CRONACA VIRUS – Giorno 17

                                                           INVISIBILI SCULTURE

A volte quasi la offendiamo definendola “viziata”, “pesante”, “brutta”. In altre situazioni  ci manca, la cambiamo o la nominiamo per invitare qualcuno ad andare via.

E se ieri parlavo di memorie di ieri e memorie del domani, tra le memorie dell’adesso, quindi tra le cose che diamo per scontate senza focalizzare mai la nostra attenzione del momento su di esse, vi è lei: l’aria che respiriamo.

Essa, da sempre presente alle nosre azioni, oltre a permetterci di vivere, contiene, materna, tutti i nostri gesti: li accoglie, li coccola, li accarezza senza farci sentire troppo il peso della sua presenza e, se fosse personificabile, verrebbe quasi da chiedersi: “ma noi che da essa riceviamo tanto, cosa diamo in cambio all’aria?”

No, questo articolo non intende essere un’ulteriore denuncia dell’inquinamento di origine antropica. Vuole piuttosto soffermarsi su un altro aspetto che da sempre mi colpisce piacevolmente e che uso per tentare di comprendere quale sia l’utilità, la funzione reale di alcuni aspetti della nostra vita psichica che tanto mi interessano.

Sospetto che i pensieri che sto per confessare si siano evoluti a partire dal 22 Settembre del 1995, giorno in cui annotai un semplice pensiero su un piccolissimo block notes verde: uno di quelli che fino a una decina di anni fa, prima che i cellulari divenissero la pietra d’appoggio di tutta la nostra esistenza, portavo sempre con me per appuntare pensieri, idee grafiche e musicali.

La sua rilettura ieri mi ha riempito di sensazioni strane e di nostalgie solo in parte decifrabili; quelle che stamattina, al mio risveglio, erano tutte qui ad attendermi, imponendomi di scriverne. In quelle righe dicevo:

Mi rifugio in stanze di musica, con muri di note che coprono le immagini di fuori; chi le costruisce? Un mio ideale batterista percussore mentale che tenta di inserirsi nel ritmo del battito cosmico, un trombettista dal soffio educato, un sassofonista dall’alito pentagrammato.

Quella che potrebbe sembrare solo una metafora è in realtà anche il modo con cui alle volte mi spiego cosa sia realmente una cosa così impalpabile come la musica. Mi sono da un po’ persuaso che essa altro non sia se non un modo di scolpire l’aria; un modo di dare ordine al moto altrimenti caotico delle particelle che la compongono così da far loro assumere la forma dei nostri pensieri alrimenti non comunicabili; così da renderli finalmente decifrabili da chi possiede quella particolare sensibilità geometrica. Chi la possiede, a sua volta consente l’accesso a geometrie aeree che riorganizzano le geometrie disegnate dall’attivazione di una “scelta” opportuna di neuroni.

In fondo,  anche quando ci muoviamo non facciamo altro che scolpire l’aria. I nostri gesti, le nostre posture, possono essere riguardati come pensieri del corpo (si pensi alla danza), nostro cervello esteso.

Essi, però, in quanto visibili, risultano troppo facilmente decifrabili e il loro negativo acustico quindi geometrico – l’involucro che un Michelangelo dell’aria salverebbe buttando via il corpo che lo modella da dentro, ottenendo così una specie di scultura per ciechi – diventa assolutamente secondario rispetto a ciò che, esibizionista, si impone alla nostra vista.

La facilità della decifrazione visiva ancora una volta ci fa dimenticare l’esistenza dell’atmosfera che tutto pervade e assiste con l’impareggiabile discrezione che è propria di ciò che, pur presente, non può essere visto.

In questo periodo di immensa solitudine mi rendo conto che è lei, l’aria, a farmi maggiormente compagnia: col silenzio – un caotico contenitore di particelle che, non spinte di qua e di là da oggetti in movimento, si spostano più lente del solito – o con la musica che arreda i nostri ambienti anche più delle architetture solide attorno a noi.

Saltando di pensiero in pensiero, facendomi dare un passaggio dalle ali dell’analogia, mi tornano allora alla mente le parole della mia amica Francesca: un tipo particolare, amante sì del bello, ma che lo frequenta ponendo più di un metro di distanza di sicurezza tra lei e la possibilità di farsi toccare così in profondità da perdere la sua libertà di essere una

“donna eternamente cazzeggiante, ancorché inconcludente e ingiustificabile, che però ha la capacità di regalarsi estasi da dettagli che racchiudono mondi che ai più sfuggono, e con consapevolezza se ne appropria”.

Qualche mese fa, durante una discussione circa i nostri ascolti preferiti, mi confidò:

Trovo che la musica di Bach abbia la capacità di mettere in ordine i pensieri”

Un punto di vista che mi trovò assolutamente d’accordo, anche se, per quanto affermato più su, mi sembra di scorgere un ordine, una geometria più o meno precisa (quella delle composizioni bachiane è a dir poco impeccabile) in tutti i pensieri organizzati: essi disegnano sempre una forma che, prima di essere ordine di particelle d’aria o di segni alfanumerici e/o pittorici, è ordine, geometria, forse anche ecologia di connessioni neuronali rispecchiate da ciò che manifestiamo all’esterno del nostro corpo.

Sono portato a pensare che anche la scrittura rientri di diritto in questo discorso: le parole, dette, lette o scritte che siano, sono una sorta di monodica e monòtona musica a progetto che, a differenza delle colonne sonore a ben vedere adattabili a diverse situazioni, crea immagini visive vivide e univoche: sentendo la parola “sedia”, ognuno di noi visualizza quella che per lui è in quel momento l’archetipo di riferimento per quell’oggetto. Un archetipo che condivide con gli archetipi altrui la forma sintetica di una sedia e il suo uso (chissà, forse è proprio in questo aspetto che va cercata la spiegazione del maggiore successo riscosso dalla musica cantata rispetto a quella suonata…)

A questo punto, credo che anche l’arte astratta, quella di più difficile interpretazione, acquisti un valore del tutto decifrabile: le pulsioni, le fantasie, i sogni, gli incubi – quelli che da un ingegnere elettronico potrebbero forse essere messi in connessione con le dark currents o con gli ineliminabili rumori stocastici presenti in tutti i processori microelettronici – forse a causa della loro episodicità, non ci impongono la stessa pressante attenzione dei pensieri organizzati nei quali più facilmente ci imbattiamo stando in Natura o immersi in società.

Se così fosse, per esprimere il manifestarsi di stimoli disordinati di quel tipo non credo avremmo molte altre alternative oltre quelle offerte dalle destrutturazioni, dalle deviazioni, spesso le più improbabili, dalla facile e comodamente interpretabile struttura euclidea dei discorsi, dei suoni, dei segni. Una geometria che, per capirci meglio,  abbiamo reso la più diffusa, quindi stocasticamente più probabile.

Ed è così che, attraverso i livelli intermedi come ad esempio, quelli offerti da Mondrian in pittura o da Hindemith in musica, finiamo nell’ambito non euclideo, nella destrutturazione di Malevič, nella pittura dinamica di Pollock, nei tagli di Fontana, …

Come che sia, oggi mi farò tenere ancora una volta compagnia dalle trasmissioni del terzo canale Rai della radio.

In particolare, affido le geometrie di parte dei miei pensieri alla voce familiare di Eduardo Camurri e alla sua rubrica Pagina 3, alle musiche del Concerto del mattino introdotte dalla voce di Arturo Stalteri, alle strampalate follie della divertentissima Barcaccia e ai concerti serali proposti da Radio 3 suite.

Sono sicuro che, oltre a intrattenermi, mi metteranno a posto casa cambiando l’aria dell’ ambiente quotidianamente viziata da tanta bellezza.

SZ

 

 

 

A quindici anni di distanza da Qui

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Come ogni anno, anche stavolta sono riuscito ad andare ad ArteFiera.

É uno di quei classici eventi capace di farti sentire orgoglioso di vivere in una città che prova costantemente ad allinearsi con quanto di bello accade nel resto del mondo.

Farsi una passeggiata dal centro fino al quartiere fieristico, approfittare per prendere un caffé lungo il percorso; arrivare e immergersi in una atmosfera pregna di una certa attesa di bellezza; scoprire che il progetto della bellezza interessa tante persone mentre di solito si è convinti che il progetto più diffuso sia quello della distruzione globale del mondo, dell’imbrattamento e dell'”imbruttamento”, fa bene. Permette di abbassare il diaframma e impone per qualche ora di sotterrare l’ascia di guerra.

Sarà per la crisi, ma anche quest’anno la kermesse risultava ridotta in dimensioni. Nulla a che vedere con le edizioni di tanti anni fa quando, arrivato da poco nella città felsinea, mi perdevo fra padiglioni adiacenti, sovrapposti, connessi, sconnessi e strabordanti proposte artistiche di ogni tipo.

Ma tant’è. Mi rallegro del fatto di aver trovato nei due padiglioni 25 e 26 uno sforzo immutato di dare diversi ritratti non (sempre) banali al periodo storico nel quale viviamo.

Mentre ero lì, compiendo un rapido raffronto mentale con le opere del passato, per un attimo mi sono trovato a valutare non come arte, ma come illustrazioni tecniche le tele, le foto, le sculture, le installazioni che si paravano davanti ai miei occhi nei vari stand. Un giorno, unitamente agli elettrodomestici, alle auto, ai libri, ai film, esse consentiranno a qualcuno di capire tecnicamente cosa stesse succedendo alla gente in quel lontano inizio del XXI secolo.

Il mio giro non è durato molto e dopo poco più di due ore mi sono ritrovato nella luce di una bella Domenica bolognese.

Di solito, il bottino di sensazioni che mi porto a casa è abbastanza ricco.

Confesso che invece quest’anno, se non fosse stato per i soliti Pomodoro, De Chirico, De Pisis, Sironi, Burri, Fontana, Melotti, sarei tornato a casa a mani quasi vuote (in realtà sono stato piacevolmente incuriosito da un lavoro di Spazzoli e da altri di Deodato).

Chissà, forse si tratta di una crisi degli attuali movimenti artistici, orfani di grandi idee da sottoporre al mondo.

Dimenticandomi per un momento quanto nelle edizioni precedenti sia stato piacevolmente suggestionato da diverse nuove proposte, e avendo constatato in questa edizione della Fiera di essere riuscito a vibrare solo di fronte alle opere dei nomi su citati, un dubbio mi sorge: forse dovrei leggere la mia parziale delusione di oggi pensando di essere sì un “uomo del mio tempo”,  ma arrendendomi al contempo di fronte al dato di fatto di essere comunque un figlio del ‘900.

Lo dico con una punta d’orgoglio, ma anche come confessione di una certa inerzia mentale: le mie radici culturali sono in quel tempo, a Quindici anni da Qui.

Vado a letto con questo dubbio.

La notte porterà insonnia.

SZ

Sottofondo: silenzio, se non fosse per il gorgogliare del frigo che, freddo conservatore, custodisce pensieri di pancia