CARONTE spegne una candelina (ma all’inferno non se n’è accorto nessuno)!

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Oggi Facebook mi ricorda che è già trascorso un anno da quando è uscito il mio CD 1931281_10207313078679202_6061761984519781438_n(1).jpgCARONTE – Tra Calabria e Sicilia.

La cosa non mi sorprende poi così tanto: prima o poi doveva accadere…

Ciò che invece mi sorprende è scoprire come io abbia esercitato, con cadenza quotidiana e per ben 365 giorni, la grossolana arte del rimando (“non fare oggi ciò che puoi benissimo fare domani”).

É da così tanto, infatti, che programmavo di scrivere un post di presentazione di quel CD che, detto per inciso, più che un cofanetto musicale, mi viene spontaneo considerarlo come una breve raccolta di racconti, quasi si tratti della continuazione di Storie di Soli e di Lune – racconti di sogni, racconti di scienza.

Volevo farlo per descrivere la genesi e le motivazioni che mi hanno condotto a compiere alcune scelte nella composizione/registrazione di quei tredici brani, ma pare che io abbia trovato sempre un buon motivo per rimandare il momento in cui avrei poggiato il sedere sulla sedia per mettermi a digitare queste stesse parole.

, proprio queste.

Schermata 2017-03-07 alle 15.19.41Il motivo di tale ritardo potrebbe essere che mi sono lasciato cullare dall’avere ricevuto ottime recensioni come quella fattami da Paolo Santini sul sito bluestime e quella di Libero farné su Musica Jazz.

O forse si è trattato di pudore: come molti, forse troppi, post di quest’ultimo periodo, anche quello che state leggendo rischiava di avere quel sapore di roba personale, troppo personale, che non frega niente a nessuno, da farmi desistere.

Ora, scrivendolo, ne sono certo: è troppo personale, non frega una beata a nessuno e forse lo sto creando solo per quando sarò un mio lettore. Per regalarmi in futuro qualche malinconia pilotata. Essendo questo un periodo in cui ho voglia di raccontare qualcosa pur senza avere molte nuove idee da riferire (lavoro decisamente troppo), ho deciso di scriverlo comunque ‘sto post, ecchissenefréga.

Non volendo quindi correre il rischio di rimandare ulteriormente – sarebbe oltremodo MJ febbraio 2017-1diabolico – ho deciso di riciclare il testo, rimaneggiandolo qui e là, che ho buttato giù per la presentazione di CARONTE (e di Brother Buster, CD fatto con Marco Dalpane, pianista e compositore di tutti i brani del CD) fatta proprio il 6 Marzo dell’anno scorso al Museo della Musica di Bologna e inserita in quella bellissima manifestazione intitolata Music Talk: Una carrellata di incontri nei quali i musicisti prodotti dall’etichetta a simple lunch hanno avuto l’opportunità di raccontarsi e di descrivere la propria musica.

Ecco di seguito ciò che ho detto in quella occasione:

Mi piace l’idea di parlare della mia musica

Scopro che ogni tanto fa bene che qualcuno ti chieda di raccontarla piuttosto che di suonarla.

In fondo, per sentirla c’è anche il disco, mentre per capire da dove quello che suono sia nato, ci sono solo io. E non mi avrete sullo scaffale dei CD pronto a rispondere alle vostre domande per soli 12 euro.

Per 20 euro però… possiamo parlarne.

Chissà, se fosse stato qui a parlare della sua musica, avremmo forse potuto scoprire che la nona di Beethoven è la “n” e che Vivaldi è stato il vero inventore della pizza che porta il nome della sua opera più famosa.

Che Bach in chiesa si trastullava sull’organo e che poi fu costretto a darsi alla FUGA, attività che fatta da lui diveniva arte, per non incorrere nelle ire dei fedeli.

Domenica scorsa sono stato qui a sentire e vedere la presentazione del disco di Paolo Nori e Carlo Boccadoro.

Nori ha letto magistralmente un suo lunghissimo testo, un flusso di coscienza. Ho trovato tutto affascinante e ho deciso di mettermi alla prova facendo qualcosa di analogo. Lo so, non sono Paolo Nori, ma credo che sia per me che per lui questo costituisca un enorme vantaggio. Qualcuno starà pensando: ecco, ora lo copia. Perché no?

Se vedo qualcosa che mi piace, cerco di appropriarmene, ma facendolo sempre a modo mio. Del resto, è quello che ha fatto anche Nori.

Non l’ha inventato certo lui il reading che già dal nome dovrebbe farvi capire come questa forma di comunicazione non sia nata in Italia. Almeno credo di interpretare nel modo corretto il fatto che usiamo tutti il termine inglese.

Insomma, il reading è stato inventato all’estero.

A Gallarate.

Quindi farò anche io qualcosa del tipo reading, ma giuro che, per il sollievo di tutti, sarò molto, molto più breve di Nori: quando ho scritto questo testo, il mio flusso di coscienza è durato meno, essendosi esaurito nel giro di un’oretta di qualche sera fa, dopo aver messo a letto mio figlio e aver atteso che si addormentasse.

Alla fine dell’attesa, dormivo pure io e scrivere mi è costato tanta, tanta fatica.

Questa vuole essere una captatio benevolentiae: non vogliatemene se quanto udirete non vi piacerà: la colpa dei miei insuccessi è CHIARAMENTE di mio figlio.

Tutto questo sproloquio nasce dal fatto che, essendo CARONTE un disco finito di registrare nel 2005, non ricordo più come si suona.

Bugia!

Qui e là vi farò sentire che così non è.

Il problema è piuttosto che, essendo un disco costruito in sala sovrapponendo strati di suoni, frasi, idee, … mi viene difficile riproporvelo fedelmente qui.

Per suonarlo come si deve, dovrei attendere che la clonazione faccia passi da gigante.

In realtà, ci sarebbe un aggeggio che permette, una volta studiato bene, molto bene, di attuare qualcosa del genere: si tratta di un cosiddetto looper… da cinquecento euro.

Ed è proprio per questo che stasera non suonerò, o suonerò poco, e parlerò molto del disco: non posso certo spendere queste cifre per presentare un mio prodotto che non mi farà mai rientrare delle spese.

Intanto una premessa: in quanto armonicista, sono un frustrato.

Sono cresciuto ascoltando tanta musica, soprattutto classica e jazz.

Sono passato quindi dai vari Parker, Coltrane, … monumenti ai quali si ritorna per tutta la vita.

A un certo punto però ho conosciuto un’etichetta, l’ECM, che proponeva cose molto particolari: pubblicava dischi di personaggi come Jarrett, Garbareck, Surman, Vasconcelos, … che hanno fatto dischi stranissimi, fuori dai canoni usuali.

Molti dischi pubblicati dall’ECM sono stati fatti come CARONTE: con sovraincisioni attuate da un solo musicisita e di questi progetti in solitaria sono diventato un vero collezionista.

Mi piace davvero molto questo approccio alla musica che definirei “alla Soldini”, da solo fra le onde della musica.

A volte trovo che sia più sincero: lì il musicista non cerca più l’accordo con uno o più colleghi ma si connette con se stesso per produrre qualcosa di molto speciale (che piaccia o no, lo è davvero…).

Bene, non solo non esisteva un’etichetta del genere per noi poveri musicisti mortali italiani, ma non esisteva certo la possibilità per un’armonicista di fare qualcosa di questo tipo.

L’armonica in Italia per molti è ancora quella suonata da De gregori (madonna quanto è bravo! Lui sì che la sa suonare!), da Bob Dylan (Waw!) e così via.

Insomma, quando finii di registrare CARONTE, lo inviai a un po’ di etichette che producono musica jazz.

Con mio grande stupore, molti mi dissero che era bellissimo (oggi dubito della loro sincerità) ma che non l’avrebbero pubblicato perché non avevano un catalogo dove inserire un disco così particolare.

Mi ricordo che nel 2007, durante una telefonata con un noto produttore di cui non faccio il nome, approfittando del fatto che lui si fosse assentato dal telefono per andare a cercare non mi ricordo più cosa, di nascosto prese la cornetta la moglie per dirmi: “Volevo farle i complimenti per il titolo del suo disco: è stupendo!”

Almeno una cosa l’avevo fatta bene: il titolo.

Perse le speranze, abbandonai CARONTE alla polvere dei cassetti e mi misi a scrivere titoli per i giornali, ma ogniqualvolta il pensiero mi andava a questo disco, mi intristivo alquanto: i figli sono figli e ogni scarrafone…

Nel frattempo l’ECM… non si è accorta di me, ma per fortuna oggi c’è l’etichetta A simple lunch.

Mi ha prodotto e mi ritengo molto, molto fortunato.

Parlare di CARONTE è quindi per me fare un viaggio nel tempo, anzi, due.

Il primo viaggio ho già spiegato in cosa consiste: nel raccontarvi la genesi di questo disco, vado con la mente al 2005, alle sedute di registrazione nello studio di Pasquale Morgante, studio che non è più dove ho registrato. E nemmeno Pasquale è più quello del 2005. E io invece pure.

Sentire questo disco, mi fa andare con la memoria a ciò che ero e a ciò che vivevo, che provavo.

Era un periodo della mia vita molto, molto diverso. Io ero molto diverso, border line in una società che faticavo a capire e che mi rifiutava.

O, almeno, a me così sembrava.

La mia musica fatta così, da solo, era una coralità composta da tanti me stesso che si facevano compagnia. Ero una pluralità contenuta, alla Pessoa, costretta in un corpo solo. E tutte queste dimensioni personali lottavano per avere il loro spazio.

Non riuscendo a prevalere le une sulle altre, ogni tanto si accordavano e facevano nascere progetti come Quanta.

E come Caronte.

Oggi che non sono più single, che ho anche un figlio e che non vivo più da solo con la mia cagnetta Lulamae in quella casetta divenuta nel frattempo il mio studio e il mio rifugio occasionale, se facessi un disco da solo probabilmente, anzi, sicuramente lo farei senza servirmi di sovraincisioni e altri strumenti.

Lo registrerei con la sola armonica, o con il pianoforte.

Senza reti di protezione come le sovraincisioni che diano quel senso di pieno.

Ecco, avendo conosciuto la vita in famiglia e quella in un posto di lavoro, … non ho più l’horror vacui che a volte mi prendeva.

Il secondo motivo per il quale ascoltare questo disco costituisce per me un viaggio nel passato è che ogni singolo brano in un modo o nell’altro affonda in ricordi lontani, nel tempo come nello spazio.

Qui si parla di sensazioni antiche, risalenti a quando vivevo a sud e il brano Visto da qui è in qualche modo l’equivalente della CMB per il mio universo personale, ovvero la radiazione di fondo che mi parla chiaramente di quel Big Bang, di quel momento lontano in cui tutto ha preso una forma provvisoria, ma al contempo definitiva.

Senza saperlo, lì sono diventato la persona che poi sarei stato e ogni cambiamento che ho subito o che mi sono nel frattempo dato, non è nient’altro che qualcosa già all’epoca presente in nuce.

Mi osservo da qui, da Bologna, così com’ero e mi vedo con il mio telescopio mentale, da lontano.

Di solito, quando parlo di come osservando lontano nel cosmo si scopre che in realtà si sta osservando lontano nel tempo, vien fuori sempre il tipo che dice, facendo finta di fare una domanda che in realtà è un’affermazione tesa a farmi sapere che lui sa, che “osservando così il cosmo, non sappiamo se quella stella, o quella galassia che vediamo ancora esiste. Potrebbe nel frattempo essere morta, essere sparita”.

Vero.

Osservando molto, molto lontano questo può capitare.

Ed è per questo che almeno una volta l’anno decido di scendere a sud: per assicurarmi che ancora esista.

Faccio questo viaggio interstellare con la mia Clio (prima del 2010, lo facevo con una Fiat 600!) e scopro che addirittura lì c’è luce, c’è acqua allo stato liquido.

Che c’è vita.

Aliena.

Ma veniamo alla descrizione degli altri brani.

Antica favola attuale prende le mosse da uno dei racconti di mio padre: quello che aveva per oggetto Scicli, il suo paese d’origine.

Da bambino mi figuravo questo posto come collocato fuori dal tempo e dallo spazio, sospeso come lo sono i castelli delle favole, anche se la favola di mio padre non era così tanto edulcorata, anzi.

Per diversi anni ho pensato a quel posto come a un luogo che, pur dovendo appartenere al mondo reale, fosse più un’invenzione narrativa e non vi nascondo che sono rimasto sorpreso dallo scoprire che lì vi abita gente reale che proprio non può sospettare di aver fatto parte per anni di una favola bellissima raccontata a un bimbo.

Vespro ha invece a che fare con la vita di Ettore Majorana. Tra le tante ipotesi che sono state fatte sulla sua misteriosa scomparsa, ve ne è una che lo vuole oramai morto in un convento di clausura calabrese, la Certosa di Serra San Bruno.

Ho letto molto sulla sua storia e l’idea di quest’uomo che ha deciso di obliterarsi dalla società per contemplare il mondo da un non luogo per dirla all’Augé, nonostante io non sia affatto credente, mi piace molto e mi ha permesso di immedesimarmi per un attimo nello scienziato scomparso che all’imbrunire, contempla dalla sua cella il calare delle tenebre serali su quel mondo che vuole dimenticare.

Come dicevo, non sono affatto credente, ma stando una sera a casa di amici al Corvo, una frazione di Cava d’Aliga, una località dove vado a villeggiare, guardando il mare ho pensato a quante culture diverse hanno fatto nei millenni lo stesso mio gesto.

Il Mediterraneo è un immenso contenitore di tante cose, soprattutto di culture, e contiene anche le innumerevoli preghiere cattoliche, ortodosse, musulmane e di chissà quali altre declinazioni di questi credi, pronunciate con occhi che tentavano come i miei di abracciarlo tutto in uno sguardo solo.

Se c’è un Dio – io non ci credo, ma faccio per assurdo l’ipotesi che ci sia – sarà uno e sarà necessariamente il Dio di tutti, di chi ci crede e di chi non ha fede.

Bene, allora metto le mani avanti e propongo il brano Inno al Dio di tutti: ecco il mio modo di rendergli omaggio.

Dopo tanta spiritualità, Country dance è il ricordo della festosità delle ricorrenze a sud.

Molta confusione, cibo, corpi, umori, odori, colori, quindi sovrapposizioni di voci a volume altissimo che vanno in direzioni diverse e che convergono solo su un concetto fondamentale: LA FESTA!

Entropia totale.

Lost things, sottotitolato come Paranze, mi è venuto mentre ero sulla terrazza della casa fiorentina di Salvatore Arcuri, un mio amico cosentino all’epoca studente di ingegneria.

Era il 25 di Maggio del 1997 e stavo tornando a Bologna dopo essere stato giù per il funerale di mio padre morto pochi giorni prima, il 18.

Si tratta di un lento blues in mi minore il cui titolo, una volta detto cosa era capitato, credo si spieghi da sé.

Il sottotitolo “Paranze” invece abbisogna di una ulteriore descrizione. Quelle note e l’arrangiamento che gli ho costruito attorno, riproducono anche una immagine estiva, sempre la stessa: quella di fresche mattine, ancora buie (si tratta di un ricordo davvero lontano nel tempo) in cui con mio padre andavamo a prendere il pesce fresco dai pescatori che lo vendevano direttamente sulla battigia dove erano appena arrivati con quei loro grandi barconi – le paranze, appunto – dipinti di bianco, rosso e celeste.

Ad Astor è chiaramente un omaggio al grande Piazzolla. Da sempre il mio strumento principale, l’armonica cromatica, viene dai più indicata come “fisarmonica a bocca” e si sa: meglio assecondare i troppi che vanno in una certa direzione: contrastandoli, si corre il rischio di farsi schiacciare. Dedicargli un brano, oltre che essere un modo per omaggiare uno dei grandi geni del ‘900, è stato come dire: “avete vinto voi, mi arrendo. Sì, suono la fisarmonica a bocca” (inutile dire che il bandoneon è oltre l’orizzonte culturale dei più, e condivide quel limbo proprio con l’armonica cromatica e qualche altro nobilissimo strumento). Una curiosità: il brano risale a moltissimi anni fa. La traccia di piccole percussioni che accompagna l’armonica è diventata a sua volta un brano a sé stante e compare nel mio primo disco Quanta pubblicato dalla M.A.P., da cui il titolo di quel CD. Per quei pochi che possiedono quella mia pubblicazione del 2000: se ascoltarete attentamente, sentirete in lontananza le note del brano Ad Astor che trovate in Caronte (che poi non è altro che la logica continuazione di quel primo lavoro del 2000…)

Melancolie l’ho composto a Bologna in un non raro momento di nostalgia del sud. La cosa forse interessante è che molti anni fa è stato usato come colonna sonora per Settimo love, un cortometraggio di Rosa Sferrazza, una mia amica attrice e regista fiorentina, ma con padre siculo e madre calabra che molti di voi conoscono come volto noto della televisione: faceva Zia Santina in “Fiore Calabro”: un must della cinematografia internazionale.

Il brano Luna Piena è nato invece mentre ero a Trieste dove ero per studiare comunicazione della Scienza alla S.I.S.S.A.

L‘ho scritto immaginando una scena notturna dominata ovviamente dalla Luna piena: una campagna e delle colline azzurrine per la luce lunare, un paesaggio della Magna grecia di tanto tempo fa che può tranquillamente essere calabro o siculo. Apparentemente solitario, si scopre che è invece popolato da menadi invasate e affannate, armate di tirso che vagano, ebbre di vino, seminando il terrore fra gli animali e gli uomini.

Mi sa che tutto ciò ha a che fare con una certa idea della donna che abbiamo al profondo sud: tutt’altro che sottomessa come nei film anni ‘50, è colei che tiene i fili del gioco.

Una burattinaia in un teatro matriarcale in cui all’uomo viene lasciato fare l’eroe virile, una macchietta, che arretra e soccombe, come il povero Orfeo, davanti alla possibilità di incorrere nella lucida follia di una terrona incazzata.

Urlo, strano a dirsi, nasce da un urlo.

Scaturiva dall’ostinarmi a vivere in un certo modo pur constatando quotidianamente come non fosse raccordabile con il mondo che mi circondava.

Le parole, del tutto improvvisate durante la seduta di registrazione (non avevo previsto proprio che vi fosse un testo), dicono: May day! May day! Non so se voglio uscire di casa- mi integro-non mi integro- mi integro- non mi integro- quasi quasi urlo-urlo! La seconda volta il testo è simile. Dice: May day! May Day! Ancora voi! Io non ho ancora deciso se voglio uscire di casa- la cravatta no- quasi quasi urlo- Urlo!

E Urlo.

Insomma, c’è qui e là in tutto ciò un po’ di disagio diffuso…

Alcuni brani sono autoevidenti e non credo abbiano bisogno di essere presentati.

Uno fra questi è Marranzano, italianizzazione r’o Marranzanu, strumento tipico della tradizione sicula il cui suono in parte riproduco con la mia armonica.

Un suono capace di evocare molto bene quelle atmosfere e quei paesaggi, anche se affacciandoti dall’unica finestra di casa tua magari vedi le due torri e non la chiesa di San Bartolomeo a Scicli.

Questo è CARONTE. Ha preso poco tempo raccontarvelo.

Ora mi sa che, per evitare che me le suoniate, mi convenga suonare un po’.

 

SZ

 

 

 

 

Se il libro diventa uno stand

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Sono già passati tre anni dalla pubblicazione del libro dell’INAF Astrokids del quale mi sono occupato soprattutto in veste di illustratore.

Uscito per i tipi della casa editrice Scienza Express di Daniele Gouthier, curato da Stefano Sandrelli, responsabile nazionale della divulgazione INAF, e da Laura Daricello, è stato realizzato dalle varie sedi dell’Istituto Nazionale di Astrofisica che hanno contribuito fornendo ognuna uno o due capitoli scritti da loro ricercatori.

In un mondo editoriale nel quale dopo circa tre mesi dall’uscita nelle librerie un libro è oramai morto, è alquanto rassicurante scoprire whatsapp-image-2017-03-02-at-16-28-43-3che qualcuno periodicamente fa rivivere quella nostra pubblicazione organizzando piccoli eventi basati sulla spiegazione degli argomenti in essa trattati.

whatsapp-image-2017-03-02-at-16-28-43-1Stavolta è stato fatto di più: Caterina Boccato ha  realizzato un prototipo di stand nel quale il personaggio di Martina la Tremenda, protagonista del libro nata dalla penna di Stefano Sandrelli e dai miei pennelli, assume dimensioni tali da competere in altezza con i bambini che si spera di attirare.

Non so se chiamare in causa una certa inappetenza culturale di molti italiani,  l’eccesso (secondo alcuni) di libri che vengono pubblicati – e che, se è vero quanto si vocifera, non sempre emergono da un controllo severo della loro qualità -, lo strapotere di alcune grosse case editrici che, pur senza porselo come progetto preciso, di fatto soffocano  le piccole realtà editoriali o chissà quali altri motivi; fatto sta che il libro pare proprio non farcela da solo e per aiutarne uno come Astrokids a prolungare la propria vita pare proprio non esserci altro  da fare che costruirgli attorno tutto un mondo di solidi stand, gadget, musiche, film, app, …

So che quanto scrivo può sembrare un’invettiva contro il nuovo modo di vivere le cose dawhatsapp-image-2017-03-02-at-16-28-43-2 contraporre a quello vecchio e aureo in cui il “solo” libro bastava a costruire mondi immaginati che ancora rifocillano la fantasia di persone nate nel ‘900, ma non è così.

Si tratta piuttosto della presa di coscienza –  in questo caso, compiaciuta (già, in fondo stanno usando le immagini che ho disegnato io…) – della mutata condizione del medium culturale libro che, a meno che non si tratti di uno di quelli scritti da personaggi dotati di un certo carisma e di una certa notorietà conquistata in televisione o chissà dove/come, pare proprio necessitare di ingenti ausili supplementari.

Chissà, magari ciò che sospetto è vero, o forse no. Fatto sta che ogni tanto ancora qualcuno afferma di aver visto Martina la Tremenda in giro.

whatsapp-image-2017-03-02-at-16-28-43Dicono pure che stia bene e che si diverta molto ad incontrare un bel po’ di bambini ai quali racconta le sue avventure nello spazio.

Non posso che rallegrarmene sperando che prima o poi qualcuno si decida a ripetere l’operazione curando una pubblicazione con di nuovo lei come protagonista o suo fratello, se ne ha uno.

SZ