Aforisma 7: Stevie Wonder Dixit

It's-you

Correva l’anno 1984, ma da allora gli anni hanno preso a correre ancora più veloci.

Forse più di altri, l’assolo di oggi rientra nella categoria degli aforismi: brevissimo, incisivo, perfetto nel suo genere. Parte dichiarandosi con pacata ma decisa autorevolezza e dopo una sapiente pausa, esplode in un acuto che è una lama affilata conficcata in un chakra. Dopo aver inferto questo colpo, l’armonica ricama baloccandosi e – mi si passi il termine –  “baroccandosi” con le note per poi accompagnare l’ascolto verso la ripresa del canto.

Tra tutti i musicisti, Stevie Wonder forse è quello che ha la maggiore capacità di suonare così come canta. Dire che suona come canta significa affermare che è un grande, immenso armonicista, ma la sua forza non sta certo nella tecnica, se per essa si intende ciò che Jean “Toots” Thielemans e i suoi epigoni sanno fare con quello strumentino.

In sua difesa, c’è da dire che Stevie Wonder non è un jazzista, né credo gli sia mai interessato esserlo. Tra le due, sono i jazzisti a non poter fare a meno di sapere cosa ha detto lui in musica, e non l’inverso. Inoltre, da un punto di vista strettamente strumentale, lui sa fare cose che mi sembra nessun altro sappia ottenere dalla cromatica. Mi riferisco allo staccato che se eseguito da lui, raggiunge la brillantezza di un pizzicato di violino (1).

Insomma, suona il suo mondo e lo suona così bene da far venir voglia di viverci o di trasferirsi lì, di tanto in tanto.

Cercando di ricostruire i miei ricordi circa i primi incontri con la sua musica, arrivo fino a quando per radio sentii la famosissima Isn’t she lovely (2). Il lunghissimo assolo finale fu per me un regalo fin troppo generoso ricevuto da una radio che molto di rado mandava brani suonati con l’armonica. Di solito, quando lo faceva, proponeva lunghissime filastrocche tanto care agli italiani, inframezzate da accordacci random tirati fuori da diatoniche suonate male.

Tra i miei ascolti, random pure quelli, compiuti tra la radio dei miei, lo stereo di mia cugina Felicia e quello di mio zio Francesco, ricordo di essermi imbattuto in uno spelndido That girl (3) con un assolo di armonica che un giorno potrebbe meritare un aforisma tutto suo. Infine, in questo bricoladge sonoro, in una di quelle domeniche a casa del solito zio ho incontrato l’assolo oggetto dell’aforisma di oggi.

Sapendo della tendenza di Wonder a usare l’armonica in almeno un brano per disco, mi  sottoposi all’ascolto dell’intero LP The Woman in Red (4), all’epoca una new entry della discoteca del mio parente, nell’attesa del suono del mio strumento preferito. Fui premiato durante l’ascolto del terzo brano, It’s you, nel bel mezzo del quale stanai l’assolo che trovate trascritto più in alto (5).

Si trattava di una vera e propria perla rara: spesso, lo strumento al quale viene affidato l’assolo nella parte centrale di un brano, viene annunciato con brevi interventi a commento del cantato. Invece, ascoltando la prima parte di It’s you, non vi era traccia del suono di armonica e non era quindi possibile intuire la presenza dell’assolo. Questo può forse far immaginare la sopresa e la mia immensa felicità nello scoprire che anche quel disco contenteva un regalo per me.

Se la maggior parte delle persone erano interessate a I just called to say I love you, la canzone più famosa di quel disco, io avevo trovato otto misure che da sole valevano l’intero LP. Dopo l’assolo, l’armonica tornava a tacere e purtroppo non la si udiva nemmeno nella coda del brano, laddove un a mio parere bel costume, molto diffuso tra gli arrangiatori, l’avrebbe fatta suonare consentendole frasi di respiro molto più ampio. Una piccola consolazione venne dallo scoprire che Wonder aveva deciso di suonare il tema dell’ultimo brano del disco, It’s more than you, interamente con la sua cromatica.

L‘ ’84 era anche l’anno in cui Chaka Khan fece la sua versione di I feel for you (6), una canzone scritta da Prince. In televisione passarono il videoclip e grazie a quello riuscii ad ascoltare il bruciante assolo di armonica di Wonder. E credo sia anche l’anno in cui conobbi Mario Falcone e Luigi Negroni, due musicisti della mia città ai quali sono legato da ricordi particolari: il primo, chitarrista e poi batterista, aveva un’incredibile discoteca dalla quale io e mio cugino, il pianista e flautista Gianluca Barbaro (7) col quale negli anni ’80 mi stavo avvicinando a quel genere, abbiamo “rubato” moltissimo. L’altro era un prodigio: riusciva a cantare alla Stevie riproducendone alla perfezione il timbro. Suonava anche l’armonica, stavolta con il suono e il fraseggio di Wonder (8).

La cosa che mi dà da pensare è che i miei ascolti erano così: fortuiti, casuali, non ripetibili a comando: infatti, come ho già raccontato in altre occasioni, a casa non avevamo uno stereo. Di sicuro ho perso molte occasioni, ma credo (o forse voglio solo sperare che sia così) che questo mi abbia regalato la capacità di assaporare le cose in modo diverso, facendomi imparare come mantenere inalterato il ricordo di un sapore, di un odore, di una sensazione per lunghissimi periodi. Ho imparato così bene che nel 2015 li riscopro del tutto inalterati.

É davvero strano poter oggi digitare un titolo in un qualsiasi motore di ricerca e trovare con estrema facilità brani, suoni, frasi. La domanda sorge spontanea: se all’epoca avessi avuto accesso a questo mare di informazione, sarei diventato migliore? Mi piacerebbe dirmi di no, ma temo che le cose stiano in modo diverso. Per fortuna, non mi viene data la possibilità di sperimentare una vita diversa e sono costretto ad accontentarmi di quello che sono, ben sperando per mio figlio, un nativo digitale che avrà il mondo a disposizione.

Intanto sono qui che digito, clicco, ascolto. Seduto su di un divano grigio, guardo di fronte a me le mie gambe, il mio corpo. La musica  nelle cuffie è la stessa di trentuno anni fa. Le sensazioni pure.

Le note di It’s you mi fanno ricordare nitidamente un Angelo sedicenne  seduto nella stessa posizione su un divano color panna. Il corpo che ho in mente è però diverso da quello che vedo. É più piccolo, più acerbo. Questo nitore del mio ricordo mi uccide.

Sorrido.

Ma vorrei piangere.

SZ

1- https://www.youtube.com/watch?v=_DXrWf0Pe1c

2- https://www.youtube.com/watch?v=9-n3Ydy7ras

3 – https://www.youtube.com/watch?v=eagQKwVendA

4 – colonna sonora dell’omonimo film, campione di incassi, di e con Gene Wilder e la bellissima Kelly LeBrock:
http://en.wikipedia.org/wiki/The_Woman_in_Red_%281984_film%29

5 – Piccola nota tecnica: le acciaccature che ho segnato nella seconda e nella quarta battuta possono sembrare errori di trascrizione: è noto, infatti, che è particolarmente difficile, se non addirittura stupido, tentare di passare in velocità da una nota soffiata a registro premuto a un’altra aspirata sul foro successivo. Il corretto modo di intendere quelle note viene dal riguardarle come piccoli glissati da ottenere con un breve bending nello stesso foro della nota di arrivo. In tal senso, forse avrei dovuto segnarli come appoggiature, ma la durata di questo effetto qui deve essere breve.

6 – https://www.youtube.com/watch?v=04yCea2HOhY

7 – http://www.barbaro.it/

8 – la sua voce da ragazzo all’epoca lo aiutava a essere molto duttile. Ora canta splendidamente riproducendo alla perfezione la bellissima voce di… Luigi Negroni

 

Aforisma 6: Ottorino Respighi dixit

Solo-Clarinetto-Pini-del-Gianicolo

Il brano del compositore bolognese Ottorino Respighi (1879 – 1936) che ho scelto questa volta per l’aforisma è I pini del Gianicolo. Lo si trova nella suite Pini di Roma che a sua volta fa parte di un trittico comprendente anche Fontane di Roma e Feste romane, tutti brani dedicati chiaramente alla nostra capitale.

È infatti a Roma che Respighi si trasferì, lavorò e lì morì alquanto giovane.

Come fa notare Pierre Vidal nel testo di accompagnamento al CD della Deutsche Grammophone in mio possesso e contenente le tre suite eseguite dalla Boston Symphony Orchestra diretta da Seui Ozawa:

Nella sua ammirazione per l’opera, la nostra epoca sostiene ostinatamente la tesi secondo la quale la musica italiana sarebbe morta con Puccini. Questo deplorevole atteggiamento fa sì che si dimentichi la generazione dei compositori nati intorno al 1880: Respighi, Pizzetti, Malipiero e Casella, i quali operarono per la rinascita della musica strumentale, trascurata per così tanto tempo nel loro paese

Le sensazioni che l’ascolto delle sue composizioni mi dona, mi fanno vibrare di sacro furore campanilistico, quasi io mi trovi ad assistere a una partita della nostra nazionale (quando gioca bene) ai mondiali di calcio: bello sapere che, oltre alle facili melodie e armonie pucciniane, l’Italia abbia saputo dare il suo contributo anche a correnti musicali di respiro europeo, se non addirittura mondiale.

L‘ascolto di questi brani di Respighi mette infatti a nudo le connessioni profonde esistenti tra certa cultura musicale del nostro paese e le tendenze musicali introdotte da Debussy e Stravinski, facendomi anche sospettare come alcune sue intuizioni possano essere confluite da una parte nella scrittura di Aaron Copland e dall’altra in quella di molti compositori di musica da film, in testa, John Williams.

Mi si consenta una breve deviazione di percorso. Grandi divoratori di nuove tendenze, oltreché come artisti, mi piace riguardare i compositori di colonne sonore come divulgatori di avanguardie musicali capaci di sfruttare sapientemente l’accostamento delle note alle immagini così da consolidare l’uso di formule sonore innovative e, per questo, per il pubblico ancora difficili da capire e assorbire.

Fine della deviazione. Torno a parlare di Respighi.

Avendo vissuto per sei mesi a Roma – nel 2006 ho lavorato al Planetario e Museo Astronomico (1), una splendida struttura chiusa quasi due anni orsono per ristrutturazioni urgentissime, mai iniziate – ed essendomi recato nella “città eterna” innumerevoli volte come turista, ma soprattutto come musicista, non faccio fatica a intuire quale fascinazione Respighi abbia provato vivendo lì.

Rischiando di sbagliarmi, ipotizzo quindi di capire fino in fondo la sensazione di profonda bellezza colta dallo sguardo del compositore in alcuni scorci capitolini, perché credo sia molto simile a quella che chiunque può apprezzare, anche se immagino che la città vissuta da lui, quella di inizio ‘900, sia stata ben più generosa di quella di questo inizio di secolo: la Roma del 2000 immerge turisti e cittadini ben disposti a farsi colpire dalla sua estrema, indicibile bellezza, in un mare di massima entropia di difficilissima gestione. Costringe chiunque ad accettare compromessi che non credo potrebbero oggi convincere un bolognese a lasciare spontaneamente la sua facilissima e bella città preferendole la capitale.

Come dicevo, il brano che ho scelto, il lento I pini del Gianicolo, puntualmente mi calma avallando quanto ho scritto appena più su. Introdotto da un lungo arpeggio del pianoforte, credo riesca a comunicarmi quella sensazione di pace grazie all’ariosità del solo di clarinetto che segue. Interamente giocato sull’uso della semplice penatonica di Fa Diesis e sull’arpeggio di un accordo di Si 9/maj7 (mi piace vederla così) e su periodiche aperture di ottava, tocca elegantemente l’estremo inferiore dell’estensione dello strumento e arriva quasi a raggiungere anche l’estremo superiore. Cede poi il testimone al flauto che in poche battute conduce il tema fino a cederlo agli archi.

Ma, per quanto mi riguarda, nonostante la soavità dei temi iniziali, il bello deve ancora venire: dopo questa fase iniziale, a mio parere una lunga preparazione a ciò che sta per arrivare creata con pianoforte, clarinetto e flauto, si giunge a due battute nelle quali provo un incredibile sensazione di smarrimento creato da pochi, sognanti accordi degli archi e della celesta. Se vi è notizia di una sindrome di Stendhal in musica, credo che gli accordi di quelle due battute, apice del brano, possano essere usati per generarla nelle persone più sensibili.

Rispettando i motivi per cui registro questi aforismi che, oltreché occasioni di studio, costituiscono essenzialmente un modo di “fare mie” prede musicali rappresentanti momenti fondamentali della mia storia musicale personale, mi sono sforzato di andare a tempo con l’orchestra tentando di intuire, senza vederli, i movimenti, quindi i respiri, di Ozawa. Ovvio che il tentativo presenti dei problemi specie su un tempo così lento, a tratti un rubato, come quello del brano. Chiedo venia per le imprecisioni in quello che nei miei programmi doveva essere un unisono.

In conclusione, mi sa che prima o poi dovrò riaffrontare un discorso più ampio di analisi della musica a programma che si propone di descrivere pezzi di Natura. Un’analisi che ho già compiuto limitatamente ad alcune composizioni d’ispirazione astronomica di John Cage. Pubblicata su Il Giornale di Astronomia (2) e raccontata tante volte in giro per l’Italia, sono contento di annunciare – è una notizia di ieri! – che in Agosto avrò modo di andare a parlare di questa mia analisi all’INSAP (3)!

SZ

1 – http://www.planetarioroma.it/

https://squidzoup.com/2015/02/01/sullispirazione-fornita-dai-fenomeni-astrofisici/

2 – http://sait.interlandia.net/giornalediastronomia.html

3 – http://www.insap.org/

Aforisma 5: Charlie Parker dixit

Solo-di-Charlie-PArker-su-Billie's-Bounce-1Solo-di-Charlie-PArker-su-Billie's-Bounce-2

Lo scorso 8 Gennaio mi sono imbattuto in una fotografia pubblicata da un musicista mio amico su Facebook. In essa, un sorridente Pino Daniele sedeva a un tavolo in giardino. Davanti a lui vi erano una chitarra, un amplificatore, alcuni CD e un libro famoso tra chi pratica certi generi musicali: il Charlie Parker Omnibook (1).

La cosa non mi ha sorpreso più di tanto: della serietà del suo approccio alla musica, argomento di un mio recente post (2), credo non si possa dubitare e quella foto me lo ha confermato ampiamente.

Perché puoi anche decidere di fare del Pop; puoi anche scoprire che la tua storia ti ha condotto altrove, laddove magari hai pure dato vita a generi diversi, ma credo che almeno un passaggio da certe stazioni della storia della musica mondiale sia obbligatoria. Quello che musicisti come Parker hanno scoperto, quello che hanno detto e scritto, lo si trova masticato, digerito, metabolizzato finache negli assoli dei più grandi rocker come anche in quelli dei più cattivi metallari; negli arrangiamenti di musica da film e in quelli di certa disco-music.

Ignorare, trascurare le creazioni dei geni del passato, recente o lontano che sia, equivale a non avere cultura musicale, quella che fonda da lontano tutto ciò che ascoltiamo, dai più miseri accordi delle canzoncine per bambini alle composizioni di musica contemporanea nate proprio in opposizione a regole precedenemente codificate. Ascoltando un qualsiasi brano moderno, si sta dando per scontata l’esistenza di giri armonici scaturiti dalle ricerche all’epoca trasgressive di una miriade di compositori classici nati prima del ‘900 e di altri, autori classici e jazzisti, nati nel XX secolo.

Credo che per generi come il blues vada fatto un discorso un po’ diverso ma, ne sono convinto, anche per un bluesman è caldamente consigliato studiare i “classici”… Non si possono certo ignorare alcuni nomi che per quel genere hanno la stessa importanza di Beethoven o di Brahms!

É per questo che a volte mi fa sorridere la pretesa di alcuni di suonare jazz senza passare da un ascolto attento e da almeno un tentativo di riproduzione dei discorsi di personaggi che hanno letteralmente causato alcune svolte epocali dell’idioma jazzistico.

Di quell’idioma, il be-bop è una particolare variante rivelatasi virale dopo l’arrivo sulla scena di Parker, da molti considerato il padre di questo nuovo modo di suonare. Nato quindi come modo proprio del giovane Charlie di approcciare la musica, il be bop, spesso detto brevemente bop, è divenuto un dialetto parlato da una comunità sempre più vasta di musicisti che, suonando in giro, hanno infettato il resto del mondo della musica del secolo appena trascorso. E come sempre accade, le mutazioni subite dal bop per adattarsi alle diverse nicchie ambientali, hanno generato nuovi fecondi rami dell’evoluzione musicale. Un esempio ne è la lingua parlata dal parkeriano Phil Woods, musicista al quale di recente ho dedicato un post in questo stesso blog (3).

Studiare Parker assume quindi lo stesso carattere dell’affrontare il latino di Seneca o di Virgilio, il greco di Omero, l’italiano di Dante, l’algebra di al-Khuwarizmi o di Gauss e la geometria di Euclide: è un modo per far proprio il passato così da rafforzarlo o, se si riesce, così da portare avanti il discorso già condotto fino a lì da personaggi che hanno detto cose fondamentali per l’intera cultura umana.

Per poter andare davvero oltre e, nel caso, per avere consapevolezza di star dicendo  qualcosa di nuovo, è necessario conoscere almeno le pietre miliari della tradizione del paese nel quale si è deciso di vivere.

Vuoi far musica? Bene, ascolta moltissimo e leggi qualcosa delle glorie del paese musica: affronta Bach, di Mozart, di Stravinskji, di Coltrane, di Bill Evans, di Corea… Se non lo farai, forse riuscirai lo stesso a raccontare una storia interessante, ma molto probabilmente sarà tale solo per chi come te ignora da dove veniamo. Per tutti gli altri, si tratterà soltanto di un simpatico far finta che; un curioso trastullarsi col già detto, glorificandosi di aver trovato l’acqua calda.

Se Parker con i suoi temi e le sue improvvisazioni correva a 300 di metronomo, non era certo per vacuo sfoggio tecnico: quelle frasi gli servivano per esprimere ciò che viveva un nero di Kansas City arrivato nella Grande Mela sul finire degli anni ’40 del secolo scorso. Grazie ai voli di Bird (4), a circa settant’anni da quel periodo e a quasi settemila chilometri di distanza da quei luoghi, possiamo avere una qualche possibilità di ricostruirne le atmosfere, di rivivere parte di quelle sensazioni da lui e da altri provate (il fatto stesso che il suo modo di suonare abbia riscosso un così grande successo, ci garantisce che il pubblico di quel periodo avesse corde capaci di vibrare per simpatia con le note emesse dal suo sassofono) nel tentativo di capire da dove vengono le tensioni, le suggestioni e le angosce tipiche del tempo che viviamo.

Andare veloci sullo strumento non significa quindi esibire qualità ginniche o, perlomeno, non dovrebbe essere solo quello. Vi è un certo indubbio autocompiacimento nel saper emettere cascate di note, tutte di uguale intensità, tutte legate, tutte scandite e pronunciate con la giusta decisione, ma invito a rivedere quelle stesse frasi anche sotto una luce diversa: si consideri sempre che, quando sincere e non semplice espressione di un pedissequo esercizio, si tratta pur sempre del frutto del pensare velocemente: è capacità di organizzare il materiale sonoro in una concatenazione di immagini mentali aventi senso; è un’organizzazione di eventi, di movimenti, di analogie, contestualizzati nel mentre si improvvisa su un argomento musicale proposto da altri che discorrono con te.

Viste in questo modo, quelle note veloci sono da considerarsi al pari di teoremi matematici; al pari di fini pensieri politici, economici, filosofici; al pari di pennellate frenetiche o di scarti danzati alla Pollock su di una tela o alla Nureyev su di un palco. Insomma, quelle note  hanno la dignità del più puro dei concetti. Sono esse stesse idee appartenenti a un mondo volatile che fa il suo ingresso nel reale portato dal suono e che altrimenti albergherebbero parte in un iperuranio di curve pure, parte nel più profondo e insondabile recesso del nostro inconscio.

Tempo fa lessi un articolo in rete in cui si elogiava l’andar piano nel suonare. A scrivere era un sedicente jazzista il quale però, suo malgrado, toccava involontariamente un punto fondamentale: a un certo punto si può, anzi, si deve scoprire quale sia la propria cifra espressiva. Non si può rifare sempre il verso ai grandi della storia del pensiero, pretendendo al contempo di dire qualcosa di originale. Se sai suonare Parker alla perfezione, vengo volentieri a sentirti una volta, ma poi compro i suoi dischi, non i tuoi. Vado alla fonte e non bevo sciacquatura (che potrebbe far rima con “spazzatura”).

La lentezza che ha un senso è quella ottenuta accantonando la velocità perché, dopo averla raggiunta, si è scoperto che non ci interessa. Similmente, se il motore Fire della mia vecchia Fiat 600 andava benissimo alle basse velocità consentite nei centri urbani, lo si doveva al fatto che qualcuno da sempre studia come far correre una Formula 1 a 300, non di metronomo, ma in autodromo.

Insomma, viva la lentezza se è il frutto di una scelta consapevole. Se, dopo aver affrontato seriamente lo studio di chi ti ha preceduto, d’un tratto scopri che il tuo mondo musicale è quello delle frasi diradate, dei ritmi lenti, dei sussurri e delle assenze, più che dell’urlo e delle presenze, fai bene a rallentare, a concentrarti su una poetica dal respiro meno frenetico.

Se però non passi dai classici scegliendo di percorrere comode scorciatoie, se pensi che a farlo ti autorizzi il suonare uno strumentino poco conosciuto o col quale in pochi sanno cosa sia davvero possibile suonare; se speri che per questo nessuno ti chiederà spiegazioni su come mai hai evitato di andare almeno per un po’ lungo la strada principale, sappi che infinocchierai moltissimi, ma a un orecchio allenato risulterà chiaro come tu abbia aggirato l’ostacolo scegliendo di non frequentare quella palestra fondamentale.

Le tue frasi lente non avranno mordente, pronuncia, intenzione, ritmo (sì, ritmo. Ce ne vuole tanto anche per andare lentamente). Alla fine, si scopre che non stai suonando jazz. Va benissimo così: ti ascolto lo stesso, ma confessa e dimmi (e ditti) una volta per tutte che stai facendo altro. Non è jazz se sai solo suonare (male) il tema di uno standard e poi, incosciente, hai anche il coraggio di lanciarti in una improbabile improvvisazione. Chi non conosce la musica si farà fuorviare dal tuo ardire, leggendolo in modo errato come consapevolezza, ma tu saprai che non è così. Tu saprai che ti sei lanciato nel buio con la speranza che a salvarti ci siano sempre il tuo pianista, il tuo contrabbassista, il tuo batterista e quel certo odore di jazz che il locale o la situazione regalano alla tua persona lì sul palco.

Ho parlato di pronuncia, di mordente, di ritmo. Aggiungo sincopi, fermate brusche, virate, ripartenze al fulmicotone o ritardate di quell’epsilon che fa soffrire chi impaziente attende la nota successiva. Molti riassumono tutto questo in un termine abbastanza oscuro di cui noi che frequentiamo certi ascolti amiamo far pensare di conoscerne il significato. Inoltre cerchiamo di far passare anche il concetto che si possegga ciò che esso rappresenta.

Il termine fatato è swing e, lo garantiscono tutti: se ascolti, se studi, se provi a rifare per un po’ quello che i maestri hanno fatto, qualcosa dello swing lo capirai, ti rimarrà addosso. Poi è anche vero che quando ti proverai a suonare le tue idee, si paleserà subito quale percentuale di swing tu possieda, quindi anche se ne sei completamente privo. Ma questa è un’altra storia.

L‘aforisma al quale questo post è dedicato è l’assolo su Billie’s Bounce di Parker e, esattamente come accade a tutti i musicisti, a tutti gli oratori, a tutti coloro i quali in qualche modo si esprimono (quindi a tutti…), il modo parkeriano di parlare tradisce una certa bellissima limitatezza di frasi da lui collocate sempre simili, spesso uguali, in particolari punti delle composizioni sue o altrui.

Ad esempio, considerando lo spartito che trovate in alto in questa stessa pagina e tratto dal già citato Omnibook per strumenti in C, la frase che inizia a battuta 22 sull’accordo di G- di Billie’s Bounce la si ritrova molto simile, nell’ordine: ai righi 21 e 29 di Anhropology; al rigo 6 di Celerity; al rigo 8 di Au Privave; al rigo 20 di Constellation; ai righi 18 e al 34 di Ko Ko; al rigo 22 della prima versione e al rigo 13 della seconda versione di Kim; al rigo 7 di Barbados; al rigo 3 dell’impro su Now’s the time; al rigo 9 di Ah-leu-Cha; ai righi 5 e al 16 di Klaun Stance; al rigo 14 di Card Board; all’inizio di Bird gets the worm, ma anche al rigo tredici dello stesso brano; nell’ultimo chorus dell’allegrissimo e spensierato Visa e alla riga 13 dell’impro su Passport; al rigo 13 di The Bird; al rigo 12 di Steeplechase;  al rigo 24 di Merry-Go-Round;  ai righi 11, 19, 21 e 27 di Leap Frog; al rigo 7 di Si Si; …

In tutti questi brani, eccezion fatta per una delle volte in cui viene suonata nell’impro di Leap Frog, la frase in esame viene usata sul C7 o, quando viene annunciata con un arpeggio, sul G- precedente da dove poi si espande sulla risoluzione in C7.

Provando un po’ a suonare i vari assoli riportati nel libro, si scopre come – geniali deviazioni a parte, frutto dell’ispirazione momentanea o forse di meravigliosi errori – su ogni blocco di accordi Parker avesse a disposizione tutta una serie di frasi direi “preconfezionate”, vere e proprie frecce da scagliare al momento opportuno col suo arco contralto.

Il discorso poi, dagli accordi va allargato alle diverse tonalità: per ognuna di esse, disponeva di un intero repertorio prêt-à-porter di blocchi di idee diverse da usare a suo piacimento. Forse qualche sassofonista potrà confermarmelo: ho la netta impressione che la scelta di quali suonare fra quelle da lui immaginate, fosse il risultato di una selezione ulteriore compiuta fra quelle che, in una particolare tonalità, si dimostravano più facili da eseguire sul contralto.

Difficile allora trovare la frase sotto esame in un assolo in A bemolle. La locuzione di Billie’s Bounce che ho selezionato come esempio, quel modo di dire tutto parkeriano, andava bene in C o in F e veniva usata ogni qualvolta Parker si trovava a passare da una struttura II V I come ad esempio la sequenza di accordi G- C7 F o D7 Gm C7.

Con questo non voglio certo dire che il buon Charlie Parker non fosse un genio. No di certo. Sarei un folle anche solo a pensarlo. Il senso di questo discorso piuttosto vuole essere che la lingua da lui parlata e, in buona parte, da lui inventata, si compone di pronuncia, di cadenze, di pause sapientemente usate a creare suspance. Inoltre nella ricetta vanno incluse diverse frasi fatte, modi di dire, detti, motti, frasi idiomatiche esattamente come accade con le lingue parlate composte esattamente dalle stesse cose.

Uno dei primi passi da compiere per farsi accettare in una comunità è impararne la lingua, i detti, il dialetto, la cadenza (la calata), i termini, gli idiomi. Purtroppo tutti, sia quando parliamo che quando scriviamo, andiamo incontro a ripetizioni: come è normale che sia, possediamo una limitata conoscenza di termini e di verbi e una limitata capacità di impararne di nuovi. Possediamo anche una limitata memoria di come grandi autori hanno usato il materiale linguistico e il tutto ha a che fare solo con i limiti naturali del nostro cervello.

Ma non è poi così grave: è facile scoprire che lo stile di un grande scrittore è spesso contenuto non solo nel suo particolare punto di vista, ma anche nei suoi limiti che ce lo rendono riconoscibile tra tanti: la struttura sempre simile data alle sue frasi, i termini che usa più di frequente per definire le situazioni e gli oggetti che capitano sotto il suo occhio di descrittore; quel respiro sempre presente nei suoi periodi; il suo uso della punteggiatura.

Il jazz è un paese che parla tantissimi dialetti, tutti derivati dall’uso della lingua madre che è stata creata dai suoi Dante, dai suoi Omero, dai suoi Shakespeare. Parker è uno di loro. Se non studi un po’ cosa ha detto per poi progressivamente prenderne le distanze con intelligenza e sincerità, procedendo lungo un percorso tutto tuo, sei solo uno straniero in terra straniera (5), e tale rimarrai.

A pensarci bene, può andarti alla grande: anche il pubblico del jazz sta cambiando, convinto che sia jazz ciò che è spesso solo jazzato. Convinto che una svisata sia quanto di più jazzistico si possa chiedere alla vita. Ma sia io che te lo sappiamo: stai barando a un tavolo attorno al quale chi assiste non conosce il gioco e le sue regole.

Io posso essere molto cattivo con me stesso e spesso, quando suono, mi dico alcune delle cose che hai appena letto. E tu?

SZ

1- http://en.wikipedia.org/wiki/Charlie_Parker_Omnibook

2- https://squidzoup.com/2015/01/06/aforisma-4-joe-amoruso-dixit/

3- https://squidzoup.com/2014/12/27/aforisma-3-phil-woods-dixit/

4- “Alcuni lo attribuiscono alla sua passione per le ali di pollo fritte…
Altri al fatto che un giorno, girando con la macchina in campagna, investì un pollo (Bird o Yardbird uccello da cortile). si fermò raccolse l’animale, e lo fece cucinare dal cuoco dell’albergo. E con grandi cerimonie ne offrì a tutti coloro che erano a cena con lui quella sera… A me piace pensare che fosse perchè prima di ogni esibizione, diceva a chi stava accanto a lui: ” ora si comincia a volare ” …A New York City gli dedicarono,  un locale di Jazz sulla 52^ strada. Il famoso “Birdland” appunto…” (ho trovato questo testo alla pagina: http://www.germanoantonini.it/1/aneddoti_curiosita_582266.html)

5- Titolo di un famoso romanzo di fantascienza di Robert Heinlein

Aforisma 4: Joe Amoruso Dixit

Solo-su-E-po'-che-fa'

Il successo di tanti nostri cantautori, si sa, gli è stato regalato da testi molto poetici che pretendevano di diventare canzoni. Da noi, in Italia, terra del bel canto e dell’operetta, un buon testo sorretto da musica semplice e ben arrangiata oggi risulta essere un’accoppiata  vincente: è il trionfo del concetto di canzonetta, quella che fa fare incassi facili perché si innesta nel cervello della gente e da lì non la smuove più nessuno. Quella che ancora piace tanto al mercato discografico che oramai mercato più non è.

La commistione di buon testo e di buon arrangiamento che indora musica spesso banale funziona esattamente come un tempo funzionava un buon libretto sostenuto da poche idee melodiche molto cantabili e da una buona orchestrazione. Sono tutti furbi accostamenti capaci di regalare l’impressione di star ascoltando chissà quali chicche musicali estremamente belle e ricercate.

Il problema sorge quando a un falò ferragostano, il principiante di turno prende una chitarra e inizia a intonare una di queste canzonette. In quel momento appare chiaro quanta parte il testo abbia avuto nel decretare il successo di un brano, ma soprattutto emerge subito quanto importante sia stato il sostegno dato dai musicisti che hanno suonato nel disco e che hanno aggiunto sapore a ricette musicali di cantanti molto noti ma spesso incapaci di suonare e di comporre qualcosa di interessante.

Quando si usa una chitarrina strimpellado i quattro accordi riportati in una raccolta di canzoni, capita di frequente che quelle composizioni risultino ricette del tutto insipide, se non addirittura brutte. Il lavoro del turnista, quel musicista esperto del suo strumento che viene chiamato in studio per aiutare a costruire i progetti musicali di altri, è perlopiù questo: fornire l’indoratura a un nulla musicale. Se lui è bravo, se lo sono i suoi colleghi e se l’arrangiatore non è l’ultimo arrivato, assieme renderanno quel nulla un brano di successo.

A un certo punto della serata, se il chitarrista da falò non è un musicista con un po’ di esperienza, capace per questo di dare ritmo e variazioni interessanti a quanto sta suonando, agli altri potrebbe venir voglia di strappargli la chitarra dalle mani e usarla per fare un doppio favore alla comunità: interompere lo strazio e rintuzzare il fuoco.

Nel grande falò dell’Italia della fine degli anni ’70, avvenne qualcosa di strano: in un clima perlopiù canzonettaro, arrivò un personaggio che, oltre a bei testi, a volte struggenti, a volte allegri e cantati in uno dei più bei dialetti dello stivale, aggiunse 1) una voce particolarissima, 2) accordi così diversi da quelli di solito usati nella musica leggera da mettere subito fuorigioco tutti i chitarristi improvvisati, 3) ritmi per nulla banali e 4) una band di professionisti ai quali finalmente si permetteva di suonare sul serio e non di far finta, come spesso accade di sentirsi chiedere quando si lavora in ambiente pop.

L‘aspetto incredibile di questa storia fu che l’italiano medio – cresciuto a interminabili filastrocche dalle parole bellissime, ma spesso sostenute da musiche insulse, noiosissime e sempre uguali – quando si trovò ad ascoltare per la prima volta la musica di quel personaggio nuovo, si dimostrò subito capace di apprezzarla, di capirla, di comprarla.

E questo accadeva nonostante le atmosfere e gli arrangiamenti di quei brani fossero del tipo che di solito viene connesso a generi come il jazz e il blues, quindi di preconcetta difficile fruizione.

La domanda che mi sono posto altre volte, torna allora prepotente: il successo di alcuni prodotti dipende davvero da quanto il pubblico dimostra di gradirli o è piuttosto funzione di ciò che, tramite una azione precisa, potente, capillare, il mercato ci porta a credere che sia il meglio del meglio?

In ogni caso, domandone a parte, il miracolo risultò compiuto: anche il razzista più incallito, si vantava di sapere a memoria le canzoni di quel personaggio nuovo e lo dimostrava storpiando in modo insopportabile la lingua propria di quanti aveva sempre disprezzato e che avrebbe ripreso a osteggiare proprio in questi anni, anche se in modo più subdolo (però avrebbe continuato a cantare Napule è)

Grazie a questo personaggio nuovo, il sud venne così ad avere un nuovo rappresentante che prima, molto prima di essere italiano, era 1) napoletano e 2) meridionale. Il Regno delle due Sicilie in qualche modo tornava a vivere nella cultura, la cultura delle due Sicilie; la cultura delle due Campanie. In quelle parole, quelle proteste, quegli accordi, campani, laziali, pugliesi, calabresi, siciliani, molisani, abbruzzesi e lucani si ritrovavano tutti. Tutti videro in quei testi e in quelle note paesaggi, situazioni, facce tipiche del loro quotidiano di sempre.

Lui, il personaggio nuovo e i suoi artisti non si presentavano certo come i nostri chansonnier più noti, quelli dall’aria intellettuale e macerata nel cocktail della loro pretesa genialità. Alle trasmissioni televisive la band arrivava come fosse appena scesa dal più scalcinato degli autobus cittadini. Una volta giunti negli studi televisivi, suonavano senza playback – e come suonavano! – , sudavano, sporcavano note che erano sempre audaci rispetto alle melodie leccate e agli accordi limati che tutti gli altri proponevano da sempre.

Suonavano e andavano via lasciando il pubblico con il dubbio che fare musica a un certo livello forse non fosse poi cosa da tutti.

La loro esibizione instillava negli astanti l’idea che la musica andasse rispettata perché lontana da quello che di solito erano abituati a sentire. Potevi anche sapere tutto degli accordi “strani”, ma essi sembravano diventare musica solo perché a suonarli erano “animali” che avevano una storia da raccontare che proprio non poteva essere taciuta. Forse è proprio così: in assenza di animalità e storie interessanti da narrare, quegli accordi non sono altro che accrocchi di suoni e, se lui lo desidera, puoi anche mandare tuo figlio a lezione di piano, di chitarra o di chissà quale strumento: sarà di sicuro un’esperienza formativa, ma questo non vorrà dire che automaticamente lui diventerà un musicista. Quella è un’altra faccenda che ha a che fare con un’emergenza espressiva, quella che il personaggio nuovo e i suoi musicisiti chiaramente possedevano.

Quel tale non era stato solo capace di sconvolgere il mondo del pop italiano. Possedeva anche il pregio di radunare attorno a sé un manipolo di adattissimi disadattati (almeno così all’epoca mi apparivano), tutti grandi musicisti e personaggi anche loro, per i quali accordi di tredicesima, sincopi, assoli da suonare per sostenere una canzone, fosse stata anche una canzone d’amore, erano una banale normalità.

Tra le soprese che tutti attendevano a ogni sua uscita discografica, ve n’era una che, mi sa, eravamo in pochissimi a bramare. Nei suoi nuovi dischi ci sarebbero state parole nuove, immagini dal basso di un sud incantato e sofferente, arrangiamenti da copiare. Per me che avevo iniziato a suonare da pochi anni, quegli accordi erano mondi da esplorare attentamente, nei quali perdermi sognando, come tutti i miei coetanei alle prese con la musica, che se li avessi fatti miei, un giorno quel personaggio nuovo avrebbe potuto chiamarmi a suonare con lui.

Quella sorpresa ulteriore che dicevo e che attendevo a ogni sua uscita discografica, era la presenza di un brano suonato con il mio strumento preferito. Davanti a un LP, il mio primo gesto era sempre quello: aprire la confezione alla ricerca dell’elenco dei musicisti per scorrerlo così da vedere se, in mezzo a “piano”, chitarra”, “basso”, “batteria”, “percussioni”, “sassofono”, …  vi fosse anche “armonica”.

La mia era vera e propria fame causata da digiuni forzati: non sapevo nulla circa una discografia specifica per quell’aerofono, non c’era ancora internet e a sud nessuno poteva aiutarmi. Sembrava che a nessuno importasse di quel suono incredibile che ascoltavo solo per caso quando mi giungeva all’orecchio da una radio, o peggio, da un’autoradio in una macchina di passaggio.

Ricordo che una volta vidi a Domenica In il personaggio nuovo con un cappellone da cow-boy in testa e la chitarra a tracolla. A un certo punto tirò fuori dal taschino l’armonica cromatica e ferì l’aria con l’aria, suonando quelle famosissime note acute che danno inizio a Je so pazzo (1979). Quell’immagine e quelle note mi colpirono come un pugno in faccia bene assestato e rimasi tumefatto per un bel po’.

Era contenuta nel suo secondo successo dopo Terra mia (1977) e a questi due dischi seguì un capolavoro assoluto: Nero a metà (1980). Nonostante su Je so pazzo fosse lui stesso a suonare l’armonica, il personaggio nuovo non era certo un virtuoso di quello strumento (*) e in questo suo terzo disco, nella canzone I say ‘I sto ccà, preferì chiamare il buon Bruno de Filippi, decano degli armonicisti jazz italiani, il quale si trovò a poggiare le note leggere della sua chromonica su un blocco sonoro solido, entusiasmante e magistralmente costruito dal gruppo.

Impossibile non passare alla storia. Impossibile che la storia ti ignori.

Non credo vi siano altre canzoni con l’armonica dopo Questa primavera, contenuta nell’LP Che Dio ti benedica (1993). Lì l’armonicista era ancora lui, il De Filippi.

Tra la pubblicazione di I say ‘I sto ccà e Questa Primavera sono intercorsi ben tredici, lunghi anni durante i quali la mia speranza di trovare quel suono nei suoi dischi è sempre stata frustrata.

Unica parziale eccezione, l’assolo su E po’che fà, un brano davvero solare contenuto nell’album dell’82 Bella ‘mbriana.

Breve ma a mio parere bellissimo è l’assolo del pianista Joe Amoruso, stavolta alle prese con la melodica, per suono e per funzionamento (ancia libera) una parente stretta dell’armonica.

Qui, oggi, protagoniste sono quelle note alle quali affido il mio ricordo di un periodo stupendo e irripetibile della musica italiana.

SZ

(*) Non lo era, ma non suonava poi così male. Lui però si rese conto dei suoi limiti e in seguito chiamò a suonare con sé un armonicista davvero esperto. Oggi la tendenza mi sembra essere ben altra: se qualcuno si dovesse scoprire capace di suonare quella linea iniziale, sarebbe immediatamente portato a credere di essere un jazzista arrivato, nonché un navigato armonicista cromatico.

Aforisma 1: Stan Getz Dixit

Solo-o-grande-amor

L’assolo di Stan Getz sugli accordi di O grande amor fa parte di quella lunga serie di idee che hanno condizionato il mio modo di intendere la musica in generale e il jazz in particolare.

Contenuto in un disco storico, lo ascoltavo quando capitava di andare a casa dei miei zii Francesco e Ornella. Lui aveva una collezione invidiabile di LP dalle bellissime copertine e Getz-Gilberto era uno dei suoi, quindi dei miei, dischi preferiti.
Come si evince facilmente dal titolo, in quel vecchio 33 giri suonava il sax del musicista statunitense il quale ricamava incredibili melodie impiegando solo una frazione del fiato da lui insufflato nello strumento. Il resto finiva tutto ai lati dell’imboccatura – almeno questa è l’impressione che ancora mi regala l’ascoltarlo – dando alle note del suo tenore un’”aura d’aria”, un “soffiato” che ne addolciva ulteriormente il suono.
Sulla scorta dell’entusiasmo che quella registrazione mi aveva suscitato, ho ascoltato altri dischi di Getz e uno, quello registrato in duo con Bill Evans dal titolo enigmatico (Stan Getz & Bill Evans), l’ho pure comprato a scatola chiusa: due nomi del genere non potevano che essere garanzia di goduria uditiva!
Ho così scoperto che la magia del suono e delle idee di Getz sono per me contenute solo in quel primo disco con Joao Gilberto alla voce e alla chitarra, Antonio Carlos Jobim al piano e con la voce aggiuntiva di Astrud Gilberto. Negli altri suoi LP, il mondo di Getz non mi piacque affatto e il mio rifiuto per la poetica in essi contenuta mi faceva risultare il suono di quel sax acidulo, addirittura. Mi ricordava quello grezzo e immaturo di un sassofonista classico alle prima armi, quindi non certo meritevole di un ascolto prolungato.
Come si può intuire, il problema stava in me e non certo nel modo di suonare di Getz anche se credo che mai come in quel disco, la grandezza di un musicista si sia rivelata essere il frutto non solo della sua personale genialità, ma soprattutto dell’incontro fortunato con altre menti, con altri pensieri affini al suo quali di sicuro sono stati quelli dei sudamericani su citati (Getz aveva una certa predilezione per le atmosfere bossa nova).
A rendermi difficile accettare altri suoi dischi che non fossero quello, vi era anche l’unicità dell’atmosfera gioiosa di molte domeniche con nonni, zii e cugini (da quegli ascolti sono nate professionalità nella musica per ben tre di noi nipoti…) di cui Getz-Gilberto era spesso colonna sonora. Evidententemente gli altri lavori di Getz presentavano tutti lo stesso problema: non erano presenti in quella particolare discoteca, disponibili per sottolineare grandi abbuffate condite da risate e chiacchiere rilassate. Capitava spesso che i sottofondi musicali di quelle Domeniche fossero brani di musica classica (di alcuni di essi parlerò prossimamente) per i quali, guarda caso, vale lo stesso discorso fatto fin qui a proposito di Getz/Gilberto.
Qualsiasi sia stata l’origine della magia nata attorno a quell’LP che ho ascoltato fino alla noia, ancora oggi risulta per me così tanto importante da voler iniziare una nuova rubrica di aforismi musicali del mio blog proprio con quelle note.
Tempo fa trovai un libro con le trascrizioni di alcuni assoli di Getz e, con mia grande sorpresa, scoprii che molte erano tratte da brani contenuti nell’LP citato. Mi sa che in futuro proporrò altri pensieri getziani prendendoli da lì.
Purtroppo tra i brani di quel disco scelti dal trascrittore, non vi era O grande amor, il mio preferito, ed è per questo che mi sono sentito chiamato in causa: dovevo colmare una lacuna facendo l’esercizio che tutti i didatti dicono essere fondamentale per la formazione del giovane jazzista (chiaramente qui si parla di me…).

Ho anche un altro bellissimo ricordo connesso con O grande amor. Moilti anni fa, giravo con un gruppo di Bari che proponeva un repertorio interamente brasiliano. Paola Arnesano ne era la bravissima cantante e ad accompagnarla, oltre me all’armonica, c’erano Guido di Leone, chitarrista col quale ho registrato My Foolish Harp (RED RECORDS, 2009) e l’ultimo The Night Has A Thousand Eyes (Fo(u)r, 2014); Paolo Romano al basso elettrico, Michele Vurchio alla batteria.

All’epoca proposi di aggiungere anche questo brano di Jobim al già nutritissimo repertorio di Paola e Guido. Accettarono di buon grado e così coronai il sogno di suonarlo e di farlo nel contesto giusto, sperando ogni volta (invano) di essere capace di creare con la mia piccola cromatica una magia degna di quella di Getz.

In O grande amor, il suo tenore sembra quasi suonare un’improvvisazione tematica, andando a costruire una linea melodica che definirei “necessaria”. Mi dà quasi l’impressione di essere in presenza di un brano nel brano: un pensiero musicale così lucido e pulito da riuscire a competere – forse vince, addirittura – con la bellezza del tema propriamente detto.
Nonostante sia una linea molto semplice da suonare, si scopre che rendere con una trascrizione le reali intenzioni del solista sia cosa per nulla banale. Si considerino pertanto le note che ho trascritto soltanto come una traccia utile per provare a suonare a unisono con il grande Stan Getz usando uno strumento in C come la mia armonica cromatica.

L’intero brano è da suonare attuando un lungo legato tra note e frasi. Mentre sul sassofono e su tutti gli altri strumenti a fiato è un effetto abbastanza facile da ottenere in quanto le dita selezionano di seguito le note ponendole su un’unica, lunga emissione d’aria, sull’armonica risulta molto più difficile, a tratti impossibile, a causa dell’alternanza di note soffiate e aspirate che spezza il flusso d’aria. Altra raccomandazione: meglio non provare a suonarlo in presenza di figli piccoli, specie se muniti di trombetta. 🙂

SZ

http://it.wikipedia.org/wiki/Stan_Getz

Album: Getz/Gilberto

http://grooveshark.com/#!/profile/Stan+Getz+and+Jo+o+Gilberto/22192087