QUELLA SPORCA DECINA
Oggi è il mio quindicesimo giorno di segregazione e, dal momento che l’emergenza è iniziata più o meno per tutti nello stesso momento, immagino che lo sia anche per molti fra voi che leggete.
Che possa esserlo me lo conferma una breve ricerca condotta in rete su ciò che accadeva quando ho iniziato queste cronache (in realtà, ho iniziato a parlarne più timidamente già dal 28 Febbraio, accelerando poi con gli articoli del 4 e del 5 Marzo, un periodo in cui si poteva ancora girare a piede e naso liberi) dalla quale emerge che effettivamente quello fu un giorno particolare.
Un sito che pubblica le prime pagine dei giornali mostra infatti che il 10 Marzo scorso, per la prima volta, i giornali hanno intonato tutti un singolare unisono col quale si invitava la popolazione a iniziare questa reclusione forzata.
Proprio mentre scrivo, noto che nella prima riga di questo articolo ho ripetuto quanto già contenuto nel titolo: una ridondanza strana e quantomeno sospetta: sotto sotto, deve esserci qualcosa che mi ha spinto a rimarcare quel semplice computo. Sì, ma cosa? Perché per la prima volta da quando racconto questa emergenza mi viene spontaneo soffermarmi sulla lunghezza del periodo trascorso in questa condizione?
Ovviamente è una domanda retorica, cui segue una risposta che già da stamattina ho programmato di dare. Ma non è stato certo per retorica se oggi, una volta svegliatomi, mi ha colpito scoprire come già fossero trascorsi quindici giorni da quel fatidico Martedì.
La risposta credo sia solo da ricercare nel fatto che, come il 10 e il 20, 15 sia un numero… maneggevole, ovvero una cifra di cui tenere facilmente il conto grazie all’uso di tutte e cinque le dita presenti in entrambe le nostre mani. In qualche modo, la storia della matematica e l’antropologia lo confermano: contiamo così per il semplice fatto di avere perso, coprendoci di vestiti, la possibilità di farlo usando anche altri segmenti del nostro corpo che invece un tempo, ben visibili, quindi disponibili, venivano subito coinvolti nel computare gli oggetti del reale.
La morale, riconducibile da lontano anche a ragioni biologiche legate, specie ad alcune latitudini, al bisogno di proteggerci dagli effetti indesiderati delle forti escursioni termiche giornaliere, e stagionali, ci ha spinto a coprirci sempre più, convincendoci che fosse sconveniente andare in giro seminudi e lasciando nel tempo disponibili per i nostri calcoli veloci soltanto le mani.
Tra l’altro, il termine sconveniente mi fa suonare un ulteriore campanello di allarme (oggi in testa ho un casino): nei vocabolari, la sua prima accezione serve proprio a rimarcare l’inopportunità etica di un particolare comportamento e solo la sua seconda ne rivela finalmente una più intuitiva derivazione dalla negazione di conveniente, un aggettivo che invece mantiene inalterato il suo carattere legato agli usi pratici di qualcosa.
Tornando all’importanza del numero quindici, noto che lo usiamo spesso come sintesi approssimata per eccesso del periodo di due settimane. Un’approssimazione che usiamo anche, stavolta approssimandola per difetto, nel valutare la lunghezza del mese: un lasso di tempo che, senza entrare nella complicatissima storia del calendario e delle sue riforme, man mano che si conta, si scopre essere lungo in media quanto le dita di sei mani.
Mi scopro spesso portato a pensare che tutto ciò che caratterizza la storia e l’evoluzione culturale della nostra specie – una volta imbracciato il machete per farci largo fra l’erba alta delle innumerevoli sovrastrutture di sicuro importantissime, ma a mio parere non certo definitive nello spiegare chi siamo davvero – possa svelare la sua intima e definitiva connessione con fattori sintetici, a priori, da far risalire piuttosto a motivazioni fisiche, biologiche, chimiche, genetiche.
Un punto di vista indicato col nome di determinismo biologico dalla validità tutta da dimostrare e che, per questo, partecipa dell’indecidibilità caratterizzante tutti i punti di vista “larghi”: quelli che hanno la pretesa di dire qualcosa di definitivo sulla realtà.
Mi aspetto però che, se l’emergenza dovesse protrarsi molto, molto a lungo rivelando, come molti sospettano, la nostra incapacità di eradicare del tutto questa piaga e i suoi effetti su salute, economia, cultura, al nostro sicuro adattamento all’idea di convivere con il virus potrebbe corrispondere l’affermarsi del numero 14.
Perché proprio di quel numero? É presto detto: perché pare sia la lunghezza del periodo di incubazione del Coronavirus. Si tratta di una cifra che evidentemente ancora non ha fatto colpo nel nostro immaginario collettivo: nessuno, nemmeno io, ha fatto notare che noi non ammalati potremmo da ieri considerarci non infettati o quantomeno asintomatici.
Essendo il 14 un numero più scomodo delle “cifre tonde” 10, 15 e 20 facilmente computabili usando tutte le dita delle nostre mani ben aperte, alla sua eventuale ascesa nella gerarchia delle cifre da usare per approssimare periodi di tempo e chissà cos’altro, potrebbe unirsi anche quella del 35, ovvero 5 semiperiodi di incubazione del Coronavirus contati usando 7 volte le dita di una sola mano.
Senza arrivare a temere di diventare tutti mutanti simili a quelli preconizzati dalla fantascienza – un genere letterario che comunque ha già abbondantemente vinto dimostrando di avere pre-visto molto bene lo scenario odierno -, mutanti che un giorno potrebbero addirittura esibire sette dita per mano, siamo senz’altro sicuri di essere dei mutanti culturali del tutto capaci di interiorizzare, di assorbire l’importanza di una cifra particolare come il 35 dimenticando, per meglio sopravvivere, lo spiacevole motivo del perché della sua importanza.
35. Una cifra che andrebbe così ad aggiungersi a quelle comode già in uso per approssimare giorni, settimane, mesi, anni, somme di denaro, … e “calcoli della serva” agevolati, arricchiti da un virus.
Questa sì potrebbe essere una prova a sostegno del determinismo biologico, non trovate?
SZ
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