguato – riuscendo finalmente ad apprezzare, lui che aveva sempre viaggiato nell’alto dei cieli, la vita terrena.

Credo sia una storia che segna un interessante (non bello. Interessante) ritorno a una dimensione sociale, sentimentale, romantica, un po’alla Bradbury di Cronache Marziane, di fare film di fantascienza in aperto contrasto con lo scientismo di capolavori come Interstellar, una pellicola a mio parere ancora insuperata.

Riprende un modo di interpretare la fantascienza spaziale non tanto come incursione dello spazio nelle faccende umane, ma come proiezione alla Star Trek dei classici topoi narrativi sul drappo buio del cosmo.

E, a causa di tre uova strapazzate, un’insalatona, mezzo bicchiere di vino rosso e una mela, ho rischiato che tutti questi momenti finissero per andare perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia.

Poi è stato (finalmente) tempo di dormire.

 

SZ

 

*) il buon Davide Alboresi Lenzi, amico astrofilo che ho incontrato al cinema, mi ha fatto notare che una foto di Tommy Lee Jones mostrata nel film è stata scattata proprio durante le riprese di quella fortunata, simpatica produzione

 

 

 

Alieni cugini, figli di nostra CIA

Non volevo scrivere questo post – è spesso ritenuto troppo screditante parlare di simili faccende per chi come me si professa amante della scienza ed è impegnato nelle attività di un istituto di ricerca – ma se lo state leggendo, capirete che alla fine ho ceduto.

Ho letto l’articolo di Rampini (1) di commento alla notizia circa l’ammissione della CIA: gli UFO sono una loro creazione. Si tratterebbe di un esperimento aeronautico iniziato più o meno settant’anni fa e che sembra non interessargli più tenere nascosto al mondo.

Ora lo diranno in tanti: “gli UFO non mi hanno mai convinto”.

Succede sempre così. E allora lo dico pure io, motivandolo almeno un po’.

I problemi connessi con la loro esistenza come veicoli di extraterrestri in visita qui sulla Terra sono tanti e ne cito solo un paio: l’Universo è davvero democratico, non fa sconti a nessuno: la velocità della luce è quella per chiunque abiti il Cosmo e se noi abbiamo i nostri bei problemi nel tentare di raggiungere frazioni importanti di essa, quelle necessarie per spostarsi da qui e andare chissà dove nella Galassia, perché non dovrebbero averne anche loro?

Inoltre, se davvero hanno scoperto come aggirare questo problema così da andare lontano dal loro pianeta in tempi accettabili, come avranno risolto gli altri generati dal semplice fatto di muoversi a velocità relativistiche? Già, perché non penserete mica che andando a velocità prossime ai 300.000 km/s, non capiti nulla oltre il semplice arrivare in anticipo, vero? Volete saperne di più? Se non vi interessa un corso di Relatività (2) ma desiderate solo farvi un’idea di quali sorprese attendano viaggiatori verso luoghi lontani del Cosmo, vi consiglio vivamente la visione di Interstellar, film di cui ho già parlato in questo blog (3).

Immagine pubblicata per la prima volta nel Dossier "La vita nell'Universo": http://www.torinoscienza.it/dossier/la_vita_nell_universo_2517.html

Immagine pubblicata per la prima volta nel Dossier “La vita nell’Universo”: http://www.torinoscienza.it/dossier/la_vita_nell_universo_2517.html

Il secondo problema (ve l’avevo detto che ne avrei citato solo un paio…) è che tutti, ma proprio tutti vedono gli UFIs, tranne noi astronomi. Trascorriamo montagne di tempo a osservare il cielo a occhio nudo e con strumenti che, anche quando ci distraiamo per andare in bagno o per scaldarci un hamburger, ci raccontano se in nostra assenza è successo qualcosa di strano, ma niente, nulla, il deserto (cit.). Sembra proprio che gli UFIs attuino scelte precise, decidendo sempre di mostrarsi ai vari Tizio e Caio come quello qui a sinistra, ma mai a Sempronio.

Un’occhiata veloce alla parte inerente gli UFO del Dossier (4, 4-bis) reso pubblico dalla CIA, racconta di problemi molto umani e molto poco alieni intervenuti nei programmi dell’agenzia americana e derivati dalla decisione di spiare i cieli, specie quelli sotto il controllo russo, mediante gli aerei U2 per l’epoca rivoluzionari. Di seguito riporto la parte del dossier che ci interessa estrapolandola da un documento di alcune centinaia di pagine:

UFOs, AND OPERATION BLUE BOOK
High-altitude testing of the U-2 soon led to an unexpected side effect-a tremendous increase in reports of unidentified flying objects (UFOs). In the mid-1950s, most commercial airliners flew at altitudes between 10.000 and 20.000 feet and military aircraft like the B-47s and B-57s operated at altitudes below 40.000 feet. Consequently, once U-2s started flying at altitudes above 60,000 feet, air-traffic controllers began receiving increasing numbers of UFO reports. Such reports were most prevalent in the early evening hours from pilots of airliners flying from east to west. When the sun dropped below the horizon of an airliner flying at 20,000 feet. the plane was in darkness. But, if a U-2 was airborne in the vicinity of the airliner at the same its horizon from an altitude of 60.000 feet was considerably more distant, and, being so high in the sky, its silver wings would catch and reflect the rays of the sun and appear to the airliner pilot 40000 feet below, to be fiery objects. Even during daylight hours, the silver bodies of the high-flying U-2s could catch the sun and cause reflections or glints that could be seen at lower altitudes and even on the ground. At this time, no one believed manned flights was possible above 60000 feet, so no one expected to see an object so high in the sky.

Not only did the airline pilots report their sightings to air-traffic controllers, but they and ground-based observers also wrote letter to the Air Force unit at Wright Air Development Command in Dayton charged with investigating such phenomena.This, in turn, led to the Air Force’s Operation BLUE BOOK. Based at Wright-Patterson, the operation collected all reports of UFO sightings. Air Force investigators then attempted to explain such sightings by linking them to natural phenomena. BLUE BOOK investigators regularly called on the Agency’s Project Staff in Washington to check reported UFO sightints against U-2 flight logs.This enabled the investigators to eliminate the majority of the UFO reports, although they could not reveal to the letter writers the true cause of the UFO sightings. U-2 and later OXCART flights accounted for more than one-half of all UFO reports during the late 1950s and most of the1960s.

Dalle righe precedenti risulta quindi che più della metà dei casi di avvistamenti di oggetti volanti non identificati fosse dovuta all’attività della CIA. Sommiamo a questa metà il gran numero di fake costruiti ad arte, alcuni dei quali già smascherati dagli inquirenti; sommiamo infine gli errori compiuti da persone che, in perfetta buonafede, hanno preso i classici fischi per fiaschi e scopriamo che il 100% dei casi risulta spiegabile senza invocare l’arrivo di visitatori da altri mondi: insomma, stando alla CIA, gli UFO non esistono, con buona pace di chi vi ha dedicato l’esistenza e che nel frattempo, bisogna dirlo, non è riuscito a produrre davanti alla comunità scientifica nessuna prova valida della provenienza extraterrestre dei dischi volanti.

Illustrazione pubblicata la prima volta nel Dossier "La vita nell'Universo", http://www.torinoscienza.it/dossier/la_vita_nell_universo_2517.html

Illustrazione pubblicata la prima volta nel Dossier “La vita nell’Universo”, http://www.torinoscienza.it/dossier/la_vita_nell_universo_2517.html

Non è la prima volta che la CIA si decide a vuotare il sacco. Tra il 2013 e l’anno appena trascorso, quando con un tweet, quando con un articolo, lo ha già fatto in almeno un paio di occasioni. Suona un po’ strano che con un semplice cinguettio si possano liquidare circa settant’anni di avvistamenti, di film, di libri, trasmissioni radiofoniche, dischi, spettacoli, magliette, articoli, barzellette, minkjate, … sui cugini alieni in visita qui da noi, ma dobbiamo rassegnarci all’evidenza: la modernità è anche questo e un pulsante “invio” premuto al momento giusto può annientare secoli di oscurantismo e tonnellate di miti antichi e moderni.

Detto per inciso, questa notizia sugli UFO mi fa attendere fiducioso tweet analoghi scritti da qualcuno a conoscenza di segreti ignoti ai più. Chissà, magari questo qualcuno alle prese col cambio stagionale degli scheletri nel suo armadio, potrà decidere un giorno di rivelare un po’di verità sulla storia recente del nostro paese troppo a lungo taciute. Inoltre, inutile dirlo, spero tanto che, dopo un’attesa millenaria, un futuro profeta laico dotato di carisma e di dati seri, mostrerà un dossier o qualcosa di simile, smascherando definitivamente un famoso esperimento sociale andato fin troppo bene. Se ci sarò, sarà una vera goduria scrivere almeno un post sull’avvento di quel nuovo messia.

Ma torniamo pure agli UFO.

Un’altra ipotesi già da tempo avanzata è che i dischi volanti siano proprio dischi e non aerei, ma di fattura umana. A scuola ci hanno insegnato che dietro ogni leggenda si nasconde sempre una verità e sono assolutamente convinto, e la CIA me lo conferma, che nel caso della leggenda UFO si tratti di una banale verità umana. Se quei sospetti circa l’esistenza di dischi volanti prodotti da ricerche militari di chissà quale nazione terrestre fossero fondati, spero che ci venga presto rivelato ufficialmente: non vedo l’ora di congedare scomodi aerei, bella copia del trabiccolo dei fratelli Wright, per girare il mondo a bordo di un LP o di un piatto da batteria… della U.F.I.P. (5)

Per certi versi, mi dispiace parlare dell’argomento di questo post: come già è stato fatto notare altrove in rete, si è trattato di dire agli adulti che anche il loro Babbo Natale (6), quello che avrebbe dovuto portare in dono conoscenza, saggezza, immortalità, … non esiste. Non credo sia una grossa perdita: la nostra capacità di creare storie non si esaurisce di certo qui e presto avremo qualche altro mito moderno col quale sognare.

E poi, non è detto che la confessione della CIA faccia cambiare idea a chi ha deciso di credere a tutti i costi. La fede incondizionata in qualcosa dimostratosi irrazionale difficilmente si estirpa e non mi sembra così misteriosa nel suo rivelarsi ad alcuni piuttosto che ad altri. Trovo invece misterioso il persistere di quella fede nella testa di tanti piuttosto che solo in quella di alcuni.

Diversamente, trovo più interessante capire come si spieghi l’idea che si trattasse di “dischi” volanti. Dopo aver appreso dalla CIA che al fondo del fenomeno vi fossero aerei, quindi, schematizzando, “croci”, come giustifichiamo da un punto di vista percettivo l’assimilazione di queste croci a oggetti tondi e schiacciati?

Per capirlo, di sicuro andranno chiamate in causa le allucinazioni di massa alle quali da sempre il genere umano si è dimostrato vulnerabile, ma sospetto che una ricerca ben fatta potrebbe rivelare come il motivo di una simile “traveggola” si celi nell’estrema bellezza di quella favola per adulti nella quale per la prima volta si è parlato in modo convincente dell’ avvistamento di UFO discoidali.

Deve essere stata raccontata così tanto bene che, nell’immane passaparola da essa innescato, non ha fatto altro che riversarsi uguale a se stessa in tutte le narrazioni successive. Dall’elemento geometrico tondo e piatto, le nuove versioni di quel mito moderno non hanno potuto proprio prescindere e quel disco è rimasto in cima alle classifiche per almeno settant’anni.

Strano a dirsi, nonostante l’effettiva forma a croce dell’aereo U2, la rivelazione di “qualcuno venuto dal cielo” una volta tanto ha partorito l’esigenza di una figura geometrica diversa: il piatto, un piatto volante. Che sia l’indizio di una nostra tendenza innata ad abbracciare il Pastafarianesimo (7)?

Chiudo questo post con una preghiera: spero che ufologi, dilettanti o “professionisti” che siano, nonché tutti coloro i quali sono stati rapiti dagli alieni (e che per me non sono mai “tornati a casa”), si astengano dal commentare questo post al solo fine di “evangelizzarmi”. A loro va tutta la mia riconoscenza per aver lottato strenuamente nel tentativo di tenere in vita una bellissima storia. Bellissima, ma purtroppo falsa. Parola della CIA!

Mi spiace per loro, in fondo non facevano male a nessuno e – ritengo doveroso riconoscerlo qui – hanno alimentato l’unica fede per me davvero compatibile con la modernità, rendendo più intrigante il mondo nel quale vivono pure gli scettici.

Astrobiologia - Illustrazione pubblicata per la prima volta nel Dossier "La vita nell'Universo", http://www.torinoscienza.it/dossier/la_vita_nell_universo_2517.html

Astrobiologia – Illustrazione pubblicata per la prima volta nel Dossier “La vita nell’Universo”, http://www.torinoscienza.it/dossier/la_vita_nell_universo_2517.html

A loro va il mio grazie più sentito e l’invito a darci una mano nell’alimentare le aspettative aperte dall’astrobiologia, la ricerca di vita altrove nel cosmo condotta con metodi scientifici (8), e dalla congiunta ricerca di pianeti extrasolari abitabili.

SZ

1- http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2015/01/03/il-tweet-verita-della-cia-altro-che-extraterrestri-gli-ufo-eravamo-noi17.html

2- http://it.wikipedia.org/wiki/Relativit%C3%A0_ristretta

3- https://squidzoup.com/2014/11/25/lamore-ai-tempi-di-interstellar/

4) http://www.universetoday.com/104174/cias-declassified-documents-reveals-secrets-about-area-51-and-ufos/

4-bis) http://www.gwu.edu/sites/www.gwu.edu/files/downloads/U2%20%20history%20complete.pdf

5- http://www.ufip.it/index.html

6- http://news.leonardo.it/ufo-anni-50-cia-rivela-erano-nostri-aerei-spia/

7- http://it.wikipedia.org/wiki/Pastafarianesimo

8- Nel 2001 ne ho parlato in un Dossier. Lo si trova in rete, all’indirizzo:

http://www.torinoscienza.it/dossier/la_vita_nell_universo_2517.html

Sottofondo: Charlie Parker, Bird of Paradise

http://grooveshark.com/#!/album/Bird+Of+Paradise/2375981

L’amore ai tempi di Interstellar

Lancio sentimentale - mia illustrazione pubblicata per la prima volta sulla rivista SISSA News. house-organ della S.I.S.S.A. di Trieste

Lancio sentimentale – mia illustrazione pubblicata per la prima volta sulla rivista SISSA News. house-organ della S.I.S.S.A. di Trieste

Sono finalmente riuscito ad andare a vedere Interstellar.
Immagino che, dopo aver fatto di recente una polemica con quanti lo denigravano sine ulla spe (https://squidzoup.com/2014/11/20/un-film-fantascientifico-avvincente-e-scientificamente-esatto-fallo-tu/), ci si aspetti che io sia coerente almeno con me stesso affermando di averlo gradito senza se e senza ma.
Ebbene, correrò il rischio di risultare poco propenso a contraddirmi, scrivendo che sì, mi è piaciuto davvero tanto. É sembrato anche a me di notare delle falle nell’impianto narrativo, alcune piccole, altre più grandi. Sulle piccole sorrido (e non rido sarcastico) in quanto mi sembrano, strano a dirsi, semplici sviste registiche. In particolare, ne cito una notata da mio cugino, Gianluca Barbaro: la navicella che necessitava del passaggio offerto dal razzo vettore per arrivare in orbita attorno alla Terra, è la stessa che riesce ad evitare l’arrivo dell’onda sfuggendo addirittura fin oltre l’atmosfera di un pianeta con una gravità superiore del 30% rispetto a quella della Terra.
Sulle incongruenze più grosse, sospetto che qualcosa mi sfugga per il semplice motivo che, non essendo un relativista, ritengo normale non capire ciò che deriva dalla drammatizzazione di un calcolo raffinato eseguito da Thorne.
Insomma, sono più portato a pensare che, se qualcosa non mi torna, non è che non torni in generale. No, piuttosto credo che non mi risulti chiara solo a causa della mia ignoranza.
Lascerei quindi il compito di imbastire circostanziate polemiche a chi se ne intende (ma che se intenda davvero…) di Relatività Generale; a chi se ne intende davvero di cinema e soprattutto a coloro, se ve ne sono – immagino siano un sottoinsieme minuscolo dei tuttologi – che se ne intendono di rapporti tra Relatività e Cinema.
Della storia non ho gradito (o forse non ho capito…) molto la teoria sull’amore come collante cosmologico, ma direi che ci stava. Anzi, direi che, pur essendo un film americano, sono stati bravi nel limitare, se non addirittura a evitare, le solite sequenze melense a base di bandiere a stelle e strisce innalzate, mani sul cuore e frasi come “Dio lo vuole” & affini.
Ho sempre trovato simili scene fastidiosamente gratuite, o meglio, necessarie solo per un pubblico statunitense: un pubblico che alle elezioni vota il candidato con la camicia più bianca di quelle degli altri, quello che si fa riprendere mentre con la famiglia al completo va a messa alla Domenica per poi recarsi alla partita di baseball o a mangiare il tacchino nel giorno del ringraziamento (lo so, lo so: sto parlando di un modello politico che è da tempo anche italiano, se non addirittura europeo).
In questo, Interstellar mi è sembrato più equilibrato di tantissimi altri film e immagino che, per lo stesso motivo, a molti sia risultato carente di una per loro “necessaria” dimensione spirituale. Quella c’è, ma una volta tanto, dimostrando forse una certa furbizia, non è stata rimarcata troppo la matrice protestante o cattolica, lasciando così che tutti i fruitori del film possano intravedere il proprio sfondo religioso dietro le scene più riconducibili all’entusiasmo (*).
Due aspetti, lo confesso, mi hanno davvero colpito in modo speciale.
Il primo è la rappresentazione del buco nero che, non a caso, dicono essere la migliore mai elaborata fino a oggi seguendo i dati scientifici a nostra disposizione. Ancora ora, ripensandoci, trovo quelle scene terrificanti e tremendamente affascinanti (volevo scrivere “attraenti”, ma mi sembrava un po’ pleonastico…). Insomma, roba da far tremare i polsi di paura, regalando al contempo un fortissimo desiderio di essere lì a orbitare  attorno al “mostro” per ammirare la bellezza struggente, ipnotizzante di una manifestazione così estrema della Natura.
Mi immagino per un attimo col cappellino a zuccotto tenuto con la visiera sulla nuca, col cappuccio sulle spalle e i jeans “a cacarella”, mentre mi batto il petto con il pugno proprio come un qualsiasi ridicolo simil-rapper de noantri, urlando Respect! alla volta del buco nero davanti a me.
La seconda è l’insostenibile malinconia, una lacerante disperazione, che mi ha assalito pensando al distacco dagli affetti che comporta un viaggio nel cosmo come quello intrapreso dal protagonista.
Sempre in quel primo articolo che ho scritto pochi giorni fa su Interstellar, parlavo di come la vita mi sia cambiata a partire da d.G., ovvero dopo la nascita di Giovanni. Quando ancora vivevo nell’a.G., una fase durata ben quarantaquattro anni, pensavo e affermavo, ostentando una incrollabile sicurezza, che non avrei mai esitato a partire, a lasciare il pianeta sul quale da sempre vive il genere umano, se mai mi fosse stata offerta l’opportunità di viaggiare nel cosmo.
Sin dalle prime scene del film invece, in un crescendo abbastanza rapido da pp a ff (notazione musicale per pianissimo e fortissimo), ho intuito quanto fosse cambiato nel frattempo il mio stato interiore; ho realizzato quanto tutto sia mutato a partire da quel d.G.. Non voglio rischiare di nuovo di essere frettolosamente spocchioso nell’ipotecare il futuro: temo la possibilità di trovarmi di nuovo al cospetto di simili, imbarazzanti cambi di convinzioni. In ogni caso, oggi credo proprio che tentennerei alla Quinto Fabio Massimo, snervando la NASA o chi per lei, di fronte all’offerta di partire per un viaggio nel cosmo che non mi faccia rivedere più mio figlio o che mi faccia tornare sulla Terra trovando in lui un mio coetaneo; peggio, un irriconoscibile vecchio che porta il suo nome, prossimo alla morte.

Diciamola tutta: oggi come oggi, credo proprio che rinuncerei.

Ecco, questo film, oltre ad avermi confermato più di tanti altri il vero fascino dell’universo, un fascino tutto racchiuso nella sua esagerata incomparabilità con la nostra dimensione microbica, mi ha fatto intenerire pensando a quanto siamo legati a questa scheggia cosmica sulla quale poggiamo.

Dipendiamo da essa per l’aria, l’acqua, la luce, …,  finanche per la nostra storia e le dinamiche interpersonali che solo qui hanno senso. Sì, vero: continuano ad averlo in orbita e basta osservare come molti di noi si sono emozionati e commossi, addirittura, seguendo ieri il viaggio della nostra fantastica Samantha Cristoforetti.

Ma già pensare di andare più lontano della Luna, piuttosto che far sentire la potenza dei sentimenti così come descritti nel film, sentimenti capaci di vincere il cosmo unendo chi è distante, credo metta in evidenza la nostra inadeguatezza a stare da soli, senza i nostri affetti, senza la nostra storia, quella personale come quella di tutta l’umanità.

Esiste una sfera di Dyson, un raggio di Swarschild, quindi un orizzonte degli eventi. Esiste pure una sfera di Marconi-Berlusconi-Murdock, come racconto nel capitolo dedicato alla Terra del mio Pianeti tra le note (**), ma la sfera dei sentimenti mi sembra avere un raggio paragonabile a quella di una sottile membrana abbastanza attillata alla superficie di questo globo terracqueo. Qualcosa di così limitato da non poter certo arrivare fin su un’altra galassia.

Oltre quella sottile membrana, quindi molto prima di arrivare a vedere mondi lontani, sospetto che verremmo smembrati dalla disperazione. All’impossibilità di una comunicazione sentimentale con i nostri cari, temo corrisponda un veloce disfacimento organico, un rapido disentanglement emozionale, quindi biologico. E lo temo nonostante io abbia sempre amato la solitudine, in barba a una certa ostentata capacità di stare in compagnia, qualcosa che mi riesce bene, ma solo per limitati intervalli di tempo.

Le motivazioni evoluzionistiche per una simile dinamica psicosomatica, se fosse reale (sarebbe bello se qualche psicologo o antropologo intervenisse a spiegarmi qualcosa che non so, ma che riesco solo a immaginare), potrebbero essere facilmente spiegabili. Se sono nel giusto, si tratterebbe di un circuito innato utile a garantire protezione dei figli di alcune specie animali: quelle che, rispetto ad altre, tardano a emanciparsi dal controllo e dall’assistenza dei genitori.

Per lo stesso motivo, privarsi o essere privati della possibilità di assistere i propri figli credo metta in moto una serie di meccanismi capaci di “punire” il genitore per spingerlo a ripensarci, a tornare sui propri passi e desistere dall’attuare l’abbandono. Una simile punizione potrebbe arrivare a toccare, dopo la sfera mentale, anche quella biologica, punendo il corpo fino a deprimerlo.

Anche per eremiti incalliti, i cento anni di solitudine vagheggiati dal già citato Marquez sarebbero probabilmente troppi, specie in relazione al differente trascorrere del tempo in diversi sistemi di riferimento. Qualora si riuscisse, come nel film, a tornare a baita (così forse direbbe un Rigoni Stern interspaziale di ritorno da una campagna di guerre stellari), si troverebbe un’umanità del tutto diversa da quella che si è lasciata.

Le distanze cosmiche possono essere così esagerate da rendere ridicolo qualsiasi sentimento umano che qui da noi è forse anche troppo potente ed esaltato (potente perché esaltato?), ma che viene offeso, triturato, spaghettificato, atomizzato, dissolto da paesaggi planetari che non ci appartengono affatto, mettendo in evidenza l’incompatibilità tra quei nuovi contesti e il nostro cervello con tutto ciò che prova.

Di sicuro la nostra dimensione umana è destinata in futuro a cambiare, ma al momento credo che non ci sia data altra possibilità oltre quella di rivestire il ruolo di osservatori attenti della fetta di Universo godibile da un qui esteso poco più di 384.000 cholometri (distanza media della Luna).

Il film sembra quasi dirci che o ce andiamo in tanti (per non dire tutti) come avveniva nei romanzi alla Universo di Heinlein, così da mantenere quella rete (di protezione) di relazioni affettive, o è meglio che non lo faccia nessuno, pena la follia, la disperazione, la solitudine che non può nemmeno essere urlata. Non a caso, la stazione spaziale nella quale si trovano tutti alla fine del film è una classica realizzazione “sintetica” della Terra, un’idea risalente all’epoca aurea dei vari Chesley Bonestell e Stanley Kubrick.

Forse capiremo qualcosa di più quando riusciremo a inviare quei famosi coloni su Marte di cui parlavo in uno dei primi post di questo blog (https://squidzoup.com/2013/04/23/nuoverrimo-mondo/).

Forse no.
Intanto, riassumendo, confermo che Interstellar mi è parso un gran film.
Americano per effetti speciali, ma franco-polacco per alcuni effetti psicologici che ancora perdurano dentro di me.

Vorrà per caso dire che stavolta gli americani hanno dimostrato di essere stati toccati da un certo modo europeo di fare film? Sarebbe simpatico scoprire che al di là dell’oceano Atlantico, Intestellar venga percepito come un'”europeàta”, intendendo questo neologismo alla stregua del nostro negativo “americanata”.

Se ho ragione, non è così peregrina l’ipotesi che sia stato anche questo discostarsi da alcuni cliché del cinema statunitense ad aver contribuito a far nascere certe critiche totalmente negative incassate dai due Nolan & Co.

SZ

(*) Il termine “entusiasmo” deriva dal greco antico enthusiasmòs, formato da en (in) con theos (dio). Letteralmente si potrebbe tradurre con “con Dio dentro di sé”, o “indiamento”, “invasamento divino” – fonte: wikipedia

(**) Pianeti tra le note – appunti di un astronomo divulgatore, Springer, 2006

http://www.springer.com/astronomy/popular+astronomy/book/978-88-470-1184-7

Un film fantascientifico avvincente e scientificamente esatto? Fallo tu.

Una mia illustrazione (Martina la tremenda sfugge al Buco Nero) tratta dal libro Astrokids a cura di Stefano Sandrelli e Luara Daricello e pubblicato dalla casa editrice Scienza Express, 2014

Una mia illustrazione (Martina la tremenda sfugge al Buco Nero) tratta dal libro “Astrokids” di Stefano Sandrelli e Laura Daricello e pubblicato dalla casa editrice Scienza Express, 2014

Quando faccio pausa pranzo, vado a mangiare un panino in un bar adiacente al plesso dove lavoro. Nella stessa struttura vi è anche il dipartimento di Fisica e questo fa sì che sia molto probabile incontrare davanti alla vetrinetta dei cibi preconfezionati e appena sfornati, colleghi che lì lavorano.

Quando si tratta di fisici, me ne accorgo dai discorsi che capto grazie al ridotto spazio nel quale tutti ci muoviamo, bella metafora delle nostre reali condizioni di vita che ridimensionano gli spazi mentali nei quali riteniamo di sguazzare.
E quando un film come Gravity o come Interstellar esce nelle sale, il volume delle discussioni “sale” anche lui: consciamente o inconsciamente, credo possibile che chi studia a fondo quelle materie che da noi si affrontano, ritenga simili circostanze ideali per ritagliarsi un ruolo, per darsi un’importanza.

Mi sembra quasi di sentire le persone pensare – forse perché a volte penso qualcosa di analogo anche io (nihil humani mihi alienum est…) – “noi siamo quelli il cui punto di vista su una questione inerente quel film famoso, infarcito di matematica/fisica/…, è il migliore che ci sia. Come mai nessuno ci interpella?”
Io il film non l’ho ancora visto, ma conto di colmare presto la lacuna.
Da sempre più che appassionato di fantascienza, soprattutto quella spaziale con astronavi e paesaggi cosmici (che strano, vero?), quando un film del genere esce nelle sale, mi precipito a vederlo.

Nella storia umana c’è un punto importante: la data presunta della nascita di Cristo (presunto anche lui). Bene, nella mia c’é la nascita di Giovanni. E c’è un a.G. e un d.G.
Quando vivevo nell’a.G. (che non corrisponde certo all’”agio”), potevo andare a cinema quando mi pareva. Ora purtroppo no. Mi rifarò in futuro.
Dicevo, io il film ancora non l’ho visto, ma ho sentito e letto diversi pareri. La mia non sarà quindi una recensione, né una peer review. Piuttosto sarà una pre-review fatta agli scienziati che parlano di film di fantascienza & affini.
Per quelli un po’ vanesi tra noi astronomi, fisici, astrofisici, alla ricerca di consensi tra amici, conoscenti e persone che si incontrano al bar, appunto, un film come Gravity o, peggio, come Interstellar, è quasi sempre da criticare negativamente.
Il fisico/astrofisico/astronomo vanesio ne sa sempre di più di chiunque altro, di default.
Questo è un nuovo mistero della fede, quindi qualcosa che nella nostra cultura dovremmo essere stati abituati da un bel po’ ad accettare senza discutere.
E scoprire di avere credito davanti a un uditorio (in questo caso quello del bar, quindi non importa se si tratti di un pubblico qualificato o meno) pur sapendo di star sfidando proprio nel suo campo, in contumacia, un riconosciuto esperto mondiale come Kip Thorne, ci fa sentire come Davide che sfida Golia e, perché no?, magari che lo abbatte con un semplice sasso.

Quasi nulla di nuovo: il bar è da sempre il luogo dove si incontrano esperti di politica, di calcio, di medicina legale… L’astrofisico è una novità che può anche attecchire e credo non sarebbe male litigare per derby cosmologici davanti a un caffè e a una Gazzetta dello Sport.
Lui, il fisico da bar, è uno che di solito, a partire dalla fine del liceo non ha studiato altro che la sua materia, ma sa applicare Bernoulli e conosce l’elettromagnetismo e la meccanica quantistica, ergo sa fare tutto. É un Chuck Norris della cultura, non conosce la paura e non conosce la pietà (cit.).
Se lui, il fisico/astrofisico/astronomo vanesio finalmente dice che qualcosa va bene, statene pur certi: va bene.
Se invece il suo pollice è “verso”, nascondetevi. Il suo sguardo critico ha calcolato esattamente il grado di probabilità che, voi che non sapete la fisica, nella vita commettiate errori madornali. E scopre che questa probabilità è pericolosamente alta.
Questa consapevolezza che le cose spesso vanno così, mi fa un po’ vergognare per tutte le situazioni in cui è capitato a me – che proprio perché divulgatore, un po’ vanesio sono e devo esserlo – di avere simili atteggiamenti. Tremo, poi, di fronte alla possibilità di sorprendermi in futuro a comportarmi così anche fuori dal lavoro. Spero che quanto scrivo serva da scuse anticipate per quando risulterò così tanto ridicolo, se non offensivo. C’è però un lato divertente della faccenda, è innegabile, e invito tutti a sorridere bonariamente della categoria degli “scienziati”. A loro discolpa, posso giurare che certi modi di fare nascono anche da una immensa passione per ciò che studiano.
Comuqnue, mentre divoravo il mio panino con speck gorgonzola e rucola, sorridevo tra me e me sentendo i commenti di questi tre colleghi seduti alle mie spalle. Erano più che certi che il film fosse pieno di errori e trovate molto improbabili e pensavo di conseguenza “Quasi quasi risparmio i soldi e non vado a vederlo. ‘sti tre avranno sicuramente ragione: cavolo, sono fisici!”.

Fin qui nulla di nuovo e di grave. Semplice routine che vale una risata col beneficio del dubbio: e se su quel particoalre aspetto del film, avessero ragione loro? Tra l’altro, agli autori di Interstellar non è certo sfuggita la presenza di qualche problema e so per certo che nel libro “The science of Interstellar”, simili questioni vengono affrontate nel dettaglio, mostrando a quale processo di adattamento bisogna sottoporre un’idea scientifica per poterne trarre un film che risulti bello secondo i canoni di bellezza universalmente (= mondailmente…) riconosciuti.
Poi trovo citato su Facebook l’articolo di un tale che scrive su una rivista on-line e scopro che lui non si limita solo a trovare alcuni difetti (al di là di quelli riconosciuti anche dagli autori, immagino che quel film ne abbia tantidi più, come qualsiasi altra cosa a ‘sto mondo) in Interstellar.

Assolutamente no: lui ritiene che, oltre a essere un’opera completamente errata sotto tutti, ma proprio tutti i punti di vista, essa sia addirittura diseducativa.
La sua inscalfibile certezza, data dall’autodefinirsi “scienziato” senza tema di mancare di umiltà, lo porta a discettare di relatività come se ne mangiasse dei chili anche a pranzo, mettendola nei panini proprio lì dove io invece ho chiesto al buon Davide Pancaldi di mettere solo rucola, gorgonzola e speck. “Chissà”, penso, lasciandomi aggredire dai sensi di colpa, “forse rinunciando allo speck, un po’ di spazio per un tensore o per una varietà differenziale ogni tanto lo troverei…”.
Leggo velocemente quell’articolo in un crescendo di nervosismo che mi porta a non notare un passo illuminante; quello che invece nota subito un mio amico e collega, facendo scattare all’istante un’allarme nella sua testa evidentemente più attenta della mia: l’autore a un certo punto denuncia un certo moralismo di stampo darwiniano presente, a suo dire, in un passo del film.

Persona dall’immensa cultura scientifica che di mestiere fa il cosmologo e che trascorre buona parte del suo tempo libero a leggere i classici greci e latini… in greco e latino (lo dico solo per aiutarvi a inquadrare il personaggio), il mio collega connette subito quelle tre paroline a una possibile sponsorizzazione dell’articolista: “mi sa che chi scrive è un cattolico”, mi dice, giustamente contento di essere riuscito a fare un’ipotesi verisimile per l’origine di tanto astio nei confronti di film e autori.
Segue subito una veloce indagine che rivela come l’autore dell’articolo abbia studiato filosofia della scienza, materia che insegna… in una università cattolica.

Al di là di una banale critica al metro cattolico, un metro che considero del tutto inadeguato a misurare scienza e fantascienza, mi sembra di scoprire che quel difettuccio di fabbricazione che spesso noi fisici, astrofisici, astronomi, … abbiamo, può arrivare anche a colpire in modo molto più grave chi vive in ambiente filosofico.

Dopo aver tante volte sostenuto l’importanza di possedere una reale e non millantata conoscenza della filosofia della scienza, una conoscenza che andrebbe a parer mio considerata fondamentale anche e soprattutto negli ambienti scientifici, scopro che forse vi è anche un ulteriore problema: quello di una pericolosa presunzione di conoscenza della scienza negli ambienti filosofici.
Insomma, se ho ragione, nessuno di noi mi pare salvarsi
Tutta la vicenda sembra lasciar trapelare solo tanta, tanta rabbia intellettuale che si esprime attraverso sfide al “pistolero Thorne”, il più veloce del far west, lanciate standosene però molto “far” da lui: è molto improbabile, infatti, che l’articolista incontri l’astrofisico Thorne per chiedere soddisfazione nel suo campo che, detto per inciso, è proprio la fisica dei buchi neri.

Ma come mai parlo ancora di Thorne in questo discorso? Perché sembra che sia colui che ha scritto di recente quel nuovo libro sui buchi neri che ho citato più su, divenuto base di partenza concettuale del film Interstellar.

Il mio collega che sta leggendo anche il suo libro (e che, detto per inciso, ha gradito moltissimo il film), mi racconta che l’astrofisico americano è stato nominato consulente scientifico dalla produzione; che ne è divenuto lui stesso co-produttore e che ha avuto la lungimiranza e l’umiltà, oltre che di interfacciarsi di continuo col regista, di chiamare a raccolta anche esperti di altre discipline per capire, ad esemprio, quanto lo scenario di inizio film, quello che, come ho letto, ha che fare con un’epidemia che distrugge i raccolti sulla Terra, si possa verificare in un futuro non molto lontano (il Darwin che risulta sempre indigesto ai cattolici è tutto contenuto qui, nella parte iniziale del film, casus belli della vicenda)

Mi sembra ovvio che Interstellar, essendo un film, debba discostarsi da un articolo scientifico così da poter parlare di storie umane che si intrecciano con la fisica. Se si vuole che il film possa essere fruito anche dai biologi e da filologi; da autisti e da cuoche, … così da avere molte chances di vincere al botteghino, non c’è alternativa: le regole dello storytelling vanno rispettate.

Vanno benissimo le critiche, avvedute o meno che siano. Criticare è un gioco intrigante tipicamente umano; è importante farlo e se qualcuno si espone producendo qualcosa da esibire in pubblico, sa che potrà riscuotere applausi e fischi. Fa parte del gioco, di un bellissimo quanto antico gioco.
Se c’è qualcosa che non mi torna è che si possa arrivare a stroncare totalmente un film che altri trovano accettabile, altri ancora stupendo. Credo sia alquanto improbabile una critica negativa che vada a toccare con millantata e chirurgica competenza il film in quanto film, i dialoghi in quanto dialoghi, gli attori in quanto attori, la fisica in quanto fisica…
Qui credo si voglia piuttosto sdoganare il concetto che, dalla fisica alla cinematografia, passando dalla sociologia, dalla pedagogia, dall’epidemiologia, dalla musica (chissà se la colonna sonora era  almeno all’altezza del gusto di chi ha scritto quella recensione…), nulla ha segreti per quell’epistemologo. Allora mi vien da dire, sfidandolo, nonostante sia molto probabile che io lo incontri di persona: “Non perdere l’occasione. É il tuo momento: il prossimo film, campione di incassi e di critiche positive, fallo tu che sei bravo e sai esattamente come fare”.

SZ

 

P.S.: Mi è stata segnalata questa pagina:

http://qz.com/299334/shut-up-about-the-inaccuracies-of-interstellar/

Inutile dire che condivido