CRONACA VIRUS – Giorno 52

NON TI CONOSCO, MASCHERINA!

Alle volte mi sembra di essere una antenna impegnata a lanciare tutto intorno, senza averne coscienza, segnali che prima o poi dimostreranno di essere stati ricevuti da qualcuno lontano da qui.

Basta stare in orecchio per avere l’impressione che un tuo pensiero, anche se elaborato in un momento di silenzio, vissuto durante la quarantena, rinserrato nel tuo appartamento, sia stato accolto da qualcuno che proprio non conosci e che non puoi mai avere avuto modo di incrociare.

E così capita di avere la possibilità di sentire pronunciare dalla bocca di una faccia incontrata alla fermata dell’autobus che suono ha qualcosa che tu hai solo immaginato senza parole; oppure può capitare di vedere che aspetto ha un tuo pensiero puro se realizzato come disegno o foto in un manifesto pubblicitario; o puoi scoprire di che lettere avresti avuto bisogno se solo avessi deciso di renderlo articolo di giornale.

Ed è proprio in una di queste situazioni che mi sono trovato a vivere stamane leggendo un po’ dell’ultimo Domenicale: nella pagina dedicata a Scienza e Filosofia, in un bell’articolo – ancora una volta non si tratta di una recensione (in realtà, poi si scopre che lo è, ma in forma velata): va a finire che mi ascoltano davvero! – di Giorgio Vallortigiara, ho visto prendere forma di parole stampate alcune domande che mi ero posto pochi giorni prima.

Forse sbaglio a pensare di essere stato una antenna emittente: magari ho avuto solo il ruolo di antenna ricevente anche se, mi dico, se non da me, quell’idea che si è fatta strada nella mia testa da qualche parte deve essere pur partita. Ergo, se non sono stato io il pensante 0, qualcun altro deve esserlo stato.

E se quel qualcuno non è stato lo stesso Vallortigiara, nel leggere quell’articolo o magari nell’imbattersi in questo mio post, il vero pensante originario sospetterà proprio quanto ho pensato io: di avere lanciato nell’etere, senza volerlo,  un suo pensiero (e così il cerchio si chiuderà): siamo tutti antenne che. pur solo immaginando, anche senza volerlo, anche se in silenzio, anche se al chiuso, emettono e ricevono segnali (?).

No, non sto proponendo un teorema. Si tratta solo di fantasie in libertà che non hanno nessuna pretesa di essere scienza. Sono solo sospetti, ipotesi; e null’altro.

Se invece è la scienza che volete, allora la trovate proprio nell’argomento di quel mio pensiero che forse ha viaggiato per finire nell’articolo del Domenicale, o che invece ha fatto il percorso inverso, dalla redazione di quel giornale fino a casa mia.

Un argomento il cui nome nell’articolo non viene mai esplicitato e che è conosciuto fra gli specialisti come pareidolia: processo del nostro cervello – allo studio del quale anche io, nel mio piccolo, ho provato a dare un minimo contributo scientifico – che si attiva allorché tentiamo di riconoscere forme note, come le facce dei conoscenti, in mezzo al gran caos di altre meno familiari o del tutto ignote.

Con quell’articolo, Vallortigiara aveva solo intenzione di dirci che, pur senza rendercene conto, da quando abbiamo iniziato a usare le mascherine vi è in atto un cambiamento importante nel modo di percepire il prossimo. Un cambiamento che dipende dalla riduzione al silenzio dei neuroni del nostro cervello deputati alla decodifica delle espressioni facciali e che ora non potranno lavorare sugli elementi delle nostre facce coperti da quei presidi medici divenuti tutto a un tratto tanto popolari.

Come l’autore in chiusura del suo pezzo scrive

(…) penso alla gente che guarda i volti coperti dalle mascherine, e a tutti quei neuroni siolenziosi, nella corteccia temporale inferiore. Certo aiuterebbe disegnare sulle mascherine l’elemento strutturale mancante, un simulacro di bocca, così da rendere festosi i neuroni delle facce.

La strana coincidenza di cui parlavo in apertura di questo post è stata che proprio una decina di giorni fa avevo appuntato su un file word un’idea analoga: avevo infatti intenzione di parlare in queste cronache di come sarebbe cambiata la percezione del prossimo in dipendenza del fatto che, dopo avere già in parte occultato il volto con occhiali da sole, con le mascherine esso non sarebbe stato più disponibile a farsi sottoporre agli sguardi altrui.

Immaginavo che, col tempo, avremmo quindi iniziato tutti, senza dichiararlo, a ritenere più importanti elementi del nostro aspetto fisico sui quali fino a due mesi fa nella maggior parte dei casi il nostro occhio si soffermava solo in-coscientemente: sopracciglia, orecchie, collo, capelli.

Ipotizzavo, quindi, che vi sarebbe stato molto più spazio per valutazioni del corpo nel suo insieme, del modo di muoversi, della voce, dell’odore;

che le divise avrebbero goduto di una nuova stagione di popolarità per il loro offrire facili e chiari appigli all’identificazione, se non della persona, almeno del suo ruolo sociale;

che, oltre alle mascherine personalizzate, avremmo iniziato a usare vecchi elementi di abbigliamento in modo del tutto nuovo, alla ricerca di una caratterizzazione, di una possibilità di distinguerci in una folla di indistinguibili tutti simili;

che in molti casi avremmo iniziato a esporre i nostri nomi stampigliati sul petto;

che i già popolarissimi tatuaggi, da puro elemento estetico, avrebbero assunto un’importanza capitale rendendo di contro, e per motivi del tutto analoghi, pure importantissimo il non averne.

A questo punto, lo dichiaro, e voglio proprio vedere se poi sbuca fuori da qualche altra parte: data l’importanza che altri sensi come l’olfatto e l’udito inizieranno ad avere rispetto alla vista che ora risulta essere meno capace difornirci appigli nel riconoscere le persone, ho immaginato che qualcuno avrebbe iniziato a fare mascherine capaci di donare una voce più bella di quella reale o che, addirittura, avrebbe preso piede la moda di fare la plastica alle corde vocali (si può?).

In conclusione, non posso che gioire nel notare come alcuni difetti potrebbero addirittura diventare vantaggi evolitivi: il mio lunghissimo naso collodiano risulterà riconoscibilissimo anche sotto una mascherina (che nel tentare di coprirlo assumerà la forma di una canadese)!

SZ

CRONACA VIRUS – Giorno 51

COME ERBA TRA I SANPIETRINI

Ieri ho bucato l’appuntamento quotidiano con queste cronache. Sentivo che sarebbe successo: era nell’aria. Ho provato strenuamente a non farlo accadere, e invece…

È stata per me una giornata infernale, interamente occupata dall’obiettivo di finire il video sulla costellazione dei Pesci che poi ho pubblicato a tarda sera.

Un’operazione che mi ha davvero provato: il traffico di auto, furgoni, moto e persone qui davanti casa mia è tornato a essere quasi quello pre-emergenza sanitaria e il rumore prodotto da tutto questo rimescolio di gente – un vocabolo che qui vuole avere il valore di un’offesa – mi ha costretto a ripetere decine di volte intere sequenze.

Voi forse vi starete chiedendo: “ma, se davvero vuoi offendere, perché non la chiami gentaglia?”. Se così è, vi rispondo che credo sia il caso di fare dei distinguo. “Gentaglia” è per me un termine da usare per indicare delinquenti o comunque persone il cui agire è dettato da una precisa volontà di nuocere al prossimo.

In questo caso, invece, voglio solo indicare persone che, normali, non si rendono davvero conto di cosa fanno e, convinte di “ragionare con la loro testa” e, soprattutto, di farlo bene, compiono azioni stupide, dicono eresie evitabili, plaudono l’agire e il dire di altra gente, se non di gentaglia.

Mi danno la netta impressione di vivere in un modo tale da farmi sospettare che se si potesse sottoporre la vita delle persone a una valutazione numerica e, per questo, sempre oggettiva, la loro potrebbe risultare essere per la società più un danno involontario che un vantaggio voluto.

Tornando alla mia giornata di ieri, essa ha risentito di alcuni cambiamenti che gradualmente si sono verificati nella mia gestione del tempo.

Nell’ultima settimana ho infatti dovuto occupare con altre attività le mattine che per quasi due mesi ho dedicato a queste cronache, e questo cambiamento ha fatto slittare il consueto appuntamento con la scrittura alle ore serali.

Ieri sera, una volta pubblicato il video, stavo proprio preparandomi a fare il resoconto della cinquantesima giornata di reclusione quando alcuni amici mi hanno chiamato da Palermo invitandomi a una rimpatriata su Zoom e scombinandomi così la tabella di marcia.

So bene che il mondo non se n’è accorto e che forse l’assenza dalla mia pagina Facebook della CRONACA seguita da quel bel numero tondo-tondo l’ha notata solo qualcuno dei miei pochi lettori, ma sentivo di dover dare una spiegazione: in fondo, quando ho iniziato a fare questi resoconti, ho preso una specie di impegno con me stesso e con chi avrebbe deciso di seguirmi. Un impegno al quale ieri sono venuto meno. Non ne vado affatto fiero.

Poi, però, usando uno slogan suggeritomi tanti anni fa da mio cugino Gianluca, mi sono detto “datti scampo”, mi sono autoassolto e sono riuscito pure a dormirci su.

“In fondo”, mi sono detto, “mi sono solo macchiato del delitto di cedere di fronte alla possibilità di entrare in contatto in maniera diversa, ma di sicuro più immediata e forse autentica dello scrivere, con miei simili, anzi, con miei amici”.

Quando ho ricevuto il loro invito, non ho né opposto resistenza, né ravvisato la presenza di motivi così tanto buoni per non accettare di farmi una bella chiacchierata: in fondo, una videochiamata su zoom è al momento il massimo della socialità che, almeno ancora per pochi giorni, possiamo permetterci.

Di ‘sti tempi, è l’equivalente di un vero e proprio evento mondano, di una kermesse, di un summit, di un happening… al quale bisogna assolutamente presenziare.

Se non lo si facesse, se non si prendessero simili occasioni al volo (volonline), lo sappiamo bene: si potrebbe intravedere all’orizzonte la possibilità di una certa incombente ed esecranda perdita di umanità.

Non nascondo che quell’invito mi ha sorpreso: per cinquanta giorni le cosiddette videocall tra amici erano state spontaneamaente rimandate al fine settimana, mentre nei giorni feriali riunioni del tutto analoghe, permesse dalla stessa applicazione usata per le prime, venivano descritte come videoconferenze e avevano come oggetto argomenti di lavoro.

Sembra che nei due casi a cambiare sia solo il modo di chiamarle, ma in realtà è la sostanza ad essere del tutto diversa.

In ogni caso, sapevo che non poteva durare: come l’erba che, ostinata, è tornata a crescere tra i sanpietrini, anche le normali forme di socializzazione hanno fatto breccia nel bitume di paura che aveva asfaltato tutta la società conferendo quella rigida alternanza tra videocall e videoconf alle nostre dinamiche interpersonali.

L’esigenza di vedersi, di parlarsi “di persona”, di guardarsi in faccia, di canzonarsi, di discutere, di confrontarsi, … è fortissima e  l’avere ceduto ieri sera così facilmente alla tentazione della connessione, mi ha confermato ancora una volta che tutti noi appartenenti a questa specie, chi più, chi meno, siamo animali estremamente sociali e socievoli.

Se avessimo resistito di più, se fossimo riusciti ad andare ben oltre il 4 Maggio, proprio in virtù di questa caratteristica così radicata nel nostro DNA culturale e, ne sono sicuro, presente anche in quello biologico, saremmo di sicuro andati incontro ad altri e ben più macroscopici cambiamenti nei modi del nostro interfacciarci; un cambio riflesso, o forse generato, da modi del tutto diversi e inesplorati di trattare i mezzi della comunicazione interpersonale già a nostra disposizione.

Magari avremmo assegnato nuovi nomi ad altre forme e occasioni di connetterci mediate la solita app per videocall/vdeoconf e tutto avrebbe pian piano continuato a svolgersi in modo uguale e al contempo diverso, così da mantenere viva quella solita, sana e necessaria abitudine di scambiarci sguardi, chiacchiere e pareri.

E invece no: in vista di Lunedì prossimo, in vista del “liberi tutti”, stiamo già oliando i cuscinetti a sfera, stiamo già preparando la lista di acquisti, stiamo già programmando i prossimi incontri e ferie.

In fondo, non stiamo facendo null’altro che assecondare ciò che ci richiede una parte (forse tutta) della Natura. Quale? Il COVID 19, per esempio che, né cattivo, né buono, gioca la sua partita evolutiva.

In questi 51 giorni anche lui ha dovuto mutare un po’, cambiando nel suo modo di agire chissà quale analogo delle nostre abitudini.

Mi sembra quasi di vederlo lì in attesa di una nostra distrazione. Paziente, sa che prima o poi allenteremo la presa e lasceremo di nuovo il campo libero alla sua azione.

Dal 4 in poi, ne sono quasi certo, lui, ostinato, avrà una nuova occasione.

E rispunterà come erba fra i sanpietrini.

SZ

 

CRONACA VIRUS – Giorno 49

GAUDIO DA MAL COMUNE

Mentre giorni fa facevo la spesa, respirare nella mascherina mi appannava gli occhiali che mi sono indispensabili per capire che prodotto ho davanti, di che marca è, quanto costa.

Mi sono così accorto che la presbiopia si combina col COVID 19 rendendomi capace di vedere ciò che nemmeno 11/10 mostrano in modo così chiaro: la presenza dell’aria.

La vedo e ne colgo il flusso, il movimento. Quella combinazione mi spiega visivamente il significato del verbo respirare mentre l’aria va e viene sulle mie lenti, appannandole, e non posso che metterla anche questa sutuazione nel novero di tutte quelle nelle quali l’emergenza mi ha regalato nuove consapevolezze di cose che davo per scontate.

Scopro addirittura che l’aria – quella che se non c’è, … manca – può dare pure fastidio: nello stesso momento in cui mi accorgo della sua presenza, essa mi nasconde cosa vi è oltre le mie lenti. Insomma, anche respirare può dare fastidio.

E quindi che faccio, non respiro?

Non è possibile.

E quindi che faccio, non metto gli occhiali?

Non è possibile.

E quindi che faccio, non metto la mascherina?

Non è possibile.

Allora mi rassegno a capire che tutto ha un prezzo: la vista, l’aria, la salute.

E anche la consapevolezza che è bella, ma, diciamocelo: è pure una bella rottura.

Forse è per questo che la scienza dà spesso fastidio: è un occhiale che mostra nel dettaglio ciò che, pur stando sotto gli occhi di tutti, nessuno riesce a scorgere. A volte dona una vista appannata che per molti proprio non può competere con il piacere offerto dal vedere benissimo altre cose. anche se magari non utili o dannose.

Essa mette in evidenza le nostre debolezze, proteggendoci da errori e pericoli che come un virus si presentano senza preavviso, ma ci suggerisce anche di adottare atteggiamenti scomodi, di cui spesso non capiamo fino in fondo l’importanza.

É per questo che credo di comprendere come mai molti non vedono l’ora di togliere la mascherina e di andare in giro a fare quello che gli pare.

L’hanno sempre fatto: hanno sempre ignorato ogni genere di protezione di cui non capivano e/o non volevano capire fino in fondo l’utilità, ma la loro negligenzaprima si presentava come un modo di fottersi da soli. Una scelta libera e più o meno consapevole.

Ora, invece, sentono il peso del farsi del male facendone anche ad altri. Gli è stato spiegato bene e, pur non capendolo fino in fondo o non accettandolo, non possono più far finta di nulla.

Allora che fanno? Semplice, sperano che tutti si comportino come loro così da sentirsi legittimati a vivere rischiando.

Lo desiderano così da sentirsi meno stolti e irresponsabili, facendo eventualmente finta di essere state  vittime del caso e dimenticando di essere state un suo amplificatore.

Desiderano che tutti facciano come loro per poter far finta, pur vedendola sulle lenti appannate, che l’aria non esiste e che, se davvero c’è, diciamocelo pure: è un disturbo.

SZ

CRONACA VIRUS – Giorno 48

RADIO-GRAFIE

Pian piano, complici le giornate di sole e la Domenica perenne, sto compiendo piccole sortite fuori, nel giardino condominiale al quale accedo dalla porta-finestra della mia cucina.

Ogni tanto, poi, vado a fare la spesa e a buttare l’immondizia (input-output) e noto che da un mesetto a ‘sta parte, ogni qualvolta esco, dimentico, o faccio finta di dimenticare, la radio accesa.

Praticamente la tratto come se fosse una inquilina un po’ logorroica, quando non canterina, che, come è giusto che sia, continua le sue attività anche in mia assenza.

Si tratta di un personaggio molto discreto: basta un mio gesto e lei abbassa il volume o, addirittura, se proprio ho bisogno di tutto il silenzio possibile, (almeno lei) si tace e coopera per farmi lavorare al meglio.

Per il resto, chiacchiera spesso, quasi ininterrottamente, e cambia argomento con estrema facilità, dimostrando anche una grande versatilità, cultura e varietà di timbri vocali.

Per non parlare dei suoi gusti musicali mai banali e ripetitivi: al Pelléas et Mélisande alterna uno shampoo di Gaber, un brano dei Police, e altri 6, 7 ma anche 8000 gradi di distanza.

Insomma, è proprio una compagnia ideale che, col suo continuare a comunicare anche in tua assenza, ti ricorda che il mondo fuori c’è; che non sei rimasto solo; che fintanto che ci sarà lei, c’è e ci sarà ancora quella cultura cui appartieni, anche quella pre-internet, che ti sorregge da lontano; nonché qualcuno con cui confrontarti.

Per quanto oramai oggetto per molti versi superato, la radio costituisce una interfaccia tra menti che ancora sa di carne, di pelle, di capelli e vestiti. Non so bene perché – forse il tutto dipende dal fatto che essa è presente anche nei miei ricordi di bambino e che quindi rappresenta un oggetto poco mutato allo scavallare del secolo – o forse è che essa, non ammettendo azioni come digitare, scrivere, ricevere messaggi da leggere, è capace solo di una comunicazione unilaterale, fondata sul monologo: allena la capacità di ascoltare.

La sua limitatezza me la rende molto simpatica perché per certi versi anacronistica in quanto mi ricorda fin troppo bene le abitudini di mia madre, di mio padre, dei miei nonni, prima che mie.

Inoltre mi riporta alla mente le Domeniche deserte nelle quali, se tu che tifoso non sei mai stato uscivi di casa, potevi incontrare solo qualcuno dallo sguardo perso ma attento, filosofico, quasi, con mini-radioline nere grandi un palmo che gracchiavano vicino al suo orecchio voci concitate e monotone di telecronisti da stadi lontani (a tantissimi stadi di distanza).

Quell’elettrodomestico è quindi uno splendido stimolatore di fantasie sinestesiche, che ti tenta con la curiosità di confrontare l’immagine dei cronisti che il tuo cervello ha disegnato sulla base dei tuoi incontri passati, e quella reale che di sicuro, da qualche parte nella rete esiste.

Ma tu resisti: preferisci non rischiare la delusione che di sicuro ti darebbe un raffronto di quel tipo.

E così immagini l’aspetto giovane, intelligente e impertinente di Paola de Angelis vestita, anche ad Agosto, in jeans e lupetto nero come i suoi capelli lunghi (che ci posso fare? La immagino così…); il riporto e la faccia ben rasata ed eccessivamente profumata da un ricercato, ma pur sempre fastidioso dopobarba del preparatissimo Guido Zaccagnini, al quale fanno da contraltare quelle molto più accomodanti e simpatiche di tutti gli altri ottimi conduttori come Arturo Stalteri, Valentina Lo Surdo, Renata Scognamiglio.

Le facce intelligenti e maliziose delle due faine dalla voce forzatamente ammiccante della Barcaccia; la faccia seria e poco incline allo scherzo della pasionaria Rossella Panarese (quelle di molti degli altri cronisti le conosco bene, di persona…); i volti estremamente intelligenti e preparati dei di -grigio-chiaro-vestiti Nicola Lagioia ed Edoardo Camurri, quest’ultimo anche tanto ironico, con lo sguardo sempre pronto a cogliere ogni occasione di colto sberleffo; le facce strane, che connetti a persone un po’ incapaci e che poi invece riescono anche a sorprenderti con uscite simpatiche e sagaci, degli allegri e scanzonati conduttori di Hollywood Party: un programma che ti avverte del sopraggiungere della sera.

E poi tutta la pletora di conduttori di Prima Pagina, programma di cui apprezzi l’apertura verso tutti, ma che poi non puoi fare a meno di silenziare quando per i commenti alle notizie riportate dai giornali avverti la presenza di un fascio… di nervi: quello in cui ti trasformi sentendo ciò che  alcuni conduttori dicono.

Insomma, la radio è un allenamento per la pareidolia acustica che ti ricorda come tu abbia accumulato in testa tutto un repertorio di facce e suoni che usi per indurre l’aspetto di una voce sconosciuta, che senti da un altoparlante; o il suono di una faccia ignota che però vedi muta.

E se scopri così allenata questa ricerca di connessioni suono-immagine compiute automaticamente dal tuo cervello, viene da chiederti quante altre pareidolie esistono e quante tu, inconsapevole, usi per giudicare concetti, movimenti, sequenze, fatti, anni, persone, ricordi, …

E allora ti chiedi, aldilà dell’idea che te ne sei fatto in mezzo secolo, cosa è davvero il mondo?

A deludere le comode aspettative di chiunque ci pensa la scienza che del mondo indaga proprio l’aspetto vero, cercando così di allontanare l’immagine preconcetta che ognuno di noi se ne è fatto sentendone il suono, la qualità della superficie, l’aspetto, il gusto.

E poi arriva il domandone: non confidando molto sulla capacità di una indagine psicologica che tenta di essere scientifica, ma che francamente ti sembra arrancare, chi accidenti sei tu?

Credo di saperlo in quanto conosco la mia voce, la mia faccia e molte altre cose, ma per non rischiare di sbagliare, dico solo che mi limito a lasciarmi acceso anche quando non mi ascolto e non mi vedo.

Dirò di più: lo faccio pure quando esco.

SZ

CRONACA VIRUS – Giorno 47

DA COMUNICARSI ENTRO E NON OLTRE IL

Oggi, sbagliando, sono andato a fare la spesa al piccolo centro commerciale vicino casa.

Ovviamente l’ho trovato chiuso, e così, dal momento che ero arrivato fin lì, ne ho approfittato per comprare il giornale all’edicola posta proprio di fronte alla sua entrata.

Ricordo la sequenza velocissima di pensieri: “M…a! È chiuso! Vero! Oggi è festa! Va bene, meglio così: non farò la fila e prenderò solo il giornale. Sì, ma se quel negozio è chiuso, perché c’è lo stesso la fila? Vuoi vedere che…”

“Scusi, ma questa è la fila per l’edicola?”

“Eh, già! Sono qui da un po’. Mi sa che da oggi in poi sarà sempre così…”

Allora mi metto anche io in coda, orfano di quella bella sensazione di libertà che per un attimo si era impossessata di me quando avevo realizzato che sarei stato costretto a rinunciare alla spesa.

Neanche il tempo di fare quella domanda al signore davanti a me che già alle mie spalle si erano disposte altre persone, evidentemente anche loro in attesa. Attesa di cosa? Perché siamo tutti lì? In fondo, Simone non vende mica beni di prima necessità come pasta, pane, vino, insalata…!

La risposta a questa domanda potrà forse sembrare banale, ma quando me la sono data, mi ha comunque colpito con la sua semplicità. Non me ne ero mai reso conto prima, e probabilmente non lo ritenevo nemmeno possibile: tutte quelle persone erano, come me, in fila per comprare la loro dose quotidiana di parole; la loro razione di concetti per uso personale.

Certo, ho sempre visto molta gente nelle librerie, ma ho sempre ritenuto, senza mai dirmelo, che chi frequenta quel genere di negozi faccia parte di una élite in qualche modo autoselezionatasi all’interno della folla di disinteressati a quei prodotti così faticosi come le idee e le argomentazioni ben… argomentate.

Idee e argomentazioni che non scadono facilmente perché ben protette dalla ghiacciaia del formato libro.

Oggi davanti a me vi era invece un pubblico più trasversale, eterogeneo, indistinto e la vista di tutte queste persone alla ricerca di parole e concetti freschi di giornata, magari da portare sotto braccio come una baguette per sentirsi completi, per sentirsi in equilibrio con il mondo e il proprio corpo, mi ha dato una bellissima senzazione.

Una preghiera laica sembrava emergere da quel corteo muto, composto e mediamente immobile in attesa dell’ostia di carta. Una preghiera che poteva iniziare così: “Simone nostro, che sei nell’edicola, dacci oggi i nostri concetti da leggere… quotidiani”

Una preghiera laica che, nonostante me, è stata capace di regalarmi fiducia: fintanto che le parole saranno così importanti, fintanto che i concetti saranno da consumare entro oggi perché poi ci sarà da far posto a quelli di domani, potremo sperare in un futuro sgombro da quelli sbagliati di oggi e dai problemi di cui a fatica ci siamo liberati settantacinque anni fa.

Una liberazione che, grazie alle buone notizie circa il timido arretrare dell’epidemia e alla prospettiva che presto saranno tutti liberi di circolare, credo sia stata percepita in modo più intenso che negli anni passati.

Una fortuna? Forse: un infimo esserino, privandoci proprio della presenza di molti anziani che costituivano la nostra memoria storica, ci ha dato un assaggio di cosa davvero possa significare un concetto così semplice da dire e così difficile da comprendere come “libertà”: un parola che spero non scada domani.

In pratica, il COVID sembra proprio averci voluto dire: “Non siete stati in grado di apprezzare, di comprendere fino in fondo i ricordi di chi c’era, giudicandoli di parte, retorici, annacquati. Ora fate voi. Ora tocca a voi: da oggi in poi, grazie al mio intervento, procederete con la vostra memoria comune che vi sto costringendo a creare. Vediamo che parole userete per tramandare ai vostri figli gli accadimenti di questo mondo”.

Sono passati settantacinque anni da quando ci siamo liberati della piaga nazifascista e, se non ci fosse stata l’epidemia, in questo Sabato soleggiato molti avrebbero visto solo la festa, la vacanza, la piacevolezza.

Allora sorge spontaneo chiedersi, terrorizzati, cosa ricorderemo quando di anni ne saranno trascorsi 100, 150, 200, …

Credo che, a emergenza finita, tutto dipenderà dagli edicolanti che sceglieremo, dalle parole che compreremo e dalla loro deperibilità.

SZ

CRONACA VIRUS – Giorno 46

TROVARSI A TOGLIERE

 Vivo con le giornate piene, temendo l’arrivo del buio che puntualmente mi trova qui seduto, ancora desideroso di tempo, di un extended play che mi consenta di finire ciò che mi ero prefissato di fare già dal giorno prima.

L’emergenza sanitaria si è accordata in modo molto naturale con l’emergenza espressiva e il vero virus del quale risulto di sicuro infetto, almeno fintanto che uno di quei fantomatici tamponi non interverrà a dichiarami asintomatico per quello biologico, l’ho già detto in altre cronache: è quello della fame di tempo.

Una fame che, da un punto di vista linguistico, può assomigliare alla fame d’aria: un istinto che precede la deglutizione aerofagica e che apparentemente non ti fa deglutire nulla, se non aria, appunto.

La fame di tempo è simile: è bisogno di sentire quel flusso inconsistente e agostinianamente indefinibile per poterlo rendere, man mano che attraversa le tue cellule, cose e idee concrete: disegni, scritti, registrazioni (la versione concreta dei suoni), video (la versione concreta dei gesti).

Giocando su più tavoli, mi accade di essere quotidianamente raggiunto da messaggi che mi dicono cosa stanno facendo i miei vari colleghi che però hanno dalla loro di occuparsi per tutto il giorno di una singola attività riconducibile a un singolo ambito; sempre quella; sempre quello.

Una vita che non potrei mai fare per il semplice motivo che mi rompo le balle. Mi rendo conto che così facendo regalo quindi un vantaggio a tutti, ma non posso farci nulla: amo tutto, ma sopporto a lungo molto poco.

E poi, in fondo, anche io mi occupo di una cosa sola, ma lo faccio in vari modi, con tutti i linguaggi di cui mi sono dotato in questo poco più di mezzo secolo di vita.

Infatti, attività musicale a parte per fare la quale ancora mi capita di essere chiamato a suonare questo o quel genere come un qualsiasi altro musicista professionista, ho fatto convergere tutte le altre mie attività nella divulgazione scientifica in generale e, in particolare, in quella astronomica.

Quindi ciò che da tanti anni faccio è divulgare la scienza parlandone, scrivendone, disegnandone, recitandone, suonandone i vari aspetti. Metto quindi insieme tutti quei linguaggi per creare un frullato espressivo e divulgativo di sicuro diverso e, spero efficace.

Prima di questa segregazione, non mi ero mai accorto davvero di come, mentre trascorro l’intera giornata tentando di migliorarmi nel maneggiare gli strumenti che servono ad affrontare così quella mia attività, io venga puntualmente visitato dai volti di chi so essermi nemico perché mio concorrente o perché proprio ci stiamo entrambi, reciprocamente, umanamente, irrimediabilmente sulle balle.

Una serie di epifanie davvero scomode che come si può facilmente immaginare, ha il potere di distrarmi, di deprimermi, di farmi innervosire, di…

Immagini fugaci di volti e atteggiamenti che mangiano solo un secondo prima, due secondi dopo, … A fine giornata, la perdita netta è quantificabile in pochi, insulsi attimi: un problema di sicuro trascurabile se non fosse che… se non fosse che gli stati d’animo generati in quei momenti stazionano in me molto, troppo a lungo.

Tutto ciò è di sicuro dovuto alla vita sui social che, oltre agli amici, ci consentono di frequentare pagine di gruppi alle quali afferiscono tutte le persone accomunate da un interesse particolare: lì, a differenza di ciò che è possibile fare sul tuo profilo personale, non puoi certo eliminare chi non ti piace, metterlo a tacere, fare in modo di non vederlo più. No, lì è come abitare tutti insieme in un grande albergo dove, anche evitandosi, prima o poi ci si incontra. E in quei momenti, stanne certo, il tuo stato d’animo subirà urti anelastici.

In una fase di apprendistato è di sicuro importante avere un contatto costante con gli altri e il loro lavoro: serve da sprone a fare meglio; serve a sbirciare cosa e come fanno per rubarlo, copiarlo, trasfigurarlo e farlo tuo.

Una volta però finita quella lunga fase – lo so, non finisce mai del tutto, ma a un certo punto bisogna decidersi a considerarla finita -, se non fosse che certe pagine-hall servono anche a pubblicizzare il tuo lavoro, sarebbe proprio il caso di prendere le distanze da esse, magari decidendo pure di lasciare l’albergo. Se non lo si fa, si può scoprire di diventare competitivi, invidiosi, attenti a marcare il territorio: tutte energie sprecate nel tentativo didistruggere ciò che non può e non deve essere distrutto. Tutte energie distolte da ciò che può e deve essere costruito.

Tendenze inquinanti, dunque, che distolgono dall’unica cosa davvero importante: una volta capito cosa si pretende da se stessi in relazione a una certa attività, una volta compresi i propri limiti come anche i propri punti di forza, bisognerebbe ripulire subito il campo da influenze inquinanti che possono distogliere dall’unico obiettivo lecito:

non certo primeggiare: no, questo è un goal adolescenziale che è importante avere soddisfatto quando era davvero il momento di farlo, così da evitare di subirne ridicolmente il fascino anche a giochi fatti, quando si è oramai adulti.

La cosa davvero importante è piuttosto ricercare come un segugio la via che conduce alla realizzazione di ciò che tu e solo tu puoi dire e dare con il tuo tratto, le tue parole, i tuoi modi, i tuoi gesti, i tuoi suoni; in pratica, con tutto te stesso.

Quindi, nonostante la segregazione, io ho, e forse pure voi avete, la casa piena di personaggi scomodi di passaggio. A loro insaputa, transitano lasciando tracce maleodoranti e tu vivi nel fetore che poi, molto probabilmente, è solo una proiezione del tuo cervello rettile da sempre malato di territorialismo.

Sarà forse per questo, o anche per questo, che a un certo punto alcuni ambienti domestici divengono infrequentabili, spingendoci ad andare fuori dove, paradossalmente, potrebbe esserci meno gente scomoda di quanta non entri in casa tua dal monitor di pc, tablet e cellulari.

Forse vent’anni fa una pandemia come questa mi avrebbe permesso di concentrarmi meglio e più a lungo sulle mie cose senza farmi subire influenze come quelle denunciate più sopra: influenze che credo sia tipico prendere in rete e per le quali ancora non mi risultano esserci vaccini.

Da domani proverò a evitare gli assembramenti di colleghi virtuali presenti in quei gruppi e me ne starò buono buono nel mio (profilo). Mi concederò sortite a distanza solo per andare a dare stimoli e fastidio nel mercato comune, condividendo lì le mie produzioni, ma senza sbirciare quelle altrui.

Un distanziamento social che spero servirà a tenere sgombre le vie respiratorie del pensiero, a donare nuova salute ai bronchi della mente, a disintossicare movimenti, gesti, pensieri oramai nicotinizzati dalla presenza costante della rete e nella rete.

Va a finire che tra tutti gli innumerevoli modi per capire chi davvero si è, ve ne è uno semplice-semplice offerto dalla scelta di assentarsi dalle competizioni e di non accettare sfide comunque implicite, mai dichiarate.

Quasi che si tratti della nascita di una nuova algebra social che diventa lecita proprio (e solo) grazie alla realtà virtuale, da domani voglio provare a calcolarMi secondo la seguente operazione: “nel preciso istante in cui si ha bisogno di trovare se stessi, dal tutto (e da tutti) bisogna sottrarre gli altri”

SZ