Aforisma 2: Claude Debussy Dixit

Terzo-solo-del-flauto-Debussy

 

Paolo Manetti, nell’introduzione al volumetto Il pomeriggio di un fauno (1) di Stéphane Mallarmé, cita un certo Luigi de Nardis che, in un suo libro (2), afferma:

Il Monologue d’un faune pone per la prima volta Mallarmé di fronte a nuovi problemi, gli stessi che nell’estate del ’65, in curiosa concordanza di date, cominciavano a porsi Monet, Renoir e Bazille drizzando i loro cavalletti nel bel mezzo della foresta di Fontainebleau: la figura immersa nella luce naturale, all’aria aperta, il fogliame, le acque.

Sempre Manetti riiferisce poi che, dopo alterne vicende e revisioni, il libello di Mallarmé venne pubblicato nel maggio del ’76 dall’eitore Derenne, con una edizione di lusso e col titolo di Après-midì d’un faune. Quegli anni dal ’73 al ’76 sono importanti per il movimento impressionista. Essi infatti

Segnano il culmine della stagione impressionista interpretata da Manet con assoluto rigore logico e formale, nella somma aderenza a una visione del reale ma anche all’intelletto creativo. Riflessi quindi e non limiti sensoriali in un raffinato contesto culturale che s’abbandonava coscientemente alle impalpabili vibrazioni del colore e insieme manteneva una sorvegliata cerebralità e un’accurata osservazione psicologica. Sono gli anni in cui Courbet, Renoir, Pissarro, Sisley, Manet vanno in gruppo a studiare i riflessi delle acque, delle foglie, del paesaggio, della luce, e Mallarmé, anch’egli   attirato dall’acqua e affascinato dalle nuove problematiche, affitta nel ’74 una casetta a Valvins, di fronte a Fontainebleau, riprende nel ’75 la trama dell’eroe silvano, e lo conduce finalmente a compimento.

Segue lo spoiler del libro di Mallarmé: di fronte a una palude della mia amata Sicilia, il poeta immagina un fauno mentre, assaporando persistenti sensazioni erotiche provocate dall’essersi ritrovato in compagnia di alcune ninfe nel frattempo andate via, tenta di tradurle in musica con il “nobile congegno di fughe, maligna siringa”. Praticamente uno strumento ottenuto dall’accostamento di tanti flauti, ognuno accordato in modo da emettere una singola nota, ricavati da segmenti di canna di lunghezze diverse.

Questo particolare strumento, molto usato nella musica andina, viene detto anche flauto di Pan, dio che spesso veniva rappresentato con l’immagine di un fauno. In francese, il flauto di Pan o siringa si dice anche Syrinx. Inutile dire che io veda una certa similitudine tra questo aerofono e un altro a me caro: l’armonica

Nel Booklet di un CD che possiedo (3) contenete il Bolero e Daphnis et Chloé di Ravel, La Mer e il Preludio al pomeriggio d’un fauno di Debussy, nel presentarci la figura di quest’ultimo compositore, Costantin Floros ci ricorda come egli non amasse la definizione di impressionista, ritrovandosi suo malgrado a essere l’autore di un’opera che può essere considerata proprio il manifesto di quella corrente musicale.
Continua poi dicendo che

Non si può negare che tra la sua musica e la sua estetica da un lato, e l’impressionismo pittorico dall’altro, esistono molteplici parallelismi, analogie e relazioni reciproche. Così Debussy trovò spessissimo in impressioni esterne uno stimolo per le proprie composizioni. Le sue opere, molte volte, riproducono in musica delle impressioni visive e acustiche. (…) Il “Preludio al pomeriggio d’un fauno” è considerato, non a torto, l’opera fondamentale dell’impressionismo musicale. La composizione fu ispirata dalla poesia simbolica di Mallarmé “L’après midì d’un faune”

E qui il cerchio si chiude. Pittura, poesia, musica alla  fine del secolo XIX “complottavano” per creare un movimento culturale che ancora oggi fa vibrare col suo carico di significati e rappresentazioni.

Cercando in rete, ho trovato un interessante programma di sala scritto da un certo Ennio Melchiorre il quale ci racconta che il Preludio di Debussy

ottenne un successo immediato, tanto da essere replicato come bis. Non mancarono delle critiche a livello di professori di Conservatorio e uno di essi ebbe a pronunciare un giudizio rimasto storico. «C’est une sauce sans lièvre» (è una salsa senza lepre), disse, perché nel preludio debussiano non ci sarebbe un tema e uno sviluppo tematico, ma soltanto una indefinibile modulazione della frase melodica.

Il Melchiorre continua citando un giudizio di Pierre Boulez sul poema sinfonico di Debussy nel quale, oltre a esservi la spiegazine chiara e sintetica di come mai a più di cento anni dalla composizione del brano, esso ancora ci colpisca intensamente, mi sembra vi sia  un’ottima descrizione proprio di cosa debba essere inteso per impressionismo in musica:

Il flauto del Faune instaura una respirazione nuova dell’arte musicale; l’arte dello sviluppo viene sconvolta ma non quanto il concetto stesso della forma, che liberato dalle costrizioni impersonali dello schema, dà libero corso ad una espressività sciolta e mobile, ed esige una tecnica di adeguamento perfetta e istantanea. L’impiego dei timbri appare essenzialmente nuovo, di una delicatezza e sicurezza di tocco eccezionali; l’impiego di certi strumenti, flauto, corno o arpa, riveste le caratteristiche principali della maniera che Debussy userà poi nelle sue opere ulteriori; la scrittura dei legni e degli ottoni di una leggerezza incomparabile, realizza un miracolo di dosaggio, di equilibrio e di trasparenza.

Il Boulez ritorna ancora nel booklet del CD pubblicato dalla rivista Amadeus. Vi si può leggere l’analisi di Ennio Petazzi che mi sembra il caso di riportare per intero:

La melodia del flauto, all’inizio, si profila senza accompagnamento, sospesa, «così carica di voluttà da divenire angosciosa» (Jankélévitch), di incerta definizione tonale. Il «respiro nuovo» che Boulez sottolineò in questa frase è degno davvero della «sonora, vana e monotona linea» creata dal fauno di Mallarmé sul suo strumento: un arabesco che si libra struggente in un vuoto, in una totale assenza di certezze. Iniziando sempre con la stessa nota, che ogni volta fa parte di un’armonia diversa e assume nuovi colori, il flauto ripete la sua melodia in situazioni instabili e mutevoli, proponendone sottili varianti, che si collegano con logica intuitiva e a poco a poco si discostano dall’effetto di libera, indeterminata, sospesa improvvisazione suggerito dalle prime battute. Le idee che si presentano poi nel corso del pezzo si rivelano affini alla melodia iniziale e possono essere considerate sue derivazioni, dai profili sempre più precisi, fino al momento in cui, esattamente a metà del pezzo, viene presentata una lirica idea in re bemolle maggiore (non immemore forse del Notturno op. 27 n. 2 di Chopin) dal gesto intenso ed espansivo. La sezione centrale, preceduta da un primo «sviluppo», rappresenta nel Prélude il momento meno lontano da echi del passato, fra l’altro wagneriani, ed è caratterizzata dalla tensione di grandi archi melodici e da procedimenti armonici concatenati secondo una logica più familiare: poi si ha un nuovo «sviluppo» e una sorta di ripresa sensibilmente variata.
Essa sfocia in una coda che si spegne e dissolve con la massima delicatezza in un’atmosfera sospesa, come se la musica tornasse all’ombra e al silenzio misteriosamente, come ne era uscita: davvero nel Prélude Debussy appare idealmente più vicino a Mallarmé proprio dove trova gli accenti più inconfondibilmente personali.

Questi aforismi musicali saranno spesso connessi a un inevitabile amarcord personale. In questo caso, non posso fare a meno di ricordare che a farmi conoscere quest’opera è stato mio padre.
Non riesco ovviamente a recuperare il dato circa il giorno di quel lontanissimo periodo della mia storia (sarà stato l’ottantotto o l’ottantanove) in cui mi parlò del Prèlude di Debussy, anche se, stranamente, so quale fosse la fascia oraria: stavamo andando a pranzo, quindi eravamo sulla via di casa, a bordo della nostra vecchia Fiat 500 bianca, un modello degli anni ’70 che – già all’epoca suonava comico – si chiamava Nuova 500.

Non abbiamo mai posseduto un’autoradio, né uno stereo. Proprio in quegli anni comprai per l’enorme cifra di quasi cinquecentomila lire, uno dei primi lettori CD, quello della SONY. L’acquisto, unitamente a due casse da un watt ciascuna (!), risultò essere una vera svolta nella mia vita.

Prima di allora avevo sempre ascoltato musica da audiocassette che, con l’uso continuo, perdevano progressivamente l’intonazione. In alternativa, mi abbandonavo spesso ad ascolti serali nello studio di mio padre, un fan di un canale radio RAI (se non sbaglio, all’epoca era il secondo che rivestiva la funzione che ora è del terzo canale). Avendo fatto quell’acquisto, iniziai a collezionare CD che spesso altro non erano se non la traduzione in questo all’epoca rivoluzionario formato di quegli stessi LP che ascoltavo da zio Francesco.

Di ritorno da un viaggio a Londra, mio cugino Gianluca mi portò in regalo il CD Bye Bye Blackbird di John Coltrane; in seguito, comprai il disco della Deutsche Grammophone contenente i brani che elencavo (con l’unica differenza che vi era la Pavane pour une infante défunte al posto del Bolero presente nell’edizione oggi in mio possesso), diretti da Herbert von Karajan e suonati dai Berliner Philarmoniker. E così, sotto ottimi auspici, iniziò la costruzione della mia discoteca personale.

In realtà, il disco con i brani di Ravel e Debussy non è quello che possiedo al momento, che è un acquisto recente.
Il primo purtroppo non lo trovo più. Aveva una bellissima copertina con la foto del mare al tramonto (aprés midì) che si infrange su una spiaggia e, sempre diretto da Karajan, conteneva la famosa versione di La mer nella quale a un certo punto – se non sbaglio, era nel primo movimento De l’aube à midì sur la mer, dalle parti della sezione 10, lì dove l’indicazione di tempo passa dai 6/8 ai 12/8 – il maestro starnutisce.

Per me, che fino a pochi giorni fa non ho posseduto la partitura del poema sinfonico debussiniano, quello starnuto sembrava quasi essere stato previsto dal compositore il quale, nell’atto estremo di rappresentare la distesa oceanica e il concetto stesso di umido, poteva avere scritto qualcosa fra i righi musicali per suggerire al direttore di esibirsi in una coltissima e sonora esternazione di un certo disagio polmonare.

Dirò di più: se anche vi fosse stata la voce della madre del piccolo Herbert a intimargli di uscire dall’acqua perché si stava raffreddando, l’avrei accettata come il testo del brano (Mogol-Debussy), quindi come parte integrante e necessaria dell’opera.

Quando per la prima volta mio padre mi parlò del Preludio al pomeriggio di un fauno, mi disse che Debussy aveva tratto ispirazione da una poesia di Mallarmé (che lui possedeva, ma che non cercai mai nella sua libreria) e che ascoltando quel brano sembrava quasi di vedere il fauno alle prese con un motivo che gli era venuto in mente durante l’ozio pomeridiano, ma che non riusciva a portare avanti così da dargli una forma e un degno finale. Da qui deriverebbero quindi le numerose ripetizioni del tema principale che, a volte trasportate in tonalità differenti, si ritrovano lungo tutto lo sviluppo del poema sinfonico.

Non so se si trattasse della sua interpretazione al brano o se l’avesse letta da qualche parte. Fatto sta che quell’immagine ancora mi accompagna e, del brano, propongo qui solo la terza volta in cui il fauno di Debussy prova a sviluppare quell’idea, quel pigro cromatismo discendente che ogni volta fa fatica a risalire al Do diesis di partenza e che in sole dieci battute riesce a trovare tutto il tempo e lo spazio per diventare uno dei più famosi periodi musicali della storia della grande musica.

Quel primo incrocio fra diverse esigenze di evocare, tramite un fauno, una silvanità che già a fine ‘800 si andava velocemente perdendo, esigenza manifestata da poeti, pittori e musicisti, si riproporrà nei primi anni del secolo successivo anche nella scrittura teatrale: nel 1913 venne rappresentato Psyché, un dramma in tre atti di Gabriel Mourey tratto dal mito di Pan così come narrato ne Le Metamorfosi di Apuleio (4) con la sola eccezione dell’epilogo: se Mallarmé narra di un assopimento del fauno, Plutarco ne narra la morte e Mourey, nel finale di Psyché, fa sua questa seconda opzione.

La composizione della colonna sonora fu affidata a Debussy al quale Mourey chiese di scrivere “l’ultima melodia che Pan suona prima di morire”. Come ho trovato in una edizione del brano (5), il compositore francese, in una delle lettere con le quali comunicava al regista lo sviluppo del suo lavoro, scrive:

Ancora non ho trovato quello che cercavo… in quanto un flauto che  canta sull’orizzonte deve contenere la sua emozione! Cioè, non c’è tempo per ripetizioni, e una esagerata artificiosità avrebbe l’effetto di rendere rozza l’espressione dal momento che la linea o il pattern melodico non può fare affidamento sull’intervento di alcun colore. La pregherei di dirmi, con estrema precisione, dopo quale verso parte la musica? dopo diversi tentativi, sono giunto alla conclusione che bisogna limitarsi a far suonare il flauto di Pan da solo senza accompagnamento alcuno. Il che è molto più difficile ma più nella natura delle cose

É così che a 150 anni dalla composizione dell’ultimo brano per flauto solo, la Sonata in La minore di Carl Philipp Emanuel Bach, nacque Syrinx, in Si bemolle minore.
In seguito, l’idea tutta mentale che avevo del fauno ha dovuto fare i conti con alcune immagini create da altri nelle quali mi sono imbattuto.

Tra tutte, la mia preferita è quella di Bruno Bozzetto (6) che, a cento anni dalla pubblicazione della poesia di Mallarmé, costruì un meraviglioso cartone animato a commento del poema sinfonico di Debussy. In esso, il fauno è oramai avanti negli anni, ma non si è ancora arreso all’idea della virilità perduta e, eterna vittima dell’”acceso rubino dei seni audaci” che fanno “ancora rubefatta l’aria immota” (Mallarmé), dopo aver incassato i rifiuti di tutte le ninfe che avvicina, si avvia con rassegnazione al tramonto, quindi alla morte, similmente a quanto immaginato da Plutarco per il dio Pan.

Nonostante di immagini ne abbia trovate tante anche grazie alla rete che sul finire degli anni novanta iniziava a colmare lacune nell’ignoranza della mia generazione, decisi di dare una mia rappresentazione musicale e visiva del fauno. Come dice il già citato De Nardis, “è “figura che ha in sé la rappresentazione dell’infanzia del mondo, di un’età primitiva dove la realtà fosse costituita dì possibilità aventi in sé i futuri sviluppi delle forme e degli esseri”. L’Ilaria Mazzuco in un suo libro (7) da poco uscito, descrivendo il dipinto “La morte di Procri” di Piero di Cosimo (1461, 1522), fa notare quanto fosse un tempo negletta la figura del fauno, spesso equiparata a quella del satiro e, come il di Cosimo sembra aver suggerito nel suo dipinto, da rivalutare in alcuni suoi aspetti decisamente positivi.

Tra Mallarmé, Debussy, Bozzetto, Di Cosimo, ma anche Bénigne Gagneraux, William-Adolphe Bouguereau, il Correggio e altri numerosissimi esempi di rappresentazioni letterarie, musicali, piittoriche di satiro-fauno rinvenibili in rete e non solo, si completa abbastanza il quadro delle varie interpretazioni date a questa figura.

L‘evoluzione ulteriore della sua immagine selvatica (e per questo fin troppo gaudente, secondo certa cultura da sempre attenta a deprimere spontanei “inni alla gioia” per privilegiare lo svilimento della carne e del nostro essere anche animali), nata in grecia come satiro e proseguita nella cultura latina come fauno, si può cogliere nella traduzione credo medioevale datane dalla cultura cristiano-cattolica. In qualche oscuro momento storico, si è provveduto a sovrapporre alla quasi sempre innocua divinità silvana, l’immagine del diavolo, quindi del male assoluto, sempre dotato di corna, occhi, orecchie, coda e zampe di capra.

copertina-quanta-copiaÉ possibile trovare sia una rappresentazione musicale (il mio brano intitolato proprio Fauno) che una visiva di quel personaggio mitologico anche nel mio primo disco Quanta (8), un CD tutto suonato in solo e che ho registrato nello studio dell’amico Pasquale Morgante per poi pubblicarlo nel 2000 con la casa discografica M.A.P. di Milano. In seguito è stato ripubblicato dall’agenzia modenese Le Muse Group e in esso, tutti gli echi delle raprpesentazioni, fatta esclusione per quelle in connessione col male, sono confluiti come un fiume in piena.

Il libretto di Quanta era essenzialmente un leporello, un termine di cui fino all’anno scorso non conoscevo l’esistenza e che sta a indicare un lungo foglio ripiegato a fisarmonica, che si legge dispiegandolo per intero e non sfogliandolo come un libro. Una volta aperto, su di un lato si trovano le foto che mi furono scattate da un altro amico, il bravissimo Mauro Cionci (http://www.nikonphotographers.it/maurocionci), mentre sull’altro vi è una specie di storia che ho narrato con poche parole e con quattro illustrazioni originali.Fauno-low

Tra queste, vi sono un calamaro gigante (giant SQUID!) che affiora in superficie e il fauno che trovate qui di fianco.

Si tratta di un mio autoritratto col quale intendevo rappresentare un mio profondo desiderio di suonare la Natura e la Fisica che usiamo per colloquiare con essa , idea che sosteneva l’intero disco.

Non mi resta che augurarvi un buon ascolto (chiedo scusa se, come noterete, l’ancia del DO nel terzo spazio a battuta 5 mi abbandona preferendo emettere una nota tendente al SI…) e un buon divertimento nel provare a seguire col vostro strumento in Do le note che ho riportato nello spartito allegato, del tutto simile a quello dell’edizione Dover (9) delle opere orchestrali di Debussy.

SZ

(1) Mallarmé, Stèphane, Il pomeriggio d’un fauno, a cura di Paolo Manetti, Einaudi;

(2) Luigi de Nardis, L’Ironia di Mallarmé, Sciascia, Caltanissetta, 1962;

(3) Ravel, Bolero, Daphnis et Chloé, Debussy, La mer, Prèlude à l’après-midì d’un faune, Berliner Philarmoniker, Herbert von Karajan, Deutshe Grammophone

(4) Apuleio, Le metamorfosi o l’Asino d’oro, Einaudi;

(5) Debussy, Claude, Syrinx (La Flute de Pan), Wiener Urtext Edition, Schott/Universal Edition;

(6) Bozzetto, Bruno, Allegro, non troppo

//www.dailymotion.com/video/x23rx9f_prelude-a-l-apres-midi-d-un-faune_creation

(7) Mazzuco, G.  Ilaria, Il Museo del Mondo, Einaudi

(8) Adamo, Angelo, Quanta, MAP, 2000

Lo si può trovare in vendita alla seguente pagina:

http://www.jazzos.com/products0.php?artist=502134&module=artists&cat=TOP&search_type=artist&search_string=angelo+adamo

(9) Debussy, Claude, Three Great Orchestral Works, Dover

http://www.flaminioonline.it/Guide/Debussy/Debussy-Preludefaune.htmlhttp:

L’amore ai tempi di Interstellar

Lancio sentimentale - mia illustrazione pubblicata per la prima volta sulla rivista SISSA News. house-organ della S.I.S.S.A. di Trieste

Lancio sentimentale – mia illustrazione pubblicata per la prima volta sulla rivista SISSA News. house-organ della S.I.S.S.A. di Trieste

Sono finalmente riuscito ad andare a vedere Interstellar.
Immagino che, dopo aver fatto di recente una polemica con quanti lo denigravano sine ulla spe (https://squidzoup.com/2014/11/20/un-film-fantascientifico-avvincente-e-scientificamente-esatto-fallo-tu/), ci si aspetti che io sia coerente almeno con me stesso affermando di averlo gradito senza se e senza ma.
Ebbene, correrò il rischio di risultare poco propenso a contraddirmi, scrivendo che sì, mi è piaciuto davvero tanto. É sembrato anche a me di notare delle falle nell’impianto narrativo, alcune piccole, altre più grandi. Sulle piccole sorrido (e non rido sarcastico) in quanto mi sembrano, strano a dirsi, semplici sviste registiche. In particolare, ne cito una notata da mio cugino, Gianluca Barbaro: la navicella che necessitava del passaggio offerto dal razzo vettore per arrivare in orbita attorno alla Terra, è la stessa che riesce ad evitare l’arrivo dell’onda sfuggendo addirittura fin oltre l’atmosfera di un pianeta con una gravità superiore del 30% rispetto a quella della Terra.
Sulle incongruenze più grosse, sospetto che qualcosa mi sfugga per il semplice motivo che, non essendo un relativista, ritengo normale non capire ciò che deriva dalla drammatizzazione di un calcolo raffinato eseguito da Thorne.
Insomma, sono più portato a pensare che, se qualcosa non mi torna, non è che non torni in generale. No, piuttosto credo che non mi risulti chiara solo a causa della mia ignoranza.
Lascerei quindi il compito di imbastire circostanziate polemiche a chi se ne intende (ma che se intenda davvero…) di Relatività Generale; a chi se ne intende davvero di cinema e soprattutto a coloro, se ve ne sono – immagino siano un sottoinsieme minuscolo dei tuttologi – che se ne intendono di rapporti tra Relatività e Cinema.
Della storia non ho gradito (o forse non ho capito…) molto la teoria sull’amore come collante cosmologico, ma direi che ci stava. Anzi, direi che, pur essendo un film americano, sono stati bravi nel limitare, se non addirittura a evitare, le solite sequenze melense a base di bandiere a stelle e strisce innalzate, mani sul cuore e frasi come “Dio lo vuole” & affini.
Ho sempre trovato simili scene fastidiosamente gratuite, o meglio, necessarie solo per un pubblico statunitense: un pubblico che alle elezioni vota il candidato con la camicia più bianca di quelle degli altri, quello che si fa riprendere mentre con la famiglia al completo va a messa alla Domenica per poi recarsi alla partita di baseball o a mangiare il tacchino nel giorno del ringraziamento (lo so, lo so: sto parlando di un modello politico che è da tempo anche italiano, se non addirittura europeo).
In questo, Interstellar mi è sembrato più equilibrato di tantissimi altri film e immagino che, per lo stesso motivo, a molti sia risultato carente di una per loro “necessaria” dimensione spirituale. Quella c’è, ma una volta tanto, dimostrando forse una certa furbizia, non è stata rimarcata troppo la matrice protestante o cattolica, lasciando così che tutti i fruitori del film possano intravedere il proprio sfondo religioso dietro le scene più riconducibili all’entusiasmo (*).
Due aspetti, lo confesso, mi hanno davvero colpito in modo speciale.
Il primo è la rappresentazione del buco nero che, non a caso, dicono essere la migliore mai elaborata fino a oggi seguendo i dati scientifici a nostra disposizione. Ancora ora, ripensandoci, trovo quelle scene terrificanti e tremendamente affascinanti (volevo scrivere “attraenti”, ma mi sembrava un po’ pleonastico…). Insomma, roba da far tremare i polsi di paura, regalando al contempo un fortissimo desiderio di essere lì a orbitare  attorno al “mostro” per ammirare la bellezza struggente, ipnotizzante di una manifestazione così estrema della Natura.
Mi immagino per un attimo col cappellino a zuccotto tenuto con la visiera sulla nuca, col cappuccio sulle spalle e i jeans “a cacarella”, mentre mi batto il petto con il pugno proprio come un qualsiasi ridicolo simil-rapper de noantri, urlando Respect! alla volta del buco nero davanti a me.
La seconda è l’insostenibile malinconia, una lacerante disperazione, che mi ha assalito pensando al distacco dagli affetti che comporta un viaggio nel cosmo come quello intrapreso dal protagonista.
Sempre in quel primo articolo che ho scritto pochi giorni fa su Interstellar, parlavo di come la vita mi sia cambiata a partire da d.G., ovvero dopo la nascita di Giovanni. Quando ancora vivevo nell’a.G., una fase durata ben quarantaquattro anni, pensavo e affermavo, ostentando una incrollabile sicurezza, che non avrei mai esitato a partire, a lasciare il pianeta sul quale da sempre vive il genere umano, se mai mi fosse stata offerta l’opportunità di viaggiare nel cosmo.
Sin dalle prime scene del film invece, in un crescendo abbastanza rapido da pp a ff (notazione musicale per pianissimo e fortissimo), ho intuito quanto fosse cambiato nel frattempo il mio stato interiore; ho realizzato quanto tutto sia mutato a partire da quel d.G.. Non voglio rischiare di nuovo di essere frettolosamente spocchioso nell’ipotecare il futuro: temo la possibilità di trovarmi di nuovo al cospetto di simili, imbarazzanti cambi di convinzioni. In ogni caso, oggi credo proprio che tentennerei alla Quinto Fabio Massimo, snervando la NASA o chi per lei, di fronte all’offerta di partire per un viaggio nel cosmo che non mi faccia rivedere più mio figlio o che mi faccia tornare sulla Terra trovando in lui un mio coetaneo; peggio, un irriconoscibile vecchio che porta il suo nome, prossimo alla morte.

Diciamola tutta: oggi come oggi, credo proprio che rinuncerei.

Ecco, questo film, oltre ad avermi confermato più di tanti altri il vero fascino dell’universo, un fascino tutto racchiuso nella sua esagerata incomparabilità con la nostra dimensione microbica, mi ha fatto intenerire pensando a quanto siamo legati a questa scheggia cosmica sulla quale poggiamo.

Dipendiamo da essa per l’aria, l’acqua, la luce, …,  finanche per la nostra storia e le dinamiche interpersonali che solo qui hanno senso. Sì, vero: continuano ad averlo in orbita e basta osservare come molti di noi si sono emozionati e commossi, addirittura, seguendo ieri il viaggio della nostra fantastica Samantha Cristoforetti.

Ma già pensare di andare più lontano della Luna, piuttosto che far sentire la potenza dei sentimenti così come descritti nel film, sentimenti capaci di vincere il cosmo unendo chi è distante, credo metta in evidenza la nostra inadeguatezza a stare da soli, senza i nostri affetti, senza la nostra storia, quella personale come quella di tutta l’umanità.

Esiste una sfera di Dyson, un raggio di Swarschild, quindi un orizzonte degli eventi. Esiste pure una sfera di Marconi-Berlusconi-Murdock, come racconto nel capitolo dedicato alla Terra del mio Pianeti tra le note (**), ma la sfera dei sentimenti mi sembra avere un raggio paragonabile a quella di una sottile membrana abbastanza attillata alla superficie di questo globo terracqueo. Qualcosa di così limitato da non poter certo arrivare fin su un’altra galassia.

Oltre quella sottile membrana, quindi molto prima di arrivare a vedere mondi lontani, sospetto che verremmo smembrati dalla disperazione. All’impossibilità di una comunicazione sentimentale con i nostri cari, temo corrisponda un veloce disfacimento organico, un rapido disentanglement emozionale, quindi biologico. E lo temo nonostante io abbia sempre amato la solitudine, in barba a una certa ostentata capacità di stare in compagnia, qualcosa che mi riesce bene, ma solo per limitati intervalli di tempo.

Le motivazioni evoluzionistiche per una simile dinamica psicosomatica, se fosse reale (sarebbe bello se qualche psicologo o antropologo intervenisse a spiegarmi qualcosa che non so, ma che riesco solo a immaginare), potrebbero essere facilmente spiegabili. Se sono nel giusto, si tratterebbe di un circuito innato utile a garantire protezione dei figli di alcune specie animali: quelle che, rispetto ad altre, tardano a emanciparsi dal controllo e dall’assistenza dei genitori.

Per lo stesso motivo, privarsi o essere privati della possibilità di assistere i propri figli credo metta in moto una serie di meccanismi capaci di “punire” il genitore per spingerlo a ripensarci, a tornare sui propri passi e desistere dall’attuare l’abbandono. Una simile punizione potrebbe arrivare a toccare, dopo la sfera mentale, anche quella biologica, punendo il corpo fino a deprimerlo.

Anche per eremiti incalliti, i cento anni di solitudine vagheggiati dal già citato Marquez sarebbero probabilmente troppi, specie in relazione al differente trascorrere del tempo in diversi sistemi di riferimento. Qualora si riuscisse, come nel film, a tornare a baita (così forse direbbe un Rigoni Stern interspaziale di ritorno da una campagna di guerre stellari), si troverebbe un’umanità del tutto diversa da quella che si è lasciata.

Le distanze cosmiche possono essere così esagerate da rendere ridicolo qualsiasi sentimento umano che qui da noi è forse anche troppo potente ed esaltato (potente perché esaltato?), ma che viene offeso, triturato, spaghettificato, atomizzato, dissolto da paesaggi planetari che non ci appartengono affatto, mettendo in evidenza l’incompatibilità tra quei nuovi contesti e il nostro cervello con tutto ciò che prova.

Di sicuro la nostra dimensione umana è destinata in futuro a cambiare, ma al momento credo che non ci sia data altra possibilità oltre quella di rivestire il ruolo di osservatori attenti della fetta di Universo godibile da un qui esteso poco più di 384.000 cholometri (distanza media della Luna).

Il film sembra quasi dirci che o ce andiamo in tanti (per non dire tutti) come avveniva nei romanzi alla Universo di Heinlein, così da mantenere quella rete (di protezione) di relazioni affettive, o è meglio che non lo faccia nessuno, pena la follia, la disperazione, la solitudine che non può nemmeno essere urlata. Non a caso, la stazione spaziale nella quale si trovano tutti alla fine del film è una classica realizzazione “sintetica” della Terra, un’idea risalente all’epoca aurea dei vari Chesley Bonestell e Stanley Kubrick.

Forse capiremo qualcosa di più quando riusciremo a inviare quei famosi coloni su Marte di cui parlavo in uno dei primi post di questo blog (https://squidzoup.com/2013/04/23/nuoverrimo-mondo/).

Forse no.
Intanto, riassumendo, confermo che Interstellar mi è parso un gran film.
Americano per effetti speciali, ma franco-polacco per alcuni effetti psicologici che ancora perdurano dentro di me.

Vorrà per caso dire che stavolta gli americani hanno dimostrato di essere stati toccati da un certo modo europeo di fare film? Sarebbe simpatico scoprire che al di là dell’oceano Atlantico, Intestellar venga percepito come un'”europeàta”, intendendo questo neologismo alla stregua del nostro negativo “americanata”.

Se ho ragione, non è così peregrina l’ipotesi che sia stato anche questo discostarsi da alcuni cliché del cinema statunitense ad aver contribuito a far nascere certe critiche totalmente negative incassate dai due Nolan & Co.

SZ

(*) Il termine “entusiasmo” deriva dal greco antico enthusiasmòs, formato da en (in) con theos (dio). Letteralmente si potrebbe tradurre con “con Dio dentro di sé”, o “indiamento”, “invasamento divino” – fonte: wikipedia

(**) Pianeti tra le note – appunti di un astronomo divulgatore, Springer, 2006

http://www.springer.com/astronomy/popular+astronomy/book/978-88-470-1184-7

Dialogo sui minimi e medi sistemi del mondo

Seconda pagina La treccia del tempo

Domani, Venerdì 21:00, alle 22:00, subito dopo lo spettacolo teatrale “Appuntamento al limite – Il calcolo sublime” di e con Maria Eugenia Aquino, presso il teatro Oscar, via Lattanzio 58 a Milano, …

(pausa per prendere fiato… Fornire a parole le coordinate esatte di un evento è faticosissimo. Sarebbe bello se esistessero dei comodi e sintetici vettori letterari!)

… mi farò una pubblica chiacchierata con l’amico Stefano Sandrelli, astrofisico (e) divulgatore che lavora all’INAF – Osservatorio di Brera (Mi).

Argomento del Bi-Battito è il seguente:

GLI INFINITI MONDI: IL COSMO COME LABORATORIO SOCIALE

Giordano Bruno l’aveva detto: “non è un sol mondo, una sola terra,
un solo sole; ma tanti son mondi quante veggiamo circa di noi
lampade luminose”. Negli ultimi 19 anni sono stati identificati
1138 sistemi planetari, per un totale di 1760 pianeti.
Con un po’ di fantasia, possiamo immaginare molti mondi abitabili
e molte civiltà diverse, trasformando il cosmo in un laboratorio
sociale: un altro mondo è possibile. Dove, però, non è dato sapere.

Spero si rivelerà interessante anche per il confronto tra l’approccio alla divulgazione scientifica  di Stefano e il mio; due modi che, a volte simili se non addirittua sovrapponibili, più di frequente risultano essere complementari.

É probabile anche un mio contributo musicale alla serata.

A domani!

SZ

 

http://pacta.org/produzioni/in-scena-2014_2015/teatroinmatematica/programma-teatroinmatematica-scienzainscena/

Un film fantascientifico avvincente e scientificamente esatto? Fallo tu.

Una mia illustrazione (Martina la tremenda sfugge al Buco Nero) tratta dal libro Astrokids a cura di Stefano Sandrelli e Luara Daricello e pubblicato dalla casa editrice Scienza Express, 2014

Una mia illustrazione (Martina la tremenda sfugge al Buco Nero) tratta dal libro “Astrokids” di Stefano Sandrelli e Laura Daricello e pubblicato dalla casa editrice Scienza Express, 2014

Quando faccio pausa pranzo, vado a mangiare un panino in un bar adiacente al plesso dove lavoro. Nella stessa struttura vi è anche il dipartimento di Fisica e questo fa sì che sia molto probabile incontrare davanti alla vetrinetta dei cibi preconfezionati e appena sfornati, colleghi che lì lavorano.

Quando si tratta di fisici, me ne accorgo dai discorsi che capto grazie al ridotto spazio nel quale tutti ci muoviamo, bella metafora delle nostre reali condizioni di vita che ridimensionano gli spazi mentali nei quali riteniamo di sguazzare.
E quando un film come Gravity o come Interstellar esce nelle sale, il volume delle discussioni “sale” anche lui: consciamente o inconsciamente, credo possibile che chi studia a fondo quelle materie che da noi si affrontano, ritenga simili circostanze ideali per ritagliarsi un ruolo, per darsi un’importanza.

Mi sembra quasi di sentire le persone pensare – forse perché a volte penso qualcosa di analogo anche io (nihil humani mihi alienum est…) – “noi siamo quelli il cui punto di vista su una questione inerente quel film famoso, infarcito di matematica/fisica/…, è il migliore che ci sia. Come mai nessuno ci interpella?”
Io il film non l’ho ancora visto, ma conto di colmare presto la lacuna.
Da sempre più che appassionato di fantascienza, soprattutto quella spaziale con astronavi e paesaggi cosmici (che strano, vero?), quando un film del genere esce nelle sale, mi precipito a vederlo.

Nella storia umana c’è un punto importante: la data presunta della nascita di Cristo (presunto anche lui). Bene, nella mia c’é la nascita di Giovanni. E c’è un a.G. e un d.G.
Quando vivevo nell’a.G. (che non corrisponde certo all’”agio”), potevo andare a cinema quando mi pareva. Ora purtroppo no. Mi rifarò in futuro.
Dicevo, io il film ancora non l’ho visto, ma ho sentito e letto diversi pareri. La mia non sarà quindi una recensione, né una peer review. Piuttosto sarà una pre-review fatta agli scienziati che parlano di film di fantascienza & affini.
Per quelli un po’ vanesi tra noi astronomi, fisici, astrofisici, alla ricerca di consensi tra amici, conoscenti e persone che si incontrano al bar, appunto, un film come Gravity o, peggio, come Interstellar, è quasi sempre da criticare negativamente.
Il fisico/astrofisico/astronomo vanesio ne sa sempre di più di chiunque altro, di default.
Questo è un nuovo mistero della fede, quindi qualcosa che nella nostra cultura dovremmo essere stati abituati da un bel po’ ad accettare senza discutere.
E scoprire di avere credito davanti a un uditorio (in questo caso quello del bar, quindi non importa se si tratti di un pubblico qualificato o meno) pur sapendo di star sfidando proprio nel suo campo, in contumacia, un riconosciuto esperto mondiale come Kip Thorne, ci fa sentire come Davide che sfida Golia e, perché no?, magari che lo abbatte con un semplice sasso.

Quasi nulla di nuovo: il bar è da sempre il luogo dove si incontrano esperti di politica, di calcio, di medicina legale… L’astrofisico è una novità che può anche attecchire e credo non sarebbe male litigare per derby cosmologici davanti a un caffè e a una Gazzetta dello Sport.
Lui, il fisico da bar, è uno che di solito, a partire dalla fine del liceo non ha studiato altro che la sua materia, ma sa applicare Bernoulli e conosce l’elettromagnetismo e la meccanica quantistica, ergo sa fare tutto. É un Chuck Norris della cultura, non conosce la paura e non conosce la pietà (cit.).
Se lui, il fisico/astrofisico/astronomo vanesio finalmente dice che qualcosa va bene, statene pur certi: va bene.
Se invece il suo pollice è “verso”, nascondetevi. Il suo sguardo critico ha calcolato esattamente il grado di probabilità che, voi che non sapete la fisica, nella vita commettiate errori madornali. E scopre che questa probabilità è pericolosamente alta.
Questa consapevolezza che le cose spesso vanno così, mi fa un po’ vergognare per tutte le situazioni in cui è capitato a me – che proprio perché divulgatore, un po’ vanesio sono e devo esserlo – di avere simili atteggiamenti. Tremo, poi, di fronte alla possibilità di sorprendermi in futuro a comportarmi così anche fuori dal lavoro. Spero che quanto scrivo serva da scuse anticipate per quando risulterò così tanto ridicolo, se non offensivo. C’è però un lato divertente della faccenda, è innegabile, e invito tutti a sorridere bonariamente della categoria degli “scienziati”. A loro discolpa, posso giurare che certi modi di fare nascono anche da una immensa passione per ciò che studiano.
Comuqnue, mentre divoravo il mio panino con speck gorgonzola e rucola, sorridevo tra me e me sentendo i commenti di questi tre colleghi seduti alle mie spalle. Erano più che certi che il film fosse pieno di errori e trovate molto improbabili e pensavo di conseguenza “Quasi quasi risparmio i soldi e non vado a vederlo. ‘sti tre avranno sicuramente ragione: cavolo, sono fisici!”.

Fin qui nulla di nuovo e di grave. Semplice routine che vale una risata col beneficio del dubbio: e se su quel particoalre aspetto del film, avessero ragione loro? Tra l’altro, agli autori di Interstellar non è certo sfuggita la presenza di qualche problema e so per certo che nel libro “The science of Interstellar”, simili questioni vengono affrontate nel dettaglio, mostrando a quale processo di adattamento bisogna sottoporre un’idea scientifica per poterne trarre un film che risulti bello secondo i canoni di bellezza universalmente (= mondailmente…) riconosciuti.
Poi trovo citato su Facebook l’articolo di un tale che scrive su una rivista on-line e scopro che lui non si limita solo a trovare alcuni difetti (al di là di quelli riconosciuti anche dagli autori, immagino che quel film ne abbia tantidi più, come qualsiasi altra cosa a ‘sto mondo) in Interstellar.

Assolutamente no: lui ritiene che, oltre a essere un’opera completamente errata sotto tutti, ma proprio tutti i punti di vista, essa sia addirittura diseducativa.
La sua inscalfibile certezza, data dall’autodefinirsi “scienziato” senza tema di mancare di umiltà, lo porta a discettare di relatività come se ne mangiasse dei chili anche a pranzo, mettendola nei panini proprio lì dove io invece ho chiesto al buon Davide Pancaldi di mettere solo rucola, gorgonzola e speck. “Chissà”, penso, lasciandomi aggredire dai sensi di colpa, “forse rinunciando allo speck, un po’ di spazio per un tensore o per una varietà differenziale ogni tanto lo troverei…”.
Leggo velocemente quell’articolo in un crescendo di nervosismo che mi porta a non notare un passo illuminante; quello che invece nota subito un mio amico e collega, facendo scattare all’istante un’allarme nella sua testa evidentemente più attenta della mia: l’autore a un certo punto denuncia un certo moralismo di stampo darwiniano presente, a suo dire, in un passo del film.

Persona dall’immensa cultura scientifica che di mestiere fa il cosmologo e che trascorre buona parte del suo tempo libero a leggere i classici greci e latini… in greco e latino (lo dico solo per aiutarvi a inquadrare il personaggio), il mio collega connette subito quelle tre paroline a una possibile sponsorizzazione dell’articolista: “mi sa che chi scrive è un cattolico”, mi dice, giustamente contento di essere riuscito a fare un’ipotesi verisimile per l’origine di tanto astio nei confronti di film e autori.
Segue subito una veloce indagine che rivela come l’autore dell’articolo abbia studiato filosofia della scienza, materia che insegna… in una università cattolica.

Al di là di una banale critica al metro cattolico, un metro che considero del tutto inadeguato a misurare scienza e fantascienza, mi sembra di scoprire che quel difettuccio di fabbricazione che spesso noi fisici, astrofisici, astronomi, … abbiamo, può arrivare anche a colpire in modo molto più grave chi vive in ambiente filosofico.

Dopo aver tante volte sostenuto l’importanza di possedere una reale e non millantata conoscenza della filosofia della scienza, una conoscenza che andrebbe a parer mio considerata fondamentale anche e soprattutto negli ambienti scientifici, scopro che forse vi è anche un ulteriore problema: quello di una pericolosa presunzione di conoscenza della scienza negli ambienti filosofici.
Insomma, se ho ragione, nessuno di noi mi pare salvarsi
Tutta la vicenda sembra lasciar trapelare solo tanta, tanta rabbia intellettuale che si esprime attraverso sfide al “pistolero Thorne”, il più veloce del far west, lanciate standosene però molto “far” da lui: è molto improbabile, infatti, che l’articolista incontri l’astrofisico Thorne per chiedere soddisfazione nel suo campo che, detto per inciso, è proprio la fisica dei buchi neri.

Ma come mai parlo ancora di Thorne in questo discorso? Perché sembra che sia colui che ha scritto di recente quel nuovo libro sui buchi neri che ho citato più su, divenuto base di partenza concettuale del film Interstellar.

Il mio collega che sta leggendo anche il suo libro (e che, detto per inciso, ha gradito moltissimo il film), mi racconta che l’astrofisico americano è stato nominato consulente scientifico dalla produzione; che ne è divenuto lui stesso co-produttore e che ha avuto la lungimiranza e l’umiltà, oltre che di interfacciarsi di continuo col regista, di chiamare a raccolta anche esperti di altre discipline per capire, ad esemprio, quanto lo scenario di inizio film, quello che, come ho letto, ha che fare con un’epidemia che distrugge i raccolti sulla Terra, si possa verificare in un futuro non molto lontano (il Darwin che risulta sempre indigesto ai cattolici è tutto contenuto qui, nella parte iniziale del film, casus belli della vicenda)

Mi sembra ovvio che Interstellar, essendo un film, debba discostarsi da un articolo scientifico così da poter parlare di storie umane che si intrecciano con la fisica. Se si vuole che il film possa essere fruito anche dai biologi e da filologi; da autisti e da cuoche, … così da avere molte chances di vincere al botteghino, non c’è alternativa: le regole dello storytelling vanno rispettate.

Vanno benissimo le critiche, avvedute o meno che siano. Criticare è un gioco intrigante tipicamente umano; è importante farlo e se qualcuno si espone producendo qualcosa da esibire in pubblico, sa che potrà riscuotere applausi e fischi. Fa parte del gioco, di un bellissimo quanto antico gioco.
Se c’è qualcosa che non mi torna è che si possa arrivare a stroncare totalmente un film che altri trovano accettabile, altri ancora stupendo. Credo sia alquanto improbabile una critica negativa che vada a toccare con millantata e chirurgica competenza il film in quanto film, i dialoghi in quanto dialoghi, gli attori in quanto attori, la fisica in quanto fisica…
Qui credo si voglia piuttosto sdoganare il concetto che, dalla fisica alla cinematografia, passando dalla sociologia, dalla pedagogia, dall’epidemiologia, dalla musica (chissà se la colonna sonora era  almeno all’altezza del gusto di chi ha scritto quella recensione…), nulla ha segreti per quell’epistemologo. Allora mi vien da dire, sfidandolo, nonostante sia molto probabile che io lo incontri di persona: “Non perdere l’occasione. É il tuo momento: il prossimo film, campione di incassi e di critiche positive, fallo tu che sei bravo e sai esattamente come fare”.

SZ

 

P.S.: Mi è stata segnalata questa pagina:

http://qz.com/299334/shut-up-about-the-inaccuracies-of-interstellar/

Inutile dire che condivido

 

Aforisma 1: Stan Getz Dixit

Solo-o-grande-amor

L’assolo di Stan Getz sugli accordi di O grande amor fa parte di quella lunga serie di idee che hanno condizionato il mio modo di intendere la musica in generale e il jazz in particolare.

Contenuto in un disco storico, lo ascoltavo quando capitava di andare a casa dei miei zii Francesco e Ornella. Lui aveva una collezione invidiabile di LP dalle bellissime copertine e Getz-Gilberto era uno dei suoi, quindi dei miei, dischi preferiti.
Come si evince facilmente dal titolo, in quel vecchio 33 giri suonava il sax del musicista statunitense il quale ricamava incredibili melodie impiegando solo una frazione del fiato da lui insufflato nello strumento. Il resto finiva tutto ai lati dell’imboccatura – almeno questa è l’impressione che ancora mi regala l’ascoltarlo – dando alle note del suo tenore un’”aura d’aria”, un “soffiato” che ne addolciva ulteriormente il suono.
Sulla scorta dell’entusiasmo che quella registrazione mi aveva suscitato, ho ascoltato altri dischi di Getz e uno, quello registrato in duo con Bill Evans dal titolo enigmatico (Stan Getz & Bill Evans), l’ho pure comprato a scatola chiusa: due nomi del genere non potevano che essere garanzia di goduria uditiva!
Ho così scoperto che la magia del suono e delle idee di Getz sono per me contenute solo in quel primo disco con Joao Gilberto alla voce e alla chitarra, Antonio Carlos Jobim al piano e con la voce aggiuntiva di Astrud Gilberto. Negli altri suoi LP, il mondo di Getz non mi piacque affatto e il mio rifiuto per la poetica in essi contenuta mi faceva risultare il suono di quel sax acidulo, addirittura. Mi ricordava quello grezzo e immaturo di un sassofonista classico alle prima armi, quindi non certo meritevole di un ascolto prolungato.
Come si può intuire, il problema stava in me e non certo nel modo di suonare di Getz anche se credo che mai come in quel disco, la grandezza di un musicista si sia rivelata essere il frutto non solo della sua personale genialità, ma soprattutto dell’incontro fortunato con altre menti, con altri pensieri affini al suo quali di sicuro sono stati quelli dei sudamericani su citati (Getz aveva una certa predilezione per le atmosfere bossa nova).
A rendermi difficile accettare altri suoi dischi che non fossero quello, vi era anche l’unicità dell’atmosfera gioiosa di molte domeniche con nonni, zii e cugini (da quegli ascolti sono nate professionalità nella musica per ben tre di noi nipoti…) di cui Getz-Gilberto era spesso colonna sonora. Evidententemente gli altri lavori di Getz presentavano tutti lo stesso problema: non erano presenti in quella particolare discoteca, disponibili per sottolineare grandi abbuffate condite da risate e chiacchiere rilassate. Capitava spesso che i sottofondi musicali di quelle Domeniche fossero brani di musica classica (di alcuni di essi parlerò prossimamente) per i quali, guarda caso, vale lo stesso discorso fatto fin qui a proposito di Getz/Gilberto.
Qualsiasi sia stata l’origine della magia nata attorno a quell’LP che ho ascoltato fino alla noia, ancora oggi risulta per me così tanto importante da voler iniziare una nuova rubrica di aforismi musicali del mio blog proprio con quelle note.
Tempo fa trovai un libro con le trascrizioni di alcuni assoli di Getz e, con mia grande sorpresa, scoprii che molte erano tratte da brani contenuti nell’LP citato. Mi sa che in futuro proporrò altri pensieri getziani prendendoli da lì.
Purtroppo tra i brani di quel disco scelti dal trascrittore, non vi era O grande amor, il mio preferito, ed è per questo che mi sono sentito chiamato in causa: dovevo colmare una lacuna facendo l’esercizio che tutti i didatti dicono essere fondamentale per la formazione del giovane jazzista (chiaramente qui si parla di me…).

Ho anche un altro bellissimo ricordo connesso con O grande amor. Moilti anni fa, giravo con un gruppo di Bari che proponeva un repertorio interamente brasiliano. Paola Arnesano ne era la bravissima cantante e ad accompagnarla, oltre me all’armonica, c’erano Guido di Leone, chitarrista col quale ho registrato My Foolish Harp (RED RECORDS, 2009) e l’ultimo The Night Has A Thousand Eyes (Fo(u)r, 2014); Paolo Romano al basso elettrico, Michele Vurchio alla batteria.

All’epoca proposi di aggiungere anche questo brano di Jobim al già nutritissimo repertorio di Paola e Guido. Accettarono di buon grado e così coronai il sogno di suonarlo e di farlo nel contesto giusto, sperando ogni volta (invano) di essere capace di creare con la mia piccola cromatica una magia degna di quella di Getz.

In O grande amor, il suo tenore sembra quasi suonare un’improvvisazione tematica, andando a costruire una linea melodica che definirei “necessaria”. Mi dà quasi l’impressione di essere in presenza di un brano nel brano: un pensiero musicale così lucido e pulito da riuscire a competere – forse vince, addirittura – con la bellezza del tema propriamente detto.
Nonostante sia una linea molto semplice da suonare, si scopre che rendere con una trascrizione le reali intenzioni del solista sia cosa per nulla banale. Si considerino pertanto le note che ho trascritto soltanto come una traccia utile per provare a suonare a unisono con il grande Stan Getz usando uno strumento in C come la mia armonica cromatica.

L’intero brano è da suonare attuando un lungo legato tra note e frasi. Mentre sul sassofono e su tutti gli altri strumenti a fiato è un effetto abbastanza facile da ottenere in quanto le dita selezionano di seguito le note ponendole su un’unica, lunga emissione d’aria, sull’armonica risulta molto più difficile, a tratti impossibile, a causa dell’alternanza di note soffiate e aspirate che spezza il flusso d’aria. Altra raccomandazione: meglio non provare a suonarlo in presenza di figli piccoli, specie se muniti di trombetta. 🙂

SZ

http://it.wikipedia.org/wiki/Stan_Getz

Album: Getz/Gilberto

http://grooveshark.com/#!/profile/Stan+Getz+and+Jo+o+Gilberto/22192087

Visioni del futuro VS immagini del passato

Guardare-avanti-prima

4-Guardare-avanti-nuova-seconda-definitiva

 

 

3 Guardare-avanti-terza-definitiva

Guardare-avanti--nuova-quarta-definitiva

 

5 Guardare-avanti-quinta-definitva

SZ

Biblio-web-grafia:

Euclide, Ottica, a cura di Francesca Incardona, Di Renzo Editore

http://www.direnzo.it/dett_libri.php?recordID=8883232626

Congresso di Solvay, 1911

http://en.wikipedia.org/wiki/Solvay_Conference

Sottofondo: Bach, Passione S.Giovanni

http://grooveshark.com/#!/album/J+S+Bach+Chorale+Masterpieces/5385960

Gli Atti del Convegno “Comunicare Fisica 2012”!

Spettro-Elettro-Pubblico

Sono usciti oggi gli atti di un bellissimo convegno, parlo di ComunicareFisica 2012, al quale a suo tempo ho partecipato.

In quell’occasione, ho tenuto due talk: nel primo, descrivevo il mio spettacolo Storie di Soli e di Lune, mutuato dal mio omonimo libro di racconti uscito per i tipi della Giraldi nel 2009, focalizzando l’attenzione sulla strategia comunicativa che adotto ogniqualvolta lo porto in giro in osservatori, planetari, università, associazioni culturali, scuole.

L’altro intervento, invece, intitolato Bias genitoriale, verteva su una attività di divulgazione astronomica organizzata allo storico Osservatorio da 60 cm di Loiano e pensata espressamente per bambini molto piccoli (2 < età bimbo < 6).

Ricordo che il gruppo di Didattica & Divulgazione dell’INAF – Osservatorio di Bologna – gruppo al quale, assieme a Flavio Fusi Pecci, Sandro Bardelli, Roberto Bedogni, Antonio de Blasi e Roberto di Luca, appartengo anche io – all’epoca mi affidò il compito di guidare questa attività proprio nell’estate del 2012.

Nel talk, e nell’articolo che lo riassume, attuo un confronto critico tra l’interazione bambino-divulgatore in assenza del genitore e l’interazione bambino-divulgatore con il genitore presente in cupola.

Per chi fosse interessato, i due articoli che riassumono entrambi i miei interventisi trovano  proprio nel pdf scaricabile sul sito dopo essersi registrati e aver ottenuto la password dal sistema informatico.

Oltre ai miei articoli, nello stesso pdf troverete anche quelli di tutti coloro che hanno preso parte al convegno. Vi erano studiosi di enti privati come anche provenienti dall’INFN e, ovviamente, dall’INAF.

Spero possiate trovare la pubblicazione interessante

SZ

Qui gli atti del convegno:

https://www.lnf.infn.it/sis/frascatiseries/italiancollection/index_ita.php

Informazioni sul mio libro Storie di Soli e di Lune:

http://www.giraldieditore.it/index.php?option=com_abook&view=book&id=804:storie-di-soli-e-di-lune&catid=17:racconti&Itemid=175

 

ealihP

Si teme che il modulo Philae possa essere atterrato male, ritrovandosi dopo vari rimbalzi ad avere il dorso poggiato sulla cometa e i tre sostegni in alto

http://sploid.gizmodo.com/comet-landing-live-coverage-all-systems-go-for-lander-1657715708

Forse è solo un timore, attendiamo altre notizie.

Continuando allora l’analogia tra Rosetta-Philae e insetti e parassiti vari iniziata ieri su questo Blog, mi piacerebbe far dire a Squid (sono al lavoro e non ho con me l’occorrente per disegnare):

“Quando Philae si risvegliò una mattina da sogni tormentosi si ritrovò sulla cometa simile a un insetto gigantesco. Giaceva sulla schiena dura come una corazza e sollevando un poco la telecamera poteva vedere la sua pancia piatta, color metallo, suddivisa in grosse lastre piane. (…) Le sue tre zampe, pietosamente esili se paragonate alle sue dimensioni, gli tremolavano disperate davanti agli occhi eletttronici”

Liberamente tratto da “La metamorfosi” di F. Kafka

SZ

 

 

Cara Scienza, ti scrivo

Scrivere-di-scienzaPer lo SCRIBA FESTIVAL organizzato da Finzioni Associazione Culturale e dalla scuola Bottega Finzioni fondata a Bologna da Carlo Lucarelli, Giampiero RIgosi e Michele Cogo, parlerò di “Scrivere di Scienza”. Nella rilassatissima cornice domenicale de LA LINEA, storico e sinistrorso bar in centro, a Bologna, alle 11:00 di domani cercherò di raccontare in modo oggettivo (e un po’ “soggettivo”) cosa si intenda oggi per “scrivere di temi scientifici”. Che fate, venite a prendere un caffé? Io offro le chiacchiere 🙂 SZ http://www.scribafestival.it/index.html http://www.scribafestival.it/file/persone.html

Ecco un video riassunto della mattinata: https://www.youtube.com/watch?v=hnadnkzLJKI

Se avete pazienza per un minuto e 47 secondi, mi trovate mentre dico qualcosa di rischioso, in quanto estrapolato da chissà quale discorso