RADIO-GRAFIE
Pian piano, complici le giornate di sole e la Domenica perenne, sto compiendo piccole sortite fuori, nel giardino condominiale al quale accedo dalla porta-finestra della mia cucina.
Ogni tanto, poi, vado a fare la spesa e a buttare l’immondizia (input-output) e noto che da un mesetto a ‘sta parte, ogni qualvolta esco, dimentico, o faccio finta di dimenticare, la radio accesa.
Praticamente la tratto come se fosse una inquilina un po’ logorroica, quando non canterina, che, come è giusto che sia, continua le sue attività anche in mia assenza.
Si tratta di un personaggio molto discreto: basta un mio gesto e lei abbassa il volume o, addirittura, se proprio ho bisogno di tutto il silenzio possibile, (almeno lei) si tace e coopera per farmi lavorare al meglio.
Per il resto, chiacchiera spesso, quasi ininterrottamente, e cambia argomento con estrema facilità, dimostrando anche una grande versatilità, cultura e varietà di timbri vocali.
Per non parlare dei suoi gusti musicali mai banali e ripetitivi: al Pelléas et Mélisande alterna uno shampoo di Gaber, un brano dei Police, e altri 6, 7 ma anche 8000 gradi di distanza.
Insomma, è proprio una compagnia ideale che, col suo continuare a comunicare anche in tua assenza, ti ricorda che il mondo fuori c’è; che non sei rimasto solo; che fintanto che ci sarà lei, c’è e ci sarà ancora quella cultura cui appartieni, anche quella pre-internet, che ti sorregge da lontano; nonché qualcuno con cui confrontarti.
Per quanto oramai oggetto per molti versi superato, la radio costituisce una interfaccia tra menti che ancora sa di carne, di pelle, di capelli e vestiti. Non so bene perché – forse il tutto dipende dal fatto che essa è presente anche nei miei ricordi di bambino e che quindi rappresenta un oggetto poco mutato allo scavallare del secolo – o forse è che essa, non ammettendo azioni come digitare, scrivere, ricevere messaggi da leggere, è capace solo di una comunicazione unilaterale, fondata sul monologo: allena la capacità di ascoltare.
La sua limitatezza me la rende molto simpatica perché per certi versi anacronistica in quanto mi ricorda fin troppo bene le abitudini di mia madre, di mio padre, dei miei nonni, prima che mie.
Inoltre mi riporta alla mente le Domeniche deserte nelle quali, se tu che tifoso non sei mai stato uscivi di casa, potevi incontrare solo qualcuno dallo sguardo perso ma attento, filosofico, quasi, con mini-radioline nere grandi un palmo che gracchiavano vicino al suo orecchio voci concitate e monotone di telecronisti da stadi lontani (a tantissimi stadi di distanza).
Quell’elettrodomestico è quindi uno splendido stimolatore di fantasie sinestesiche, che ti tenta con la curiosità di confrontare l’immagine dei cronisti che il tuo cervello ha disegnato sulla base dei tuoi incontri passati, e quella reale che di sicuro, da qualche parte nella rete esiste.
Ma tu resisti: preferisci non rischiare la delusione che di sicuro ti darebbe un raffronto di quel tipo.
E così immagini l’aspetto giovane, intelligente e impertinente di Paola de Angelis vestita, anche ad Agosto, in jeans e lupetto nero come i suoi capelli lunghi (che ci posso fare? La immagino così…); il riporto e la faccia ben rasata ed eccessivamente profumata da un ricercato, ma pur sempre fastidioso dopobarba del preparatissimo Guido Zaccagnini, al quale fanno da contraltare quelle molto più accomodanti e simpatiche di tutti gli altri ottimi conduttori come Arturo Stalteri, Valentina Lo Surdo, Renata Scognamiglio.
Le facce intelligenti e maliziose delle due faine dalla voce forzatamente ammiccante della Barcaccia; la faccia seria e poco incline allo scherzo della pasionaria Rossella Panarese (quelle di molti degli altri cronisti le conosco bene, di persona…); i volti estremamente intelligenti e preparati dei di -grigio-chiaro-vestiti Nicola Lagioia ed Edoardo Camurri, quest’ultimo anche tanto ironico, con lo sguardo sempre pronto a cogliere ogni occasione di colto sberleffo; le facce strane, che connetti a persone un po’ incapaci e che poi invece riescono anche a sorprenderti con uscite simpatiche e sagaci, degli allegri e scanzonati conduttori di Hollywood Party: un programma che ti avverte del sopraggiungere della sera.
E poi tutta la pletora di conduttori di Prima Pagina, programma di cui apprezzi l’apertura verso tutti, ma che poi non puoi fare a meno di silenziare quando per i commenti alle notizie riportate dai giornali avverti la presenza di un fascio… di nervi: quello in cui ti trasformi sentendo ciò che alcuni conduttori dicono.
Insomma, la radio è un allenamento per la pareidolia acustica che ti ricorda come tu abbia accumulato in testa tutto un repertorio di facce e suoni che usi per indurre l’aspetto di una voce sconosciuta, che senti da un altoparlante; o il suono di una faccia ignota che però vedi muta.
E se scopri così allenata questa ricerca di connessioni suono-immagine compiute automaticamente dal tuo cervello, viene da chiederti quante altre pareidolie esistono e quante tu, inconsapevole, usi per giudicare concetti, movimenti, sequenze, fatti, anni, persone, ricordi, …
E allora ti chiedi, aldilà dell’idea che te ne sei fatto in mezzo secolo, cosa è davvero il mondo?
A deludere le comode aspettative di chiunque ci pensa la scienza che del mondo indaga proprio l’aspetto vero, cercando così di allontanare l’immagine preconcetta che ognuno di noi se ne è fatto sentendone il suono, la qualità della superficie, l’aspetto, il gusto.
E poi arriva il domandone: non confidando molto sulla capacità di una indagine psicologica che tenta di essere scientifica, ma che francamente ti sembra arrancare, chi accidenti sei tu?
Credo di saperlo in quanto conosco la mia voce, la mia faccia e molte altre cose, ma per non rischiare di sbagliare, dico solo che mi limito a lasciarmi acceso anche quando non mi ascolto e non mi vedo.
Dirò di più: lo faccio pure quando esco.
SZ