CRONACA VIRUS – Giorno 22

                           IL SENSO DEL TEMPO, QUELLO CHE “CONDIZIONA” IL SÉ

Senza volere nemmeno lontanamente mancare di rispetto a chi in queste ore sta combattendo la sua personale battaglia per salvare la propria vita e a chi, preoccupato per lui, non può stargli vicino nel tentativo di tenere a bada l’apprensione, scopro di essermi svegliato contento.

Lo so, suona quasi come un’eresia, ma lo sono in quanto mi rendo conto che sto riuscendo nel tentativo di continuare a divertirmi così come ho sempre fatto, anzi, di più, cercando di mettere a frutto le mie passioni. Le uso per realizzare articoli, composizioni, video, disegni, … che, oltre al sottoscritto, spero risultino utili anche ad altri per solcare gli oceani di tempo libero nel quale, tutto a un tratto, ci siamo trovati a navigare insieme, ma tutti da soli.

È così che mi sveglio col coltello fra i denti, deciso ad aggredire la giornata per darle un senso, per riempirla fino a farla traboccare di secondi, minuti, ore ai quali ancorare ricordi che val la pena ricordare; azioni che, nonostante la fatica, è valsa la pena compiere.

A sera arrivo stanco, ubriaco di sensazioni diverse, di stanchezza e di voglia di raggiungere altri piccoli obiettivi che solo la tarda ora mi costringe a rimandare al giorno dopo.

Lo scopo quotidiano è andare a letto contento del consuntivo di fine giornata, felice di avere realizzato ciò che alla mattina o, più di frequente, alla sera precedente, mi ero prefissato di fare.

Mentre racconto questa frenesia da segregrazione, mi accorgo di vivere una metafora, solo una parossistica e per questo interessante metafora di ciò che, virus o meno, si fa per tutta la vita.

Vi è sempre un mondo fuori che procede imperterrito con le sue dinamiche, col tempo che ammazza alcuni – in questo periodo purtroppo lo fa con rinnovato entusiasmo – nel mentre accoglie la nascita di altri; con la spesa da fare; con le stagioni che, ostinate, continuano a darsi il cambio. Oggi mangerò e laverò i piatti; sporcherò e pulirò; e metterò ordine fra le mie cose e i miei pensieri.

Per continuare a vivere, per continuare a essere, prima ancora di essere noi stessi, dobbiamo solo ricordarci che tutto va fatto con una attenzione diversa, rimanendo desti e rendendoci conto, in ogni istante, di ciò che facciamo.

, perché questo nemico invisibile si nutre della nostra leggerezza, della nostra distrazione, facendoci scoprire quanto leggeri, distratti, un po’ rintronati e mai del tutto svegli siamo sempre stati nella nostra vita pre-emergenza.

Alle nostre esistenze forse mancava proprio questo: un nemico alle porte che ci spiegasse l’atomicità del tempo; il suo farsi quantità enorme, mesi, anni, lustri, secoli, millenni, ere, eoni, … attraverso il suo sfarinarsi finissimo; attraverso micrcopulsazioni impercettibili capaci di passare indisturbate, non registrabili, attraverso le maglie della mascherina falsamente protettiva dei cronometri più sensibili.

Percepire il tempo così finemente immagino sia ciò che letteralmente uccide chi non ha mai pensato di potersi trovare di fronte all’enormità del vuoto quotidiano da riempire.

Forse è per questo che, in barba a consigli medici e decreti, molti approfittano di qualsisasi occasione per uscire a fare due passi prendendosi così pause dal loro nemico peggiore: l’immagine di sé nel mentre socccombe, incapace di fronte all’opportunità di far fruttare il budget di tempo che gli è stato assegnato.

Chi ha sempre odiato il suo lavoro, in questo periodo sta forse iniziando a capire come mai lo ha scelto; come mai per tutte le mattine della sua vita adulta, fino al mese scorso, si è alzato dal letto e, stufo, ha sopportato per otto ore (otto ore…) l’odiato ambiente di lavoro e le operazioni routinarie che lì vengono richieste.

È probabile che oggi quello stesso ambiente con le sue odiose e odiate dinamiche da prigione dell’anima, appaia come frondosa oasi di desiderabile attività in deserti di noia; è faciel che appaia come ponte pericolante necessario per desiderare di approdare al solido fine settimana posto sette giorni più in là.

Ora che è tutto un’ora d’aria (un po’ viziata, a dire il vero…), ora che non ci sono ambienti e colleghi a infastidirci, ponti da attraversare, lunedì da odiare e domeniche da attendere perché ogni giorno è domenica e lunedì non arriva mai, possiamo scoprire che libertà significa anche sentire, avvertire a pelle il proprio tempo.

E apprezzarlo, amarlo, rispettarlo senza scialaquarlo; oppure scialaquarlo solo dopo aver deciso davvero di farlo e non perché al lavoro ci hanno detto che è il nostro turno di andare in ferie.

Credo, più che altro sospetto, che se faremo così, ci accorgeremo sul serio di quanto davvero poco sia, e che classicamente fugge.

Tra tutti i nostri cari ai quali vorremo stare vicini nel mentre lottano tra la vita e la morte, troveremo anche lui, il nostro tempo, e con lui, troveremo anche noi.

Siamo quotidianamente al nostro capezzale a vederci morire senza poter fare nulla per salvarci, per evitare il buio in fondo.

Forse dobbiamo soltanto alzarci in piedi, allontanarci dal nostro letto di ospedale – le nuove regole ce lo impongono: è necessario stare lontani dai nostri congiunti ricoverati; da quella orrenda immagine di noi stessi malati terminali – e impegnarci in qualche attività anche in assenza di un capo che ce lo imponga.

Finalmente possiamo e dobbiamo fare qualcosa, qualsiasi cosa che, nel rispetto degli altri, ci faccia stare davvero bene. Siamo autorizzati a essere autentici, a essere noi stessi (un concetto che ogni giorno potrebbe cambiare). Dobbiamo solo capire in fretta cosa diavolo questo significa.

SZ

CRONACA VIRUS – Giorno 21

… PERCHÉ DI TANTO INGANNI I FIGLI TUOI?

Ieri sera la mia amica Sara mi ha inviato in posta privata un video in cui si vedono una decina di daini brucare l’erba delle aiuole di un parcheggio, lì tra le macchine ferme da chissà quando.

A girarlo sembra essere stato il papà di una famigliola di San Lazzaro (BO) che, bisbigliando per non far far scappare gli attori di quello spettacolo improvvisato, si sente nel video mentre segnala ai figli piccoli la posizione, sul quel palco inusuale, di protagonisti e comparse.

Tutti, anche io che guardo la scena in differita, trattengono l’applauso che vorrebbe invece scoppiare fragoroso davanti a tanta bellezza.

Volendo essere sempre un po’ malizioso – non certo nei confronti della mia amica, ma delle dinamiche che hanno portato quel video a essere condiviso così tanto da giungere fino a me – non sono del tutto sicuro che esso sia stato davvero girato in questi giorni e valuto la possibilità che si tratti invece di un classico filmato di repertorio.

Mi scopro comunque propenso a credere all’autenticità di chi afferma che sia un prodotto fresco della giornata di ieri per un paio di (per me) buoni motivi. Il primo: mi va di crederlo, mi fa bene crederlo e, credendolo, non ritengo di far male a chichessia.

Il secondo: a Chernobyl (“dopo averla citata nell’articolo di due giorni fa sul papa, parli ancora di quella città? Dai, Angelo, rinnovati!”) come a Fukushima accadde proprio qualcosa di simile: alcuni articoli pubblicati a Giugno 2019 per la cittadina russa e a Gennaio 2020 per quella giapponese, raccontano di come inviati e telecamere fisse rivelarono in quei luoghi una Natura di nuovo padrona: gli animali selvatici, vinta l’oramai atavica paura dell’uomo e dei suoi accessori, si sono avventurati là dove sapere della presenza del nemico radioattivo e invisibile ha tenuto lontani noi.

Di sicuro contaminati, quegli animali raccontano di un adattamento praticamente immediato della flora e della fauna alle nuove condizioni introdotte dalle nostre azioni; fanno registrare vite più brevi di alcune specie minute e una aumentata longevità di quelle di maggiori dimensioni; testimoniano l’esistenza un nuovo equilibrio che dimostra di funzionare benissimo (“e vissero felici e contenti”).

Un equilibrio che mi fa tornare alla mente due testi di sicuro importanti: il primo parla dell’evoluzione umana tra sviluppo delle armi da una parte, e graduale comprensione di come cibarci e curare le malattie che hanno afflitto la storia della nostra specie dall’altro;

Il secondo, invece è una specie di facetime applicato al nostro pianeta e tenta, sulla base di ciò che sappiamo, di fare uno schizzo, quasi un morphing della Terra per fconsentirci di farci un’idea di come potrebbe apparire il mondo senza la pressione antropica che ogni giorno esercitiamo, relegando in territori sempre più striminziti e angusti la Natura selvatica, la Palestina del pianeta.

In qualche modo, posso certificare che anche io ho una specie di video girato da me nel quale, in modo del tutto simile a quello inviatomi da Sara, si vede chiaramente la Natura farsi strada. La scena è stata girata Sabato scorso e, guardandola, mi si può vedere mentre vado a fare la spesa.

Già al mio arrivo al Centro Commerciale dove da anni mi servo – ci vado portandomi una tensione personale che in condizioni normali potrei valutare come di, diciamo…, 5 tacche? Ok, cinque tacche – mi sento diverso. Mi sembra tutto diverso.

La prima volta che due settimane fa sono andato lì dopo l’inizio dell’emergenza, lo stesso “video” faceva vedere un me stesso molto preoccupato e con una tensione da fondo scala valutabile in dieci tacche. Preoccupato sì, ma anche molto curioso di provare come ci si sente a interpretare la parte da protagonista dei film che ho sempre amato vedere.

L’altro ieri, invece, ero un me stesso sì preoccupato, ma con una tensione di sette-otto tacche. Risultavo già più adattato alla pressione psicologica di questo periodo; più pronto alla lunga fila da fare; meno meravigliato del poco traffico, del silenzio, delle saracinesche chiuse.

Una voce interiore mi ha suggerito: “tranquillizzati: pensavi di non poter nemmeno immaginare un mondo diverso da quello che conoscevi, e invece stai già riuscendo a trovare tutto abbastanza normale. L’importante ora è soltanto tentare di rimanere vivo più a lungo possibile per poter assistere all’arrivo del nuovo e apprezzarlo per quello che sarà”.

Proprio nel mentre il corpo degli animali selvatici di Chernobyl (“ancora? BASTA!”) e Fukushima, non vedendo la radioattività come noi non vediamo il virus, torna in Natura quasi a dirle “fa’ di me ciò che vuoi. Io ti assseconderò qualsiasi cosa tu deciderai di fare di me – il mio corpo, la parte di me che stupidamente sono portato a considerare quella meno evoluta, non oppone particolari problemi al consiglio di stare al sicuro dentro casa.

Il mio cervello, invece, quello che identificavo con la mia parte più evoluta (e, a questo punto, più stupida), mi manifesta una notevole prossimità alle dinamiche del mondo fuori e mi rassicura dicendo che “sì, dai. Oramai si può abbassare un po’ la guardia”.

La Primavera, prima che nelle cellule della mia pelle, delle mie gambe, della mia pancia, …, sembra essere in quelle encefaliche dove è arrivata facendomi gemmare le sinapsi e fiorire i neuroni. Un netto rincoglionimento alla luce del Sole.

Ascolto il canto delle sirene fuori che, più che a farmi portare dai comodi flutti di internet come il pavido e pallido epigono degli eroi omerici, mi invitano a navigare il mondo come un impavido Ulisse (ho finalmente trovato una falla nelle impeccabili narrazioni omeriche: non c’è nemmeno un verso che citi un virus qualsiasi! 🙂 ).

Quel canto mi invita a comportarmi come gli animali di Chernobyl (“Bastaaaaa!!!”) e di Fukushima, ma non devo abbassare la guardia: voglio ascoltarlo, ma lo farò con le cuffie tenendo ancora ben legato il mio corpo all’albero maestro di questa piccola imbarcazione domestica. A dire il vero, non ci sarebbe nemmeno bisogno di legarlo. Al momento decisamente più saggio della mia testa, dimostra di sostenere bene la progionia e sono propio curioso di vedere fino a quando resisterà.

Del resto, non dobbiamo dimenticarci che quello umano è il corpo dell’animale domestico per definizione: se gli si dà il comando giusto, lui, docile, si distende davanti al camino e attende fintanto che non (ne) avrà la vescica davvero piena.

Forse, caro Leibnitz, se tu fossi qui, scopriresti che il migliore dei mondi possibili non era né quello di prima, né quello di ora. Prevedo, invece, che lo sarà il suo aggiornamento che in queste notti si sta gradualmente installando sul sasso sul quale scorazzavamo occupando tutto lo spazio disponibile e lasciando ovunque tracce indelebili del nostro passaggio.

Bisogna solo avere un po’ di pazienza: qui dice “Attesa: calcolo del tempo rimanente…” nel mentre la rotellina del download gira senza ancora mostrare il risultato.

Dobbiamo attendere che si scarichi tutto e poi, giusto il tempo di riavviare il sistema, tutte le nostre preferenze finalmente avranno un nuovo valore.

 

SZ

CRONACA VIRUS – Giorno 20

I GRAFICI PRECISI DELL’IMPONDERABILE, LE PREVISIONI DETTAGLIATE DELL’IMPREVEDIBILE

Tra i tanti fenomeni interessanti che in questi giorni stanno verificandosi, ve ne è uno un po’ sottotraccia che però trovo particolarmente adatto per dare il via a un chiacchiericcio sommesso e domenicale, che non disturbi chi ancora sta dormendo.

Lo vedo così perché mi sento chiamato in causa nella veste di potenziale imputato – qui si fa il processo a quelle che erano anche mie intenzioni – e in quella di spettatore ammesso all’aula di tribunale nella quale, con le porte chiuse, si svolge il dibattito processuale.

In reatà, le porte sono rimaste spalancate, ma è come se fossero ben serrate e piantonate da due gendarmi per la solita scelta della rete di ignorare alcuni dibattimenti, almeno fintanto che la discussione mantiene il suo carattere decisamente tecnico.

Si tengono tutti a distanza, in attesa di vedere se da quell’aula uscira un “sì” o un “no”, un 1 o uno 0, un giudizio netto, insomma, e che non richieda troppo impengo interpretativo.

Solo così, infatti, tutti, anche i laureati nei due atenei più importanti, quello della vita e quello della strada, potranno poi precipitarsi a scrivere sui loro profili cose del tipo: “l’ho sempre detto che di quelli lì non c’era da fidarsi!”, “sono tutti stipendiati da Sòros” e altre minkjate di questo tenore di cui la rete pare non essere mai sazia.

Ma veniamo al fenomeno.

Come ho letto in due articoli molto interessanti, qualcuno alla fine ha reagito a quel tentativo non richiesto di “dare una mano” all’interpretazione dei dati offerto da fisici e, soprattutto, astrofisici.

Nell’erba alta delle discussioni sui social circa la diffusione del contagio, negli ultimi giorni si è osservata di tanto in tanto una strana florescenza di grafici smongoli che interpolano i numeri di morti, ricoverati e guariti forniti da regioni e nazioni e pare che in alcune bolle facebookiane il fenomeno sia così intenso da meritare addirittura l’appellativo di Epidemia di epidemiologia da poltrona.

Vestendo la sicumera che regala l’assunzione grautita del valore delle costanti di integrazione, elevandosi più dell’esponente da dare a un numero di Nepero, un’intera gerarchia di ricercatori si sono lanciati nella valutazione delle impennate delle cifre dei contagi o del loro tentennare che disegna un accidentato plateau.

Questo li ha portati a soccombere all’emergenza espressiva e, senza dirlo davvero (in quei post si lascia spesso fare al motto chi ha orecchie per intendere, intenda), hanno espresso cosa secondo loro accadrà.

Piuttosto che essere sempre e soltanto il trastullo innocente e social di fisici e astrofisici cresciuti a pane e dati, in alcuni casi il frutto di simili passatempi ha avuto spazio sulle pagine di giornali a grande diffusione, dimostrando così di riuscire a polarizzare il comportamento di intere fette di popolazione, convincendole quando dell’inesistenza di un pericolo realmente incombente, quando di qualcosa di ancora più tremendo di ciò che stiamo vivendo.

Intanto questa storia pare abbia avuto la capacità di fare emergere un dato di sicuro interessante: la gente sembra ancora farsi influenzare più dai giornali che dal gossip assordante dei social. Non so per quanto durerà ancora questa situazione per cui, finchcé la cosa funziona, direi di godercela, no?

Senza prendermela qui con quanti hanno avuto la possibilità di amplificare la visibilità dei loro sudoku evoluti tramite la loro pubblicazione su canali comunicativi decisamente sproporzionati rispetto alle loro (nostre) competenze in materia di diffusione delle epidemie, qui mi soffermerei sul tentativo di tratteggiare l’identikit del generatore medio da social di quei grafici.

Si tratta, come un altro articolo diceva, di:

fisici abituati, nelle loro attività quotidiane, a pensare razionalmente ai fenomeni. Il loro compito è misurare costanti e parametri senza distorsioni e con la minima incertezza possibile, interpretare i risultati e costruire visioni del mondo che espandano la nostra comprensione dell’universo. In tal modo, sono guidati da principi molto ben consolidati come il metodo scientifico, l’idea di falsificabilità, il rasoio di Occam e in generale il rigore scientifico, in cui le ipotesi non verificate oltre ogni dubbio e in molti modi sono per impostazione predefinita considerate false. E le loro azioni sono modellate dalla certezza implicita che l’autorevolezza della loro parola, parlata o scritta, è il loro unico mezzo per portare il pane sulla loro tavola: quindi sono spaventati oltre ogni misura di rendersi ridicoli sulla carta per sciatteria o errori di valutazione.

Tra l’altro, stiamo parlando di persone molto facilmente identificabili tramite i modelli cui si ispirano e che sono noti finanche a chi vive al di fuori dei loro ambienti lavorativi. Questo è un aspetto che ritengo importante e singolare: qualcosa che accade di sicuro per gli umanisti (avranno tutti almeno un libro di Leopardi o una versione della Divina Commedia) e per alcune categorie di artisti (un pianista classico di sicuro avrà spartiti di Beethoven o di Mozart) ma che, tra tutti scienziati, mi pare di poter dire che sia riservata solo a fisici e astrofisici.

Senza infatti nulla togliere a biologi, chimici, geologi, matematici… è singolare che chiunque possa indovinare, senza tema di sbagliare troppo, quali siano i nomi degli autori di alcuni libri che di sicuro si trovano nelle librerie come la mia.

Questo credo sia uno dei problemi fondamentali (sì, volevo proprio scrivere “problemi”): oltre a crescere intellettualmente nel rispetto di idee fondamentali, esteticamente perfette, rigorose, predittive, …, studiamo subendo il fascino irresistibile di intelligenze fuori dal normale che quelle idee le hanno elaborate.

A elaborarle sono stati personaggi che spesso hanno furbescamente alimentato il loro mito con atteggiamenti a dir poco bislacchi e contingenti, in aperto, apparente contrasto con l’univocità delle loro idee così scarne, essenziali, corrette. Sono stati vere e proprie divinità del pensiero che, pur pretendendo spesso di essere anche simpatici, non possono che risultare estremamente antipatici per come si macchiano del reato di applicazione non meditata di ingiustificata tuttologia.

Molti di loro hanno davvero parlato di tutto, sentendosi autorizzati, nel farlo, dall’avere fornito contributi importanti ad ambiti nei quali è onestamente molto difficile muoversi con la disinvoltura con la quale un danzatore si appropria di un palco o con la quale un pittore riempie di segni non banali una tela bianca.

A tal proposito, giusto per delineare ancora meglio quell’identikit, stamattina mi è tornato in mente un libello che, ahimé, lessi da ragazzo e che oggi mi è costata una certa fatica ritrovare tra i libri di quei famosi scaffali di cui parlavo prima. Si tratta del dialogo tra Primo Levi e Tullio Regge, una lettura che ostenta una realtà dura a digerire: fai incontrare due teste di quel tipo e scoprirai che, specie se vi è Ernesto Ferrero che poi riporterà tutto in una pubblicazione Einaudi, il tenore delle loro chiacchiere più stupide possiede, non solo un’aura, ma anche un livello contenutistico tale da disintegrare il tuo ego, polverizzando la tua persona di fronte al peso di cotanta assennatezza, cultura, leggerezza nel trattare ciò che per altri è grave, pesante.

In particolare, trovo che quel geniaccio di Regge, nella sua ricercata (e forse poco autentica, non so) simpatia, fosse decisamente antipatico, tutto preso com’era dall’ esaltare i suoi hobby così inusuali e nel rimarcare, quando non occupato a parlare velatamente bene di sé, quanto lui fosse interessante per la bellezza intrinseca e il livello culturale delle persone che frequentava. Praticamente non andava mai al bar. Usciva solo per recarsi a congressi e si rilassava analizzando finemente, col suo palato educato, lo spettro di aromi di vini d’annata. Tutto questo ovviamente durante una lettura pomeridiana del Talmud.

Tra l’altro, in un punto del dialogo (praticamente un monolgo con Levi che, stando basso sotto rete, alza la palla per le alte schiacciate di Regge), allo spunto offerto dal chimico-scrittore quando dice:

Spesso la simpatia è un modo per contrabbandare l’incompetenza. L’Italia è piena di gente simpatica che non conosce il suo mestiere. Saper tarare la controparte è un’operazione fondamentale… Pesarla… Immagino che anche tra i fisici ci sono quelli che recitano la parte

il fisico replica:

É facilissimo. Io qualche volta lo faccio per scherzo, mi diverto a posare da competente in campi in cui non assolutamente niente. Ci riesco con una facilità incredibile. Basta iformarsi prima delle parole-chiave. Come fisico sperimenale valgo poco. Una volta mi sono fatto spiegare che cosa bisogna dire a chi costruisce acceleratori. Ci sono un paio di frasi, tune shift, aumentare la corrente di iniezione, la stabilità del campo… Le ho imparate e una volta in una cena le ho tirate fuori, sono andato avanti per venti minuti.

Qui l’autocompiacimento mi sembra talmente tanto intenso da richiedere anche il sacrificio di una autodenuncia e credo vada letto come: “se non so qualcosa, sono così intelligente da poter simulare senza essere scoperto di saperne tantissimo; almeno tanto quanto i più grandi esperti di quel campo” (che, implicitamente, diventa un campo di importanza secondaria rispetto al suo). Per non parlare, poi, della richiesta di essere valutato come persona la quale, nonostante abbia trascorso tutto il suo tempo a ragionare di cose elevatissime, sa anche stare al mondo manifesando la stessa scaltrezza di uno scafatissimo gambler da saloon. Insomma, (per me) insopportabile.

Ho preso questo modello a caso, ma avrei tranquillamente potuto citare altri mille libri dello stesso tenore (con questa frase ho ceduto alla tentazione di farvi sapere che ho letto mille libri, e che la mia biblioteca è molto più ricca della vostra) nei quali viene ostentata la leggerezza di ciò che leggero non è; la facilità di ciò che facile non è.

Il problema non credo stia nell’impossibilità di trovare leggerezza e facilità in cose ritenute definitivamente pesanti e ostiche. Tutt’altro. In quanto vittima anche io di certe letture e certi miti, mi sento investito da tanto del ruolo di eroico paladino del messaggio positivo che vuole qualsiasi argomento affrontabile e godibile da chiunque.

Qui intendo piuttosto denunciare, come ho già pubblicamente fatto in diverse occasioni, l’evidente discrasia nell’atteggiamento usato da alcuni nel dire che una certa cosa dura da digerire è in reatà molto meno dura di quello che sembra, e ciò che con i loro modi esprimono davvero.

Parlo di quel modo di fare tipico di chi, piuttosto che invitarti DAVVERO a scoprirne con lui la relativa facilità di alcuni argomenti, ti sta ancora una volta dicendo che per lui è facile e che se tu, nonostante la sua spiegazione, ancora non riesci a capirli, lui non sa più che fare.” Io, genio, ho fatto di tutto per spiegarteli, ergo, se non ce la fai a seguirmi, è solo un problema della limitatezza del cervello che ti è toccato in sorte”.

Il mestiere di fisico e di astrofisico, oltreché di sicuro interessantissimo, è certamente arduo per la difficoltà stessa dei problemi che ci si prefigge di risolvere. Purtroppo, per quanto ci si sforzi di assomigliare a quei modelli – che, beninteso, è comunque bene che esistano: sono di sicuro portatori di immensa ispirazione – che, nel mentre intuiscono la curvatura dello spaziotempo, si fanno fotografare con la lingua di fuori nel fare boccacce, nella stragrande maggioranza dei casi si scopre di essere degli ottimi professionisti e nulla di più.

Tutto ciò è difficile da digerire, specie sapendo della vecchia previsione di Wharol il quale ha preconizzato che avremmo tutti, anche noi, goduto di un quarto d’ora di notorietà.

Il futuro in cui la previsione del buon Andy doveva avverarsi dovrebbe essere suppergiù il periodo che stiamo vivendo e allora, non avendo ancora (stranamente) ricevuto gli stessi inviti che furono a suo tempo fatti a Regge e Levi, ci si autoinvita sulla rete facendo articoli, post, video (e fin qui la critica è anche per il sottoscritto…) e, purtroppo, grafici di previsione dell’evoluzione dell’epidemia.

Dico purtroppo perché alla fin fine si tratta comunque di un autogoal; della traduzione grafica di un problema dall’evoluzione ancora impredicibile per l’esiguità della documentazione disponibile e per l’impossibilità di demarcare esattamente i confini entro i quali agire.

Una vecchia barzelletta, che fa ridere solo gli addetti ai lavori, metteva di fronte all’evidenza di come per un fisico sia tutto risolvibile se solo si assume che le mucche possano essere approssimate usando delle sfere.

Un esempio che mi permette di scherzare esagerando un po’ nel dire che in questa fase, il problema della diffusione dell’epidemia può forse risultare predicibile mediante un grafico sotto la sola, plausibile assunzione che il malato quadratico medio sia una sfera. Per definizione, mentre rotola nell’ambiente, lui interagisce con i suoi simili toccandoli solo in punto delle loro liscissime superfici: quello è il punto attraverso il quale avverrà il contagio!

In uno dei due articoli, l’autore, pur ammettendo quanto possa essere divertente giocare con i numeri, si chiede se

deve un non epidemiologo attento alla scienza come me cedere all’impulso di pubblicare analisi improvvisate? Se lo facessi, aggiungerei elementi importanti alla discussione o costituirei semplicemente un’altra fonte di disinformazione ammantandomi con un carattere potenzialmente pericoloso di autorità? (traduzione mia)

Gli fa eco l’autore dell’altro articolo il quale esplicitamente invita ad ignorare coloro i quali, resi dai social ancora più autocompiaciuti, mentono nell’apparire esperti capaci di dire, per vie traverse e scorciatoie grafiche, qualcosa di importante circa ciò che non conoscono, offrendo di conseguenza false ipotesi e, nel peggiore dei casi, certezze (…). L’idea avanzata in quell’articolo è che ciò accada perché sui social

ci sentiamo più protetti dalle critiche esterne. O forse la poltrona di casa è troppo comoda rispetto alla sedia della nostra scrivania in ufficio. Inoltre, i social media non sono uno luogo dove avviene la cosiddetta peer review (un processo di revisione delle idee scientifiche operato da colleghi di chi le propone che operano segretamente per conto di riviste specializzate; nota mia), e in una situazione in rapida evoluzione nessuno ci accuserà di analisi dei dati sciatte se ci abbandoniamo a tale attività (Traduzione ancora mia. Sì, modestamente, so anche tradurre).

Quest’ultimo articolo si chiude con il condivisibilissimo e importante invito a salvare il metodo scientifico che dovrebbe valere sempre e comunque, specie per chi lo ha eletto a modo di vivere e di esprimere la propria professionalità.

Non posso che trovarmi d’accordo su queste posizioni le quali fondamentalmente non fanno altro che puntare il dito sulla forte similitudine, non dichiarata, che vi è tra previsioni compiute senza aver mai studiato seriamente, da epidemiologi, cosa davvero sia una epidemia e come si siano manifestate e diffuse quelle del passato, e quelle ottenute maneggiando un mazzo di carte da tarocchi nelle quali si assume essere filtrato, per contatto, il proprio raro talento da streghe chiaramente manifestatosi sin dalla più tenera età in innumerevoli episodi (se non ci credete, chiedete a mia madre/mia zia/la mia vicina/…)

Siamo qui dunque a denunciare astrologi evoluti mascherati da astrofisici? No di sicuro, anche se in questi frangenti assistiamo ad atteggiamenti apparentati con quelli alla lontana. Ci stiamo muovendo in un ambito che con la fisica e l’epidemiologia non ha più nulla a che fare, finendo invece di diritto solo il controllo della sociologia: una disciplina che  condivide con l’epidemiologia il bisogno di avere molti più dati a disposizione.

In conclusione, avanzo un’ipotesi di lavoro. Di fronte al vero e proprio diluvio di pareri squinternati reperibili in rete ed espressi negli idiomi più imrobabili, è anche ovvio che chi nella vita fa lo scienziato si esprima, per deformazione professionale, usando elementi propri del suo linguaggio quotidiano e metodi di analisi tipici del suo modo di approcciare i problemi in generale.

Lo fanno il geometra, il pittore, la massaia, il camionista, l’impiegato, … (se fossi martello, vedrei un mondo di chiodi) e lo fa anche lui, il fisico che prova a parlare in rete risultando ad alcuni occhi impacciato, ad altri saccente. In questo coro di notizie e pareri, ne ho visti davvero di assurdi e leggendo, ad esempio, che secondo la newsletter Al Naba (L’annuncio), organo di informazione interna dell’Isis, il coronavirus

è un tormento che Dio può mandare contro chi vuole, e Lui ne ha fatto una benedizione per i credenti. Chiunque stia sulla terra, aspettando che la piaga colpisca, e sapendo che colpirà solo coloro che Dio ha scelto, per lui sarà come la ricompensa di un martire

trovo un peccato decisamente veniale non solo che i fisici e gli astrofisici pubblichino grafici con la delirante pretesa di dire qualcosa di anche solo lontanamente giusto nel superenalotto di ciò che capiterà davvero, ma anche la notizia – che evidentemente proprio non poteva non essere comunicata – della richiesta ufficiale inoltrata dal Papa a un destinatario non meglio identificato di un intervento miracoloso per la fine della pandemia.

Insomma, rimango agnostico, sorrido e giustifico chi, in maniera colta, ma forse in modo un po’ maldesto, fornisce comunque spunti di riflessione, se non medica, almeno sociologica. Mi compiaccio, poi, del fatto che almeno qui da noi si scelga di affidare chiacchiere evolute (non si può certo dire che non lo siano) ai social senza pretenderne la pericolosa pubblicazione sugli organi di stampa più letti dalla popolazione.

In fondo, è da tempo che auspichiamo una crescita della cultura scientifica della società.

Vedere comparire in un social un grafico che comunque richiede, per chi davvero decida di interpretarlo, l’attivazione di processi mentali altrimenti intorpiditi dal profluvio di giudizi tecnici incentrati solo sull’ultima partita della juve, ritengo possa essere proprio qualcosa che spinge in quella direzione.

Pungoliamo pure la rete con dosi omeopatiche di (quasi) scienza antipatica! Chissà, forse qualcosa succederà. Probabilmente si incazzeranno tutti, ma alla fine vorrà dire che avranno notato come sia possibile parlare anche di altro e che per spararla davvero grossa, per dire un certo genere di cazzate, bisogna comunque avere studiato bene e a lungo negli atenei giusti.

SZ

CRONACA VIRUS – Giorno 19

                                                     VOX CLAMANTIS IN DESERTO

Non possedendo il filtro della fede, vedo solo le tinte reali di una foto comunque bellissima.

La guardo e mi convinco di avere colto finalmente ciò che è in quel luogo da molto tempo, ma che proprio non riuscivo a focalizzare per la costante presenza di rumore umano: persone di tutte le razze lì alla ricerca della sensazione di schiacciamento che da sempre pietre e tradizione riescono a donare.

Vedo un immenso stabilimento siderurgico oramai in disuso per mancanza di materia prima.

Vedo un’enorme forma circolare in duro marmo nella quale, dal canale di colata della bellissima via della Conciliazione, alla Domenica mattina effondeva in fossa il magma umano pronto a farsi condensare, solidificare dal fascino imponente di quel modello.

Dentro quelle pareti arcuate, materne e contenitive di anime colonnate, al settimo giorno la massa veniva plasmata facendole assumere per un paio d’ore la forma di un’idea antica e viscosa.

Allora, mistero della fede, la calca si faceva calco e poi, a funzione e fusione finita, si scioglieva in pace e rifluiva via di nuovo liquida da dove era entrata.

Di lì a poco, al passaggio da uno Stato all’altro, mutava ancora in tenue gas di persone-particelle disperse verso casa.

Vedere quell’impianto ora vuoto fa impressione.

Resta la bellezza architettonica, orgoglio dell’industria vaticana, ma al contempo, senza il contenuto umano che lo farebbe funzionare, essa assume il valore di un solido ossimoro: un meraviglioso ecomostro costruito in un delirio di vana gloria.

Mi ricorda quando un’immensa fabbrica dismessa, quando una centrale abbandonata che non produce più energia. Una Chernobyl di noialtri avvolta dal black out, nella quale ieri era possibile scorgere nitida, unico punto caldo in tutta quella caldera vuota e fredda, la singolarità nuda: il piccolo nucleo bianco e incredulo che si fa chiamare Francesco.

Sì, quella foto mi impressiona e lo sguardo oscilla tra la voglia di urlare “Bellissima!” e quella di ritirarsi in un silenzio atterrito.

Eppure, per quanto strano possa essermi sembrato vedere l’ostinazione di un singolo uomo lasciato solo a soccombere davanti alla statica indifferenza di marmi, acciottolato e cielo, una certezza si è fatta strada nella mia testa: sono sicuro di avere già visto quella scena più volte.

Sono addirittura certo di averla già vissuta in prima persona; di essere stato, mio malgrado e nel mio piccolo, papa in mezzo a una piazza analoga; di essere stato puntino bianco con gli occhi sbarrati sul niente; di avere ascoltato il rimbombo sordo del mio tenero tentativo di imporre una visione umana a un paesaggio che, gentile, l’ha contenuta senza minimamente curarsene.

Poi a un tratto capisco e sciolgo il nodo del deja vu intravisto:

lo sgomento estatico e affascinato che si legge in quella foto di ieri è lo stesso che si sperimenta stando in un osservatorio a scrutare un cosmo muto e introverso.

La vertigine che si prova guardandola, lo so per certo, è la stessa che fa vacillare mentre si sta a cavallo di un ciclotrone a frugare particelle nelle paradossali cattedrali nascoste in un nonnulla.

Guardandola e misurandola, da uomini e donne di scienza non facciamo altro che pregare la Natura di anticiparci l’evoluzione dell’epidemia di forze che infettano dal profondo la materia.

La stritolano con la gravità, la contaminano con radiazioni X e gamma, la isterizzano con intensissimi campi magnetici, la sciolgono con temperature estreme o la ammalano col più profondo dei geli.

Sappiamo che tutto sarebbe riassumibile e comprensibile se solo si conoscesse ogni volta l’esponente giusto, la vera pendenza di un tracciato epidemico che è sacro Graal di una religione attiva; un credo che non attende segni divini, ma li cerca.

Allora mi chiedo come mai lo sgomento degli uomini di scienza sia lasciato solo a loro che pregano sgranando rosari di dati tangibili, mentre quello del papa – quello di un altro uomo solo che è solo un uomo – viene condiviso subito dal mondo intero.

Se è di questo timore reverenziale della Natura che finalmente avete voglia, non limitatevi a chiederlo alla fede, ma accomodatevi pure nelle platee vuote della scienza.

Se è di quella bellezza austera e distratta del paesaggio di ieri che avete bisogno, non cercatela esclusivamente nelle piazze vaticane o nelle cupole delle chiese, ma accorgetevi definitivamente dell’enorme e desolata piazza cosmica; accomodatevi pure nelle cupole degli osservatori.

Se è di questo rispetto verso un essere invisibile – a tutti gli effetti un nuovo messia che c’è, eccome se c’è! – che attendevate l’arrivo, allora accorgetevi pure dei laboratori che, per non disturbare i vostri sguardi sensibili, preferite posizionati sul retro degli ospedali e nei loro scantinati.

Il papa è nudo.

Con lui, lo siamo sempre stati tutti e accorgercene ci fa benissimo.

SZ

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Rimane un miscuglio di tinte non certo programmato, ma davvero perfetto. Portici vanitosi che, illuminati da filari di luci artificiali, occhieggiano solitari verso una piazza distratta: un calco

 

CRONACA VIRUS – Giorno 18

                                                     L’ULTIMO FOTOGRAMMA

Dicono che prima di morire si riveda l’intero film della propria vita compresso in pochi secondi. Forse addirittura in uno, prezioso e ultimo. Prezioso perché ultimo.

Mi immagino, allora, nel mentre trasalirò migliaia di volte pensando “Ecco dove accidenti avevo messo quella tal cosa che ho cercato tanto!” o “Nonostante io stia morendo, il mio comportamento di quella volta continua a imbarazzarmi tremendamente,…”.

Capiterà anche di arrabbiarmi, di gioire e di rinnamorarmi innumerevoli volte per poi subito disperarmi per dieci, cento, mille amori finiti; amori velocissimi, ma non per questo poco intensi, anzi. Infine proverò milioni di volte la nostalgia di alcuni momenti che hanno reso la vita degna di essere vissuta e forse sarà proprio questo il motivo per cui morirò. Non credo che a uccidermi sarà una patologia di qualche tipo. Quella servirà solo a condurmi sull’uscio oscuro e misterioso dell’Ade. A farlo, a darmi la spintarella, sospetto che sarà l’eccesso di informazioni emozionali così compresse nel tempo che consumerà l’ultimo millimetro di stoppino; quello che, tenace, separerà la fiammella dalla cera rimasta della mia candela.

Lo penso perché mi rendo conto che la situazione odierna mi sta stimolando la memoria in modo diverso dal solito: sarà che ho più tempo per farlo, ma passo buona parte del mio tempo a compiere l’involontaria operazione di ricordare eventi lontani.

In fondo, è abbastanza normale: da neonati si  parte (apparentemente) senza ricordi e poi, man mano che nei giorni, nei mesi, negli anni si accumulano le esperienze, il materiale esperienziale impilato fa sorgere per la sua gestione il bisogno di qualcosa come il processo di memorizzazione, conscio o inconscio che sia.

Credo, ma purtroppo non ne serbo un ricordo netto, di avere già parlato, in passato in questo stesso blog, del fatto che l’avere accumulato diversi decenni di esperienza in fatto di vita, mi ha dato spesso la possibilità di comprendere a posteriori il perché di alcuni eventi del passato.

Quelli che – quasi fossi affetto da una specie di prematura e duratura presbiopia della visione interiore che impedisce di focalizzare l’adesso vicino – nel mentre li vivevo, sembravano assolutamente privi di alcun valore.

Aver avuto la pazienza di attendere mi ha consentito, a distanza di uno o più decenni, di capirne il significato, di sentire il sapore vero e sottile di cibi che, giovane e affamato di sapori forti, sembravano sciapi.

Questo genere di esperienze mi porta a immaginare il tempo come strutturato in fili: lenze delle quali non vedo l’amo e che pescano molto, molto lontano da qui; nervature lunghissime, stese a connettere gli stimoli odierni con una mia reazione molto lontana nel futuro.

Simili pensieri mi fanno sorridere ancora una volta scoprendo che, se è vero ciò che si dice sull’istante prima di morire, è probabile che scoprirò quale sia la lezione insita in chissà quali eventi di molto precedenti senza poterne fare tesoro per intervenuta decorrenza dei termini.

Ecco, questa potrebbe essere la scoperta in assoluto più importante: l’inutilità della morte che, in barba alla saggezza finalmente conquistata, mi metterà in condizione di dover rinunciare alla possibilità di aggiustare il tiro.

O forse no. La lezione, dopo un’intera esistenza trascorsa a cercare di scorgere insegnamenti da mandare a memoria, potrebbe proprio venirmi dall’accorgermi che è la vita, e non la morte, ad essere stata inutile col suo carico di sovrastrutture che siamo bravissimi a costruire per combattere l’horror vacui.

Come già il pensiero biologico ci ha suggerito, il vero scopo della nostra presenza qui potrebbe non essere connesso ad altro se non alla necessità di propagare i propri geni – la Natura lo vuole! – per creare un altro essere che non potrà esimersi dallo scoprire la stessa nuda verità.

Nel caso, farò spallucce: tutto il film della mia esistenza collasserà su quell’unica, magica scena di quel pomeriggio del 24 Maggio 2012 in cui qui, nella stessa stanza della casa in cui ora mi trovo, aveva davvero inizio l’avventura di mio figlio Giovanni: un’avventura che invece – perpetrando un’inveterata abitudine storica alla inevitabile mistificazione dei dati cronologici di cui i nostri libri sono pieni – all’anagrafe risulta essere iniziata il 27 Febbraio dell’anno successivo.

In un estremo tentativo di salvare la validità di ciò che ho detto prima, mi aggrappo al dato che vede i figli come memorie solide e organiche della nostra struttura biologica di genitori.

Visto così, il significato al momento valutabile come scarso della mia esistenza, avrà modo di prendersi la sua rivincita rivelando la sua importanza quando, una volta che mi sarò tolto dalle balle, mio figlio realizzerà la sua vita, quindi la mia.

Forse dovrei iniziare a preoccuparmi: lo stare chiuso qui dentro senza poter uscire, senza poterr fare le mie lunghe passeggiate, senza poter stimolare in modo adeguato la produzione di vitamina D e soprattutto senza poter confidare in una previsione credibile di quando tutto ciò avrà termine, sta assumendo sempre più il carattere di un viaggio definitivo. Quello oltre l’orizzonte degli eventi collocato all’inizio di questo mese, a partire dal quale non possiamo più fare a meno di spiraleggiare in avvitamento stretto attorno a una destinazione oscura e compatta.

Questo giustificherebbe la lentezza con la quale mi arrivano i ricordi, ma anche il loro giungere a farmi visita sempre più di frequente laddove, in condizioni normali, mi lascerebbero vivere abbastanza in pace.

Qualcuno potrebbe essere stufo di questi discorsi e chiedermi di non tergiversare oltre rivelando finalmente quali sono stati questi famosi ricordi di ieri. E io, se così è, ve lo dico.

In uno ci sono io ragazzino che gioco col Lego a casa del mio amico Ivan. É una casa enorme, risultato dall’unione di due appartamenti, e noi ci troviamo in un ambiente inondato dalla luce lasciata entrare dalla lunghissima vetrata che abbraccia la metà del perimetro di quella abitazione.

Prima che venisse chiusa per diventare a tutti gli effetti un ambiente vivibile, quella doveva essere solo un’enorme veranda dalla quale dominare tutto il quartiere e godere della vista dell’orizzonte che invece da casa mia, più piccola e meno sopraelevata, oramai non si scorgeva più, occultato com’era dai nuovi palazzi costruiti nel circondario.

Eravamo entrambi molto bravi e creativi nell’usare quei pezzi colorati e avevamo costruito ognuno la sua astronave personale. La sua, un analogo della casa dove viveva, aveva dimensioni decisamente notevoli e poteva ospitare un equipaggio di alcuni astronauti. La mia era invece, molto più modesta e piccola della sua e forse, anche nel mio caso, essa rispecchiava la dimensione di casa dei miei, nonché pure una certa diversità di ceto e di disponibilità economica delle mia famiglia rispetto alla sua.

Potrei definire quella mia astronave una semplice monoposto che sotto il pavimento dell’abitacolo celava un ripostiglio. Ripensandolo, mi viene da metterlo in relazione allo scantinato buio e odoroso di muffa, conserve di pomodori e goccie di vino sfuggite da quei fiaschi avvolti in ceste lignee della casa dei miei nonni materni. Odori e luci soffuse che me lo rendevano estremamente affascinante, forse perché, a causa della poca luce, imponeva di orientarsi con tutti i sensi meno che il gusto.

Al ripostiglio della mia astronave, una specie di “doppio fondo” di una 24 ore, si accedeva tramite una botola nel pavimento ed era diviso dalla sala motori da una paratia spessa che, secondo le mie intenzioni, avrebbe dovuto proteggere l’ambiente dalle radiazioni prodotte dai propulsori a fusione nucleare.

Immaginavamo di viaggiare nel cosmo per andare a vedere da vicino le meraviglie di cui si parlava nei libri e in alcuni programmi televisivi (la trasmissione Quark fu inaugurata quando ero in terza media…) e l’angustia di quell’ambiente non mi preoccupava affatto, anzi.

Grazie alla distanza di una quarantina d’anni dalla quale rivisito quei momenti, ho la possibilità di interpretare quella ed altre per l’epoca strane ed episodiche tendenze all’isolamento come possibili espressioni di un viaggio mentale e professionale che avrei percorso sempre più slegato dagli altri.

Una tendenza che, forse intuendo quale fosse davvero ciò che la mia natura più autentica mi avrebbe riservato in futuro, ho sconfessato fino a pochi anni fa conducendo una vita sociale intensissima, all’aperto, muovendomi veloce e affamato in spazi enormi, così ampi da apparire in stridente contrasto con il piccolo ambiente della mia astronave.

Va a finire che stavo solo costruendo una cantina di ricordi sociali d’annata, utili a costruirmi un vitalizio mnemonico cui attingere, come in questo momento, per ubriacarmi e non sentire il peso di ciò che sono diventato.

La solitudine dei miei sogni da ragazzo ammetteva solo una eccezione, quella protagonista del secondo ricordo:

stavolta mi trovo, di sera, a discutere con mio padre nel suo studio, ultima stanza in fondo a sinistra del corridoio del nostro appartamento. A quell’ora mi capitava spesso di essere lì con il primo Giovanni della mia vita a chiacchierare sul sottofondo di note non banali emesse dal solito canale radio della Rai – non ricordo se all’epoca fosse il secondo o se invece si trattasse sempre del terzo…-, nella calma aromatica generata dalla sua pipa o dai sigari che amava concedersi alla sera.

Una calma che, non avendo mai fumato, di tanto in tanto provo a riprodurre affondando il mio lungo naso in un bicchiere di torbido Laphroig.

Una sera, quella sera del ricordo – all’epoca ero già studente di Fisica al primo o secondo anno -, si parlava della bellezza del cosmo: in simili discussioni a me veniva prematuramente affidato il ruolo di consulente scientifico, mentre lui sondava gli aspetti più estetici e cosmogonici della faccenda. Quelli che, da insegnante di filosofia e intellettuale onnivoro quale era, di sicuro gli spettavano per aver conquistato le stellette sul campo di battaglia.

Guardando dalla finestra chiusa il fazzoletto di cielo da lì visibile, immaginai per un attimo di volare via a bordo di quella stanza tappezzata di libri che, come la mia piccola astronave di Lego, staccatasi dal resto della casa, della famiglia, del palazzo, …, conduceva me e lui in giro nel cosmo per vedere ancora una volta da vicino ciò che stando ancorati al terreno poteva solo essere evocato.

Oggi sono ancora qui a immaginare spesso di partire. Lui non ha atteso: impaziente, ventitré anni fa è andato in avanscoperta e ogni tanto mi chiedo se in un fotogramma del suo ultimo film sia riuscito a notare, anche solo per un attimo velocissimo, la mia commozione di quella sera.

SZ

 

CRONACA VIRUS – Giorno 17

                                                           INVISIBILI SCULTURE

A volte quasi la offendiamo definendola “viziata”, “pesante”, “brutta”. In altre situazioni  ci manca, la cambiamo o la nominiamo per invitare qualcuno ad andare via.

E se ieri parlavo di memorie di ieri e memorie del domani, tra le memorie dell’adesso, quindi tra le cose che diamo per scontate senza focalizzare mai la nostra attenzione del momento su di esse, vi è lei: l’aria che respiriamo.

Essa, da sempre presente alle nosre azioni, oltre a permetterci di vivere, contiene, materna, tutti i nostri gesti: li accoglie, li coccola, li accarezza senza farci sentire troppo il peso della sua presenza e, se fosse personificabile, verrebbe quasi da chiedersi: “ma noi che da essa riceviamo tanto, cosa diamo in cambio all’aria?”

No, questo articolo non intende essere un’ulteriore denuncia dell’inquinamento di origine antropica. Vuole piuttosto soffermarsi su un altro aspetto che da sempre mi colpisce piacevolmente e che uso per tentare di comprendere quale sia l’utilità, la funzione reale di alcuni aspetti della nostra vita psichica che tanto mi interessano.

Sospetto che i pensieri che sto per confessare si siano evoluti a partire dal 22 Settembre del 1995, giorno in cui annotai un semplice pensiero su un piccolissimo block notes verde: uno di quelli che fino a una decina di anni fa, prima che i cellulari divenissero la pietra d’appoggio di tutta la nostra esistenza, portavo sempre con me per appuntare pensieri, idee grafiche e musicali.

La sua rilettura ieri mi ha riempito di sensazioni strane e di nostalgie solo in parte decifrabili; quelle che stamattina, al mio risveglio, erano tutte qui ad attendermi, imponendomi di scriverne. In quelle righe dicevo:

Mi rifugio in stanze di musica, con muri di note che coprono le immagini di fuori; chi le costruisce? Un mio ideale batterista percussore mentale che tenta di inserirsi nel ritmo del battito cosmico, un trombettista dal soffio educato, un sassofonista dall’alito pentagrammato.

Quella che potrebbe sembrare solo una metafora è in realtà anche il modo con cui alle volte mi spiego cosa sia realmente una cosa così impalpabile come la musica. Mi sono da un po’ persuaso che essa altro non sia se non un modo di scolpire l’aria; un modo di dare ordine al moto altrimenti caotico delle particelle che la compongono così da far loro assumere la forma dei nostri pensieri alrimenti non comunicabili; così da renderli finalmente decifrabili da chi possiede quella particolare sensibilità geometrica. Chi la possiede, a sua volta consente l’accesso a geometrie aeree che riorganizzano le geometrie disegnate dall’attivazione di una “scelta” opportuna di neuroni.

In fondo,  anche quando ci muoviamo non facciamo altro che scolpire l’aria. I nostri gesti, le nostre posture, possono essere riguardati come pensieri del corpo (si pensi alla danza), nostro cervello esteso.

Essi, però, in quanto visibili, risultano troppo facilmente decifrabili e il loro negativo acustico quindi geometrico – l’involucro che un Michelangelo dell’aria salverebbe buttando via il corpo che lo modella da dentro, ottenendo così una specie di scultura per ciechi – diventa assolutamente secondario rispetto a ciò che, esibizionista, si impone alla nostra vista.

La facilità della decifrazione visiva ancora una volta ci fa dimenticare l’esistenza dell’atmosfera che tutto pervade e assiste con l’impareggiabile discrezione che è propria di ciò che, pur presente, non può essere visto.

In questo periodo di immensa solitudine mi rendo conto che è lei, l’aria, a farmi maggiormente compagnia: col silenzio – un caotico contenitore di particelle che, non spinte di qua e di là da oggetti in movimento, si spostano più lente del solito – o con la musica che arreda i nostri ambienti anche più delle architetture solide attorno a noi.

Saltando di pensiero in pensiero, facendomi dare un passaggio dalle ali dell’analogia, mi tornano allora alla mente le parole della mia amica Francesca: un tipo particolare, amante sì del bello, ma che lo frequenta ponendo più di un metro di distanza di sicurezza tra lei e la possibilità di farsi toccare così in profondità da perdere la sua libertà di essere una

“donna eternamente cazzeggiante, ancorché inconcludente e ingiustificabile, che però ha la capacità di regalarsi estasi da dettagli che racchiudono mondi che ai più sfuggono, e con consapevolezza se ne appropria”.

Qualche mese fa, durante una discussione circa i nostri ascolti preferiti, mi confidò:

Trovo che la musica di Bach abbia la capacità di mettere in ordine i pensieri”

Un punto di vista che mi trovò assolutamente d’accordo, anche se, per quanto affermato più su, mi sembra di scorgere un ordine, una geometria più o meno precisa (quella delle composizioni bachiane è a dir poco impeccabile) in tutti i pensieri organizzati: essi disegnano sempre una forma che, prima di essere ordine di particelle d’aria o di segni alfanumerici e/o pittorici, è ordine, geometria, forse anche ecologia di connessioni neuronali rispecchiate da ciò che manifestiamo all’esterno del nostro corpo.

Sono portato a pensare che anche la scrittura rientri di diritto in questo discorso: le parole, dette, lette o scritte che siano, sono una sorta di monodica e monòtona musica a progetto che, a differenza delle colonne sonore a ben vedere adattabili a diverse situazioni, crea immagini visive vivide e univoche: sentendo la parola “sedia”, ognuno di noi visualizza quella che per lui è in quel momento l’archetipo di riferimento per quell’oggetto. Un archetipo che condivide con gli archetipi altrui la forma sintetica di una sedia e il suo uso (chissà, forse è proprio in questo aspetto che va cercata la spiegazione del maggiore successo riscosso dalla musica cantata rispetto a quella suonata…)

A questo punto, credo che anche l’arte astratta, quella di più difficile interpretazione, acquisti un valore del tutto decifrabile: le pulsioni, le fantasie, i sogni, gli incubi – quelli che da un ingegnere elettronico potrebbero forse essere messi in connessione con le dark currents o con gli ineliminabili rumori stocastici presenti in tutti i processori microelettronici – forse a causa della loro episodicità, non ci impongono la stessa pressante attenzione dei pensieri organizzati nei quali più facilmente ci imbattiamo stando in Natura o immersi in società.

Se così fosse, per esprimere il manifestarsi di stimoli disordinati di quel tipo non credo avremmo molte altre alternative oltre quelle offerte dalle destrutturazioni, dalle deviazioni, spesso le più improbabili, dalla facile e comodamente interpretabile struttura euclidea dei discorsi, dei suoni, dei segni. Una geometria che, per capirci meglio,  abbiamo reso la più diffusa, quindi stocasticamente più probabile.

Ed è così che, attraverso i livelli intermedi come ad esempio, quelli offerti da Mondrian in pittura o da Hindemith in musica, finiamo nell’ambito non euclideo, nella destrutturazione di Malevič, nella pittura dinamica di Pollock, nei tagli di Fontana, …

Come che sia, oggi mi farò tenere ancora una volta compagnia dalle trasmissioni del terzo canale Rai della radio.

In particolare, affido le geometrie di parte dei miei pensieri alla voce familiare di Eduardo Camurri e alla sua rubrica Pagina 3, alle musiche del Concerto del mattino introdotte dalla voce di Arturo Stalteri, alle strampalate follie della divertentissima Barcaccia e ai concerti serali proposti da Radio 3 suite.

Sono sicuro che, oltre a intrattenermi, mi metteranno a posto casa cambiando l’aria dell’ ambiente quotidianamente viziata da tanta bellezza.

SZ

 

 

 

CRONACA VIRUS – Giorno 16

                                         MEMORIES OF TOMORROW

Continuando a fare il solito, ozioso zapping col quale si chiudono praticamente tutte le mie lunghe giornate di questo periodo, ieri sera mi sono imbattuto per l’ennesima volta nel film Balla coi lupi.

Un certo meccanismo di zipping – incredibile come cambiare una sola volcale possa aprire scenari mentali del tutto diversi… – del mio (nostro?) cervello ha fatto sì che io abbia compresso il ricordo di quando ho visto quella pellicola collocandolo da qualche parte vicino ad altri molto più recenti.

Scoprire, quindi, dopo una breve ricerca in rete che si tratta di un film uscito nel 1990 mi fa vacillare, togliendomi quasi il pavimento da sotto i piedi.

Nel 1990 avevo 22 anni, vivevo ancora al sud con i miei, ero uno studentello con le idee molto poco chiare, erano ancora vive persone per me fondamentali che di lì a poco sarebbero scomparse…

Insomma, a distanza di trent’anni, vedo un me stesso alieno che però mi somiglia alquanto – potrebbe essere mio figlio – alle prese con un’altra vita su altro continente o su un altro pianeta molto distante da qui.

Ricordo che, pur non essendo mai stato un maniaco del genere western, quel film mi piacque moltissimo, ma si vede che, per risparmiare il poco spazio mentale a mio disposizione, ne ho collocato il ricordo in una posizione molto recente (“sembrava ieri!”) e al contempo fluttuante, tralasciando cioè di ancorarlo ad altri ricordi ben più netti, che mi avrebbero potuto aiutare nel datarlo con precisione.

Nonostante non fosse la prima volta che lo rivedevo, forse proprio grazie alla vista laterale, annebbiata dal sonno incipiente, ho realizzato che non è nient’altro se non il modello o, come si dice oggi, il template sul quale hanno plasmato molti altri film, in primis Avatar, anche questo rivisto da poco grazie al mio DVD (se non sono un maniaco del genere western, lo sono di sicuro del genere fantascientifico del quale possiedo una collezione davvero invidiabile).

L‘impianto del film storico Balla coi Lupi è presto riassunto: c’è il militare che, riportando in una azione di guerra un problema a una gamba, in seguito ai vari eventi scatenati da quell’inconveniente si fa volontariamente inviare in un lontanissimo avamposto. É un militare e l’obiettivo di fondo è smpre quello di proteggere e al contempo espandere i confini per biechi scopi economici che tengono in nessun conto l’esistenza di abitanti di quelle terre lontane, dei loro valori, dei loro affetti, della loro libertà, … L’eroe, costretto dagli eventi a rimanere da solo, si imbatte da subito in un lupo che non ne vuole sapere di mantenersi a debita distanza e, costretto da questo incontro e da vari accadimenti a rivedere la propria posizione rispetto al mondo, decide di aprirsi al nuovo stile di vita che l’ambiente stesso gli suggerisce di adottare. Uno stile che lo porterà presto a contatto con gli alieni abitanti di qulle lande lontane: vincerà le iniziali diffidenze e ovvie ostilità di alcuni maschi alfa di quella comunità e, grazie soprattutto all’attenzione di una donna che gli verrà affiancata dai capi con il compito di insegnargli gradualmente la lingua e gli usi indiani, si integrerà perfettamente nella tribù. Tra lui e la sua “tutrice” sboccerà l’amore e lui diverrà addirittura un esponente di spicco di quella comunità, specie durante il conflitto contro le truppe unioniste presso le quali un tempo era un ufficiale.  Verrà catturato e quindi incolpato di avere tradito le sue origini, la sua cultura e tutto ciò su cui aveva fondato la sua vita precedente. Lui comunque deciderà di schierarsi con gli indiani, ma questo film dall’impianto essenzialmente storico non poteva certo permettersi una conclusione con il classico lieto fine: prima dei titoli di coda viene chiaramente riportato che di lì a poco il popolo indiano verrà decimato e poi assorbito dalla barbarie civile arrivata da est.

In Avatar, film del 2009 e ambientato in un’epoca distante ben 300 anni dai fatti narrati nel film precedente, il protagonista è ancora una volta un militare che in guerra ha subito un trauma localizzato ancora una volta sul suo apparato motorio. La lontana frontiera stavolta non è un continente terrestre da esplorare e conquistare, ma un pianeta orbitante attorno ad alfa Centauri, la stella più prossima al nostro Sole e probabile America del nostro futuro coloniale. Anche in questo film, l’eroe deve infiltarsi nella società del popolo indigeno che vive sul pianeta  e che dimostra di avere conservato quel contatto con la Natura che oramai noi terrestri abbiamo completamente rimosso, del tutto dimentichi come siamo di quando vivevamo in totale simbiosi con il nostro pianeta e gli altri suoi abitanti. Il protagonista è quindi ancora una volta un militare e l’obiettivo di fondo è sempre quello di proteggere e al contempo espandere i confini terrestri per biechi scopi economici che tengono in nessun conto l’esistenza di abitanti di quelle terre lontane, dei loro valori, dei loro affetti, della loro libertà, … L’eroe, rimasto solo, si imbatte in quelli che potrebbero essere dei lupi alieni estremamente più aggressivi del lupo della prateria americana. Sta per soccombere, ma viene salvato da una lei del popolo indigeno. Costretto da questo incontro a rivedere la propria posizione rispetto al mondo, decide di aprirsi al nuovo stile di vita che l’ambiente stesso gli suggerisce di adottare. Uno stile che lo porterà presto a contatto con gli alieni, stavolta veri e non solo metaforici, abitanti di qulle lande lontanissime: vincerà le iniziali diffidenze e ovvie ostilità di alcuni maschi alfa di quella comunità e grazie soprattutto all’attenzione dell’aliena che lo ha salvato dall’attacco delle fiere prima incontrate e che gli verrà affiancata dal capo tribù con il compito di insegnargli gradualmente la lingua e gli usi del loro popolo, lui che è sveglio e intelligente si integrerà perfettamente nella tribù. Tra il nostro eroe e la sua “tutrice” sboccerà l’amore e lui diverrà addirittura un esponente di spicco di quella comunità, specie durante il conflitto contro le truppe terrestri. Verrà catturato e quindi incolpato di avere tradito le sue origini, la sua cultura e tutto ciò su cui aveva fondato la sua vita precedente. Nonostante le accuse, il protagonista deciderà di schierarsi con gli alieni e stavolta, in assenza di libri di storia che ci possano togliere ogni illusione circa la realtà, il film si conclude con un bel lieto fine: vissero, anzi, vivranno (l’azione si svolge nel 2154…) tutti felici e contenti.

Ovviamente la mia scelta di usare lo stesso testo per descrivere i due film, cambiando solo gli elementi che proprio non potevano non essere cambiati, è voluta in quanto utile allo scopo di mostrare quanto più possibile l’estrema sovrapponibilità dei due soggetti narrativi.

Nel caso di Balla coi lupi, si tratta di una memoria di ieri ben documentata grazie alla quale il popolo americano fa ammenda nei confronti di quello indiano oramai reso silente e marginale rispetto alla cultura wasp imperante in quel continente. Nel caso di Avatar, il soggetto vichianamente funziona perché, lo sappiamo bene, non possiamo proprio permetterci di non replicare atteggiamenti aggressivi che da sempre caratterizzano la nostra specie e, in particolare, il popolo americano (in entrambi i film, il protagonista è un milite a stelle e strisce) sempre pronto a esportare democrazia ovunque.

Con questo film, sembra quasi che il regista Cameron abbia deciso di basarsi su una memories of tomorrow di jarrettiana… memoria, andando a costruire un quadro che, nonostante il suo essere una narrazione chiaramente distopica, risulta del tutto credibile e attuale (ma anche credibile in quanto rispecchiata dal passato).

Sembra quasi che nella memoria del mondo vi sia lo stesso scollamento di eventi che vi è nella mia testa: il presente, il futuro e il già avvenuto, piuttosto che risultare appesi nelle giuste posizioni lungo il lunghissimo filo da stendere del tempo, risultano fluttuanti e, mutatis mutandis, intercambiabili.

Un rimescolio delle carte dal quale, nell’estremo tentativo di fare ordine tra i ricordi, emerge prepotente solo una cosa da tenere bene a mente: ci siamo sempre comportati allo stesso modo. Una consapevolezza alla quale segue facilmente l’altra: “E faremo sempre così”.

Ecco perché, senza entrare nel merito di un problema delicatissimo del quale in qualche modo mi sono già qui occupato in un recente passato, leggendo ieri le parole della Fornero che si è pronunciata di recente su un tema importantissimo come il pensionamento di chi secondo lo Stato è ancora in grado di lavorare, mi sono tornate in mente altre memorie di domani ben conservate in mente e vissute grazie alla visionarietà di scrittori e registi indovini.

Ma veniamo prima ai fatti. Sembra che l’ex ministra  abbia espresso il seguente concetto per certi versi autoevidente:

“Se si va in pensione prima, quando si è ancora in buona salute, è un costo, perché qualcuno te la deve pagare.”

Il blog dal quale ho preso questa frase la mette credibilmente in relazione con quella da ascrivere alla Christine Lagarde, la presidentessa a capo della BCE, la quale nel 2012 pare abbia involontariamente scritto l’incipit di un altro romanzo distopico che (sottofondo orchestrale incalzante) potrebbe iniziare proprio con la scritta:

La longevità è diventata un nemico, se non da combattere, almeno da rendere inoffensivo: troppe spese per lo stato in pensioni e assistenza sanitaria”

Con la solita memoria del domani, mi sembra di riuscire a vedere in modo chiaro i possibili sviluppo e conclusione delle scene successive di questo film ancora da girare con 7 miliardi di personaggi in cerca di autore: al popolo, sempre più vessato da leggi ingiuste del tutto a beneficio di una oligarchia aristocratica totalmente insensibile ai bisogni dei più (Metropolis), viene imposto un netto, ma decisamente crudele ricambio generazionale della classe operaia. Il vantaggio è grande: piuttosto che attendere che gli automi-umani, una volta invecchiati, possano diventare un peso economico e sociale, raggiunta un’età giudicata adeguata per smettere di rendere i loro servigi alla società, vengono dismessi ed eutanasicamente invitati a sparire dalla circolazione nell’ignavia e nella disattenzione generali (La fuga di Logan).

Forse verremo rimpiazzati da nostri cloni che gli alieni, a nostra insaputa già da tempo qui in mezzo a noi, in oscuri scantinati-laboratori stanno già preparando (L’invazione degli ultracorpi), oppure verremo sostituiti con le nostre copie sintetiche progettate da una società senza scrupoli di cui non sapremo più nemmeno se sia da considerarsi verticizzata o semplicemente se sia governata da processi-macchina avviati da noi stessi e poi sfuggitici di mano (Moon).

A questa narrazione, trattandosi di uno sguardo su un futuro possibile ma non corroborato da dati storici, posso permettermi di donare un lieto fine costituito dalla buona notizia che mi affretto a darvi: sospetto che molti di noi, forse tutti, coroneranno un sogno che non sapevano neppure di avere, divenendo tutti protagonisti di una serie televisiva che ha già ampiamente dimostrato di piacere al pubblico.

Vi pare poco?

Mi raccomando: fate come nulla fosse, non guardate in camera e siate credibili.

Siate voi stessi.

 

SZ

 

 

 

 

 

 

 

 

CRONACA VIRUS – Giorno 15

                                                       QUELLA SPORCA DECINA

Oggi è il mio quindicesimo giorno di segregazione e, dal momento che l’emergenza è iniziata più o meno per tutti nello stesso momento, immagino che lo sia anche per molti fra voi che leggete.

Che possa esserlo me lo conferma una breve ricerca condotta in rete su ciò che accadeva quando ho iniziato queste cronache (in realtà, ho iniziato a parlarne più timidamente già dal 28 Febbraio, accelerando poi con gli articoli del 4 e del 5 Marzo, un periodo in cui si poteva ancora girare a piede e naso liberi) dalla quale emerge che effettivamente quello fu un giorno particolare.

Un sito che pubblica le prime pagine dei giornali mostra infatti che il 10 Marzo scorso, per la prima volta, i giornali hanno intonato tutti un singolare unisono col quale si invitava la popolazione a iniziare questa reclusione forzata.

Proprio mentre scrivo, noto che nella prima riga di questo articolo ho ripetuto quanto già contenuto nel titolo: una ridondanza strana e quantomeno sospetta: sotto sotto, deve esserci qualcosa che mi ha spinto a rimarcare quel semplice computo. Sì, ma cosa? Perché per la prima volta da quando racconto questa emergenza mi viene spontaneo soffermarmi sulla lunghezza del periodo trascorso in questa condizione?

Ovviamente è una domanda retorica, cui segue una risposta che  già da stamattina ho programmato di dare. Ma non è stato certo per retorica se oggi, una volta svegliatomi, mi ha colpito scoprire come già fossero trascorsi quindici giorni da quel fatidico Martedì.

La risposta credo sia solo da ricercare nel fatto che, come il 10 e il 20, 15 sia un numero… maneggevole, ovvero una cifra di cui tenere facilmente il conto grazie all’uso di tutte e cinque le dita presenti in entrambe le nostre mani. In qualche modo, la storia della matematica e l’antropologia lo confermano: contiamo così per il semplice fatto di avere perso, coprendoci di vestiti, la possibilità di farlo usando anche altri segmenti del nostro corpo che invece un tempo, ben visibili, quindi disponibili, venivano subito coinvolti nel computare gli oggetti del reale.

La morale, riconducibile da lontano anche a ragioni biologiche legate, specie ad alcune latitudini, al bisogno di proteggerci dagli effetti indesiderati delle forti escursioni termiche giornaliere, e stagionali, ci ha spinto a coprirci sempre più, convincendoci che fosse sconveniente andare in giro seminudi e lasciando nel tempo disponibili per i nostri calcoli veloci soltanto le mani.

Tra l’altro, il termine sconveniente mi fa suonare un ulteriore campanello di allarme (oggi in testa ho un casino): nei vocabolari, la sua prima accezione serve proprio a rimarcare l’inopportunità etica di un particolare comportamento e solo la sua seconda ne rivela finalmente una più intuitiva derivazione dalla negazione di conveniente, un aggettivo che invece mantiene inalterato il suo carattere legato agli usi pratici di qualcosa.

Tornando all’importanza del numero quindici, noto che lo usiamo spesso come sintesi approssimata per eccesso del periodo di due settimane. Un’approssimazione che usiamo anche, stavolta approssimandola per difetto, nel valutare la lunghezza del mese: un lasso di tempo che, senza entrare nella complicatissima storia del calendario e delle sue riforme, man mano che si conta, si scopre essere lungo in media quanto le dita di sei mani.

Mi scopro spesso portato a pensare che tutto ciò che caratterizza la storia e l’evoluzione culturale della nostra specie – una volta imbracciato il machete per farci largo fra l’erba alta delle innumerevoli sovrastrutture di sicuro importantissime, ma a mio parere non certo definitive nello spiegare chi siamo davvero – possa svelare la sua intima e definitiva connessione con fattori sintetici, a priori, da far risalire piuttosto a motivazioni fisiche, biologiche, chimiche, genetiche.

Un punto di vista indicato col nome di determinismo biologico dalla validità tutta da dimostrare e che, per questo, partecipa dell’indecidibilità caratterizzante tutti i punti di vista “larghi”: quelli che hanno la pretesa di dire qualcosa di definitivo sulla realtà.

Mi aspetto però che, se l’emergenza dovesse protrarsi molto, molto a lungo rivelando, come molti sospettano, la nostra incapacità di eradicare del tutto questa piaga e i suoi effetti su salute, economia, cultura, al nostro sicuro adattamento all’idea di convivere con il virus potrebbe corrispondere l’affermarsi del numero 14.

Perché proprio di quel numero? É presto detto: perché pare sia la lunghezza del periodo di incubazione del Coronavirus. Si tratta di una cifra che evidentemente ancora non ha fatto colpo nel nostro immaginario collettivo: nessuno, nemmeno io, ha fatto notare che noi non ammalati potremmo da ieri considerarci non infettati o quantomeno asintomatici.

Essendo il 14 un numero più scomodo delle “cifre tonde” 10, 15 e 20 facilmente computabili usando tutte le dita delle nostre mani ben aperte, alla sua eventuale ascesa nella gerarchia delle cifre da usare per approssimare periodi di tempo e chissà cos’altro, potrebbe unirsi anche quella del 35, ovvero 5 semiperiodi di incubazione del Coronavirus contati usando 7 volte le dita di una sola mano.

Senza arrivare a temere di diventare tutti mutanti simili a quelli preconizzati dalla fantascienza – un genere letterario che comunque ha già abbondantemente vinto dimostrando di avere pre-visto molto bene lo scenario odierno -, mutanti che un giorno potrebbero addirittura esibire sette dita per mano, siamo senz’altro sicuri di essere dei mutanti culturali del tutto capaci di interiorizzare, di assorbire l’importanza di una cifra particolare come il 35 dimenticando, per meglio sopravvivere, lo spiacevole motivo del perché della sua importanza.

35. Una cifra che andrebbe così ad aggiungersi a quelle comode già in uso per approssimare giorni, settimane, mesi, anni, somme di denaro, … e “calcoli della serva” agevolati, arricchiti da un virus.

Questa sì potrebbe essere una prova a sostegno del determinismo biologico, non trovate?

 

SZ

 

 

 

CRONACA VIRUS – Giorno 14

                                     LA CULTURA É UN RESOCONTO?

Uno dei vantaggi offerti dall’abitare da tempo in uno stesso posto è che alla fine si conosce tutti, e tutti ti conoscono. C’è chi, proprio per questo, deciderai di scansare, di ignorare; e c’è chi, proprio per questo, deciderà, forse a tua insaputa, di scansarti, di ignorarti.

Se si riesce ad essere in buoni rapporti con chi nella zona davvero conta, sarai da considerare integrato: uno che, per le frequentazioni e per i dribbling che sa mettere in atto, merita di essere classificato fra coloro che (lì) sanno vivere.

É per questo che mi vanto di avere intessuto qui in zona diverse frequentazioni con quelli che qui hanno un ruolo fondamentale e tra questi c’è Simone, l’edicolante che lavora a duecento metri in linea d’aria da casa mia.

Fino a una quindicina di giorni fa lo incontravo nei fine settimana, quando sia di Sabato che di Domenica partivo da casa mia per andare a piedi a fare colazione lontano da qui, per poi passare da lui nel percorso a ritroso che prevedeva un’ultima tappa nel parco, dovrei buttavo dentro la testa la droga che lui mi passava.

Il Sabato da lui compravo il settimanale Robinson, la Mitologia per bambini che leggo con mio figlio ed eventualmente Le Scienze e Focus Junior: una rivista di divulgazione scientifica dedicata ai piccoli lettori nella quale da un annetto a questa parte viene puntualmente pubblicata una mia piccola illustrazione.

La domenica, invece, era dedicata al Sole 24 ore: un giornale che “sbucciavo” togliendogli la parte esterna di immangiabile economia per gustare il dolcissimo inserto il Domenicale protetto al suo interno

Il rapporto con Simone è negli anni diventato sempre più limpido, sempre più cristallino. La sabbia in sospensione che non ci fa sapere nulla delle vite di chi incontriamo casualmente, nel tempo si è poggiata e ora, guardando attraverso la fluidità della consuetudine, è possibile vedere senza possibilità di sbagliarsi su cosa poggiano i piedi della nostra frequentazione intermittente.

Essa si svolge stando sempre a due metri di distanza, con lui seduto dentro l’edicola ed io in piedi al suo esterno. Nei nostri incontri c’è spazio per l’ironia, lo scherzo, la lamentela o anche – perché no? – il breve discorso vacuo, quello utile a sancire che è festa e che possiamo permetterci di essere lievi e scanzonati.

Lui non si può certo dire che mi conosca, né io conosco così bene lui, ma la sua posizione gli dona un vantaggio su di me e su tutti i suoi clienti in quanto gli abbiamo tutti svelato la conoscenza dei nostri gusti in fatto di riviste e quotidiani: un elemento che nel mio caso credo mi definisca abbastanza bene e che sono felice sia diventato un tratto caratteristico della mia persona. Quello che immagino sia stato speso quando e se Simone ha mai affrontato con altri qualche straccio di discussione nella quale è venuto fuori il mio nome o la mia descrizione fisica.

Bene, da quando è iniziata l’emergenza, dovendo lui passare per andare al lavoro da questa strada dove abito, Simone mi porta a casa le mie riviste. Bussa alla porta, io apro, gli allungo i soldi e lui mette nella mia mano il malloppo cartaceo, la mia dose di letture fresche da consumare inframezzandole ai surgelati che ho nel freezer della mia libreria: in verità una ghiacciaia davvero capiente nella quale ho una scorta di carta stampata che mi potrebbe fare affrontare un intero inverno nucleare senza dover mai mettere il naso fuori.

La continuità di quelle letture, di quei “tranci freschi” – a suo tempo ho dato questo titolo alla categoria di articoli di questo blog con i quali intendevo recensire libri, articoli, spettacoli, dischi – mi ha così permesso di notare qualcosa che forse ad altri era già chiara da tempo, ma della quale non mi ero ancora coscientemente accorto.

Tutti gli inserti culturali dei giornali (dico tutti perché ogni tanto in alcuni bar ho potuto sfogliare anche quelli proposti dagli altri quotidiani) si sono trasformati in pagine di recensioni, appunto.

Non so quando tutto ciò sia accaduto; non so quale sia stato il momento esatto, se di un momento particolare si è trattato, in cui la trasformazione è avvenuta; l’istante esatto in cui è stato attivato lo scambio tra i binari lungo i quali correva veloce il treno del dibattio culturale. Probabilmente si è trattato di un processo graduale, soffice, dai tempi scala evolutivi che ricordano quelli biologici. Comunque sia andata, oramai mi sembra di poter affermare che la realtà sia questa.

Pare quasi che non si possa dire, pensare, litigare su qualcosa se prima qualcuno non ha deciso di rendere quel qualcosa libro, disco, opera, mostra, spettacolo.

Beninteso: la mia non è una lamentela, o perlomeno non lo è del tutto: essendo anche io parte di quella filiera di produzione, non posso certo dolermi di un sistema importantissimo, utile a diffondere la notizia della nascita di un coagulo concreto di idee che abbisogna dell’attenzione del pubblico.

Non posso però fare a meno di denunciare l’assenza di qualcosa per me fondamentale: il pensiero per il pensiero e slegato da logiche aventi a che fare sempre e comunque col prodotto, con l’oggetto, con qualcosa dal valore economico e magari dal peso materiale ben definiti.

Le pagine della cultura che ricordo nei giornali che portava a casa mio padre parlavano di concetti tout court. In quegli articoli, un esperto o qualcuno ritenuto tale si interrogava su un tema importante per il dibattito all’epoca contemporaneo (a volte diventava importante proprio a partire dalla pubblicazione di quell’articolo) e, pur essendoci in essi spazio per citazioni precise di opere già pubblicate e disponibili per la vendita, ad esse veniva affidata una funzione del tutto diversa: bisognava intenderle come indirizzi lungo la strada che avrebbe condotto alla comprensione definitiva dell’articolo e non, come sempre si fa oggi, come indicazioni di un GPS che ti accompagnano fino alla libreria, al negozio di dischi o al botteghino dove poter acquistare il libro, il CD, il biglietto.

Poter pensare slegando ogni tanto la mente dall’oggetto e dal già detto prima da qualcuno, facendo così credere che si possa parlare di idee solo a posteriori, solo quando grazie a un autore e a un editore esse sono diventate solide, credo fosse il polso di una grande libertà intellettuale. Un polso che nessuno prendeva perché non ce n’era bisogno, ma che oggi mi sembra allarmarci con qualche linea di febbre oltre oltre la temperatura normale.

In questa fase storica appena iniziata, le novità culturali in uscita hanno temporaneamente perso la loro appetibilità materiale. L’impossibilità oggettiva di recarsi a vederle appena nate nella loro culla d’ospedale dove alle volte complimentarsi con i genitori durante le presentazioni live organizzate in librerie, locali e centri culturali comporta che si pensi più all’idea del libro che non alla sua forma, al suo peso, al suo umero di pagine.

Forse, allora, proprio a causa dell’emergenza sanitaria, il concetto puro conoscerà una nuova stagione in cui rivendicherà il ruolo di protagonista assoluto della scena che gli spetta anche se, immagino, sarà qualcosa che, sempre che si verifichi, prenderà giusto il tempo necessario per consentire al mondo del mercato culturale on-line di riorganizzarsi.

Nel frattempo è probabile che ci sia spazio per un revival delle idee pure e della ragion pura che le genera. Quella che ogni tanto può e deve necessariamente trascendere dalle altre della ragion pratica, della vendita di prodotti che sono bellissime ma pallide approssimazione della prima.

Ed è così che, grazie alla consegna a domicilio del Domenicale di ieri ho avuto il privilegio di aggiungere un nuovo punto nel mio grafico dell’evoluzione della specie inserto culturale. Ho così modo di rivelarvi che l’osservazione del nuovo campione si è rivelata fruttuosissima in quanto mi ha consentito di assistere in tempo reale alla nascita di una prima gemma primaverile che fa ben sperare per questa timida stagione, per questo cambio biologico dell’editoria.

Il taglio basso di pagina IX, dedicata insieme alla VIII a “Scienza e Filosofia” (pagine che più di altre mi interessano e che quindi ho monitorato con maggiore attenzione negli ultimi anni), è occupato dal timido ma garbato articoletto di tale Nunzio Galantino intitolato “C’è buio, ma sorgerà la luce”.

L’ho letto, scoprendo così che non si riferisce a niente che non sia la semplice e pura analisi del concetto di buio e di tenebra. Sì, lo so: potrebbe essere considerata la metafora della recensione del tempo che viviamo (e in effetti lo è), ma è proprio quello che mi aspetto da un articolo di un inserto dedicato all’analisi del presente e non alla sua cronaca pedissequa.

Ho deciso di non proporvi qui il suo riassunto perché temo che se lo facessi, mi troverei a buttare giù un numero di battute confrontabile con quello di quel breve scritto, ma sono qui, gaudium magnum!, a dirvi… recensendolo, che esiste! Che è nato!

L’analisi del buio diventa forse scaturigine di nuove possibilità e rimanda veloci all’Erebo, al Tartaro di esiodea memoria dal quale si spera riemergerà una nuova, Gaia, entusiasmante stagione di pensieri in libertà: pensieri figli di Crono, figli del tempo che stiamo vivendo e che si opporrano all’opprimente onnipresenza del paterno (per noi autori) mercato con le sue regole invasive e Uraniche.

 

SZ