CRONACA VIRUS – Giorno 24

                         LA FACCIA DEI LIBRI ALL’EPOCA DI FACCIA-LIBRO

La gradualità, anche se veloce, è l’inevitabile carattere che assume il cambiamento.

Si tratta soprattutto di una qualità auspicabile: la variazione repentina, netta, fulminea, è di solito irreversibile e siamo più propensi a connetterla con l’imprevisto, con il negativo, e con l’indesiderato che con il positivo, con la svolta risolutiva.

Capita così che, giorno dopo giorno, muti il concetto di prossimità, e non parlo solo di quella metaforica, dipendente da fattori come amicizia, famiglia, affinità elettive, …

In questa fase di rimescolamento delle carte in vista di una partita che non sappiamo ancora se mai si disputerà, può capitare di ritrovarsi vicini alla donna di quadri o, peggio, a quella di “picche”, quando invece si progettava di passare molto tempo insieme a quella di fiori.

Va così, non ci si deve soprendere. I rapporti virtuali, specie nei social, sono fili che non vanno pettinati, che spotaneamente si cercano affannosi e che a volte fissano i capi in maniera random. Forse lo fanno temendo di rimanere sospesi come stringhe inutilizzate e inconcludenti che, nate per legare, per accostare almeno due capi, rimangono lì a ingarbugliarsi solo con loro stesse.

In questo gioco combinatorio però alla fine si scopre che abbiamo ancora bisogno di rapporti con interlocutori concreti, che abbiano uno spessore, una massa, un peso, un volume.

Sarebbe meglio avessero carne e ossa, ma al momento gli è consentito avere al massimo una voce, quella di una telefonata, e le dimensioni e il peso di un cellulare, strumento che tramite una videochiamata può rivelare anche una faccia, delle espressioni, dei tratti umani.

É così che ieri ho sentito un amico lontano; è così che vedo i miei compagni di corso al Conservatorio di Rovigo; è così che vedo mio figlio col quale gioco anche a nascondino sfruttando gli angoli ciechi della telecamera del cellulare.

Alla spasmodica ricerca di un contatto fisico che poi si coniughi anche con idee ben espresse, condivise o anche solo condivisibili, ci si guarda intorno e si scoprono loro: i libri.

Ebook a parte, che a turno prendono le dimensioni del tuo pc, del tuo kindle o del tuo tablet, hanno corpi tutti simili e al contempo diversi. Sono volumi a base rettangolare con area di base e spessore variabili. Hanno un peso, un colore, un odore. Una caratteristica, questa, che – particolarmente marcata per alcune pubblicazioni esattamente come lo è di alcune persone – mi ha fatto riemergere alla memoria un ricordo che avevo perso per strada: mio cugino Emilio da ragazzo apriva i libri per immergervi subito l’intera faccia alla ricerca di quel tratto olfattivo in alcuni casi molto intenso e caratterizzante.

Sembrava quasi che per lui il vero significato della parola “libro” fosse “contenitore di idee olfattive” piuttosto che “contenitore di parole e idee”. Lui forse preferiva andare a fiutare un libro, piuttosto che a leggerlo, ma so per certo che poi ha cambiato idea, laureandosi in ingegneria.

I libri hanno una faccia, anche se, a parte casi particolari come i Meridiani Mondadori, non ti trovi praticamente mai davanti i volti che scopri in rete essere stati quelli degli autori che li hanno scritti.

No, essi piuttosto prendono il volto di illustrazioni, di tratti grafici, di copertine monotinteggiate e per te quel nome famoso diventa indissolubilmente legato non ai tratti fiosionomici degli scrittori, ma a quella immagine, a quelle linee o a quel colore che non tinteggia altro se non se stesso.

É per questo che ci si lega a quella copia, a quella edizione, e non a quell’altra magari più nuova, più aggiornata, ma decisamente meno desiderabile.

I libri, certi libri, invecchiano con te e riconosci sul loro volto le stesse rughe che gli hai regalato tu. Tu sei il tempo che li consuma; sei tu e/o la tua incuria, la polvere di casa tua, che poi in buona parte altro non è se non la tua pelle la quale, rinnovandosi, si sfalda e si posa nel tuo ambiente. A volte le rughe dei libri sono le stesse che hai tu, e queste caratteristiche, che spesso si ritrovano anche nei volti dei parenti e degli amici più stretti, non sono barattabili.

Inoltre, poi, specie in periodi come questo e non avendo a disposizione l’Overlook Hotel, non posso certo dispiacermi di non avere per casa Conrad, Hemingway, Platone, Einstein, Asimov, Clarke, Boltzmann, Poe, Calvino, … in persona.

Avrebbero bisogno di mangiare, dormire, andare in bagno, … e poi di frequente si scopre, leggendone le biografie, che a dispetto di ciò che di loro si immagina attraverso i loro scritti, erano persone difficili, quando non addirittura sgradevoli.

Fossero qui, molto probabilmente li sbatterei fuori, loro e le loro idee, dopo pochi minuti di chiacchiere “rilassate (o, cosa ancora più probabile, deciderebbero loro di allontanarsi da me). Invece ho un archivio del “meglio di” che mi consente di selezionare proprio quanto di meglio i loro cervelli hanno sintetizzato.

Purtroppo con loro, con i libri, non si può dialogare apertamente, anche se credo che una certa forma metaforica di chiacchierata silenziosa possa pure essere il semplice annotare i pensieri che la loro lettura suscita. Puoi starne certo: avranno il buon gusto di non ribattere e – chi tace acconsente – potrai bearti di aver raccolto la loro muta accettazione.

Questo aspetto ha il potere di rendere esclusivo il nostro rapporto: ciò che davvero quella copertina dice al sottoscritto, lo dice solo a me. Potrebbe dire qualcosa di simile anche a qualcun altro, ma so per certo che la somma delle mie sensazioni che si mescolano intimamente al significato invece universale di quei concetti, rende il loro discorso unico, mio, esclusivo, troppo complesso da trasmettere per intero.

Le copertine di quei libri diventano così facce che declamano versi, aforismi, formule, interi capitoli su mondi reali o alternativi. Hanno simili cose da dire sulla punta della lingua posta poche pagine dopo; le puoi zittire quando vuoi o lasciarle a parlare, a faccia aperta, alla superficie del pavimento dando loro l’illusione di star lì ad ascoltarli.

Averne tanti fuori dagli scaffali, poi, magari tutti buttati alla rinfusa sul pavimento o su divani e letti perché da te richiamati per disegnare meglio il filo rosso di un a volte azzardato pensiero sinestesico, sfaccettato e sinergico, regala una piacevole illusione: che casa tua sia diventata, per un tempo limitato e irripetibile, sede di un convegno folle e meraviglioso tra teste che non si sono mai incontrate, ognuna accorsa lì per parlare con te e con gli altri del mondo visto con i suoi occhi.

Insomma, non siamo soli. Siamo arrivati fin qui grazie anche a loro che ci guardano di costa dalle nostre librerie.

Se poi a queste narrazioni si sommano pure quelle contenute nei cd per i quali valgono gli stessi discorsi fatti più su per i libri, il gioco è fatto e cent’anni di solitudine, nella loro disumanità, possono apparire umanamente sopportabili.

Disumanità e umanità. Se c’è qualcosa che ci può davvero aiutare in questo momento storico è proprio quest’ultima intesa come insieme di persone, ma anche e soprattutto come valore assoluto della cifra intellettuale dei migliori di noi.

Una cifra memorizzata su vivi supporti di carta dalla capacità che, in onore della visione orwelliana assolutamente poetica di persone-libri (o libri-persone), non misurerei più in bit e byte, ma in Farhenheit.

Ecco, propongo proprio che, se un giorno riusciremo davvero a mettere le memorie intere dei nostri cervelli su un supporto fisico per renderci immortali, se un giorno avremo davvero una porta USB, magari sulla nuca, da cui prelevare, downloadare chi siamo, cosa proviamo, cosa pensiamo, cosa ricordiamo, …, allora si opti per un cambio di unità di misura:

la capacità di memoria umana, piuttosto che ancora in bit e byte, merita di essere misurata in Fahrenheit, con l’acca in mezzo, rubando così il nome a quello di una scala di temperature meno usata delle più famose scale kelvin e centigrada, e che, per questo, un giorno potrebbe anche prenderne un altro, non trovate?

🙂

SZ

 

 

 

 

 

 

CRONACA VIRUS – Giorno 18

                                                     L’ULTIMO FOTOGRAMMA

Dicono che prima di morire si riveda l’intero film della propria vita compresso in pochi secondi. Forse addirittura in uno, prezioso e ultimo. Prezioso perché ultimo.

Mi immagino, allora, nel mentre trasalirò migliaia di volte pensando “Ecco dove accidenti avevo messo quella tal cosa che ho cercato tanto!” o “Nonostante io stia morendo, il mio comportamento di quella volta continua a imbarazzarmi tremendamente,…”.

Capiterà anche di arrabbiarmi, di gioire e di rinnamorarmi innumerevoli volte per poi subito disperarmi per dieci, cento, mille amori finiti; amori velocissimi, ma non per questo poco intensi, anzi. Infine proverò milioni di volte la nostalgia di alcuni momenti che hanno reso la vita degna di essere vissuta e forse sarà proprio questo il motivo per cui morirò. Non credo che a uccidermi sarà una patologia di qualche tipo. Quella servirà solo a condurmi sull’uscio oscuro e misterioso dell’Ade. A farlo, a darmi la spintarella, sospetto che sarà l’eccesso di informazioni emozionali così compresse nel tempo che consumerà l’ultimo millimetro di stoppino; quello che, tenace, separerà la fiammella dalla cera rimasta della mia candela.

Lo penso perché mi rendo conto che la situazione odierna mi sta stimolando la memoria in modo diverso dal solito: sarà che ho più tempo per farlo, ma passo buona parte del mio tempo a compiere l’involontaria operazione di ricordare eventi lontani.

In fondo, è abbastanza normale: da neonati si  parte (apparentemente) senza ricordi e poi, man mano che nei giorni, nei mesi, negli anni si accumulano le esperienze, il materiale esperienziale impilato fa sorgere per la sua gestione il bisogno di qualcosa come il processo di memorizzazione, conscio o inconscio che sia.

Credo, ma purtroppo non ne serbo un ricordo netto, di avere già parlato, in passato in questo stesso blog, del fatto che l’avere accumulato diversi decenni di esperienza in fatto di vita, mi ha dato spesso la possibilità di comprendere a posteriori il perché di alcuni eventi del passato.

Quelli che – quasi fossi affetto da una specie di prematura e duratura presbiopia della visione interiore che impedisce di focalizzare l’adesso vicino – nel mentre li vivevo, sembravano assolutamente privi di alcun valore.

Aver avuto la pazienza di attendere mi ha consentito, a distanza di uno o più decenni, di capirne il significato, di sentire il sapore vero e sottile di cibi che, giovane e affamato di sapori forti, sembravano sciapi.

Questo genere di esperienze mi porta a immaginare il tempo come strutturato in fili: lenze delle quali non vedo l’amo e che pescano molto, molto lontano da qui; nervature lunghissime, stese a connettere gli stimoli odierni con una mia reazione molto lontana nel futuro.

Simili pensieri mi fanno sorridere ancora una volta scoprendo che, se è vero ciò che si dice sull’istante prima di morire, è probabile che scoprirò quale sia la lezione insita in chissà quali eventi di molto precedenti senza poterne fare tesoro per intervenuta decorrenza dei termini.

Ecco, questa potrebbe essere la scoperta in assoluto più importante: l’inutilità della morte che, in barba alla saggezza finalmente conquistata, mi metterà in condizione di dover rinunciare alla possibilità di aggiustare il tiro.

O forse no. La lezione, dopo un’intera esistenza trascorsa a cercare di scorgere insegnamenti da mandare a memoria, potrebbe proprio venirmi dall’accorgermi che è la vita, e non la morte, ad essere stata inutile col suo carico di sovrastrutture che siamo bravissimi a costruire per combattere l’horror vacui.

Come già il pensiero biologico ci ha suggerito, il vero scopo della nostra presenza qui potrebbe non essere connesso ad altro se non alla necessità di propagare i propri geni – la Natura lo vuole! – per creare un altro essere che non potrà esimersi dallo scoprire la stessa nuda verità.

Nel caso, farò spallucce: tutto il film della mia esistenza collasserà su quell’unica, magica scena di quel pomeriggio del 24 Maggio 2012 in cui qui, nella stessa stanza della casa in cui ora mi trovo, aveva davvero inizio l’avventura di mio figlio Giovanni: un’avventura che invece – perpetrando un’inveterata abitudine storica alla inevitabile mistificazione dei dati cronologici di cui i nostri libri sono pieni – all’anagrafe risulta essere iniziata il 27 Febbraio dell’anno successivo.

In un estremo tentativo di salvare la validità di ciò che ho detto prima, mi aggrappo al dato che vede i figli come memorie solide e organiche della nostra struttura biologica di genitori.

Visto così, il significato al momento valutabile come scarso della mia esistenza, avrà modo di prendersi la sua rivincita rivelando la sua importanza quando, una volta che mi sarò tolto dalle balle, mio figlio realizzerà la sua vita, quindi la mia.

Forse dovrei iniziare a preoccuparmi: lo stare chiuso qui dentro senza poter uscire, senza poterr fare le mie lunghe passeggiate, senza poter stimolare in modo adeguato la produzione di vitamina D e soprattutto senza poter confidare in una previsione credibile di quando tutto ciò avrà termine, sta assumendo sempre più il carattere di un viaggio definitivo. Quello oltre l’orizzonte degli eventi collocato all’inizio di questo mese, a partire dal quale non possiamo più fare a meno di spiraleggiare in avvitamento stretto attorno a una destinazione oscura e compatta.

Questo giustificherebbe la lentezza con la quale mi arrivano i ricordi, ma anche il loro giungere a farmi visita sempre più di frequente laddove, in condizioni normali, mi lascerebbero vivere abbastanza in pace.

Qualcuno potrebbe essere stufo di questi discorsi e chiedermi di non tergiversare oltre rivelando finalmente quali sono stati questi famosi ricordi di ieri. E io, se così è, ve lo dico.

In uno ci sono io ragazzino che gioco col Lego a casa del mio amico Ivan. É una casa enorme, risultato dall’unione di due appartamenti, e noi ci troviamo in un ambiente inondato dalla luce lasciata entrare dalla lunghissima vetrata che abbraccia la metà del perimetro di quella abitazione.

Prima che venisse chiusa per diventare a tutti gli effetti un ambiente vivibile, quella doveva essere solo un’enorme veranda dalla quale dominare tutto il quartiere e godere della vista dell’orizzonte che invece da casa mia, più piccola e meno sopraelevata, oramai non si scorgeva più, occultato com’era dai nuovi palazzi costruiti nel circondario.

Eravamo entrambi molto bravi e creativi nell’usare quei pezzi colorati e avevamo costruito ognuno la sua astronave personale. La sua, un analogo della casa dove viveva, aveva dimensioni decisamente notevoli e poteva ospitare un equipaggio di alcuni astronauti. La mia era invece, molto più modesta e piccola della sua e forse, anche nel mio caso, essa rispecchiava la dimensione di casa dei miei, nonché pure una certa diversità di ceto e di disponibilità economica delle mia famiglia rispetto alla sua.

Potrei definire quella mia astronave una semplice monoposto che sotto il pavimento dell’abitacolo celava un ripostiglio. Ripensandolo, mi viene da metterlo in relazione allo scantinato buio e odoroso di muffa, conserve di pomodori e goccie di vino sfuggite da quei fiaschi avvolti in ceste lignee della casa dei miei nonni materni. Odori e luci soffuse che me lo rendevano estremamente affascinante, forse perché, a causa della poca luce, imponeva di orientarsi con tutti i sensi meno che il gusto.

Al ripostiglio della mia astronave, una specie di “doppio fondo” di una 24 ore, si accedeva tramite una botola nel pavimento ed era diviso dalla sala motori da una paratia spessa che, secondo le mie intenzioni, avrebbe dovuto proteggere l’ambiente dalle radiazioni prodotte dai propulsori a fusione nucleare.

Immaginavamo di viaggiare nel cosmo per andare a vedere da vicino le meraviglie di cui si parlava nei libri e in alcuni programmi televisivi (la trasmissione Quark fu inaugurata quando ero in terza media…) e l’angustia di quell’ambiente non mi preoccupava affatto, anzi.

Grazie alla distanza di una quarantina d’anni dalla quale rivisito quei momenti, ho la possibilità di interpretare quella ed altre per l’epoca strane ed episodiche tendenze all’isolamento come possibili espressioni di un viaggio mentale e professionale che avrei percorso sempre più slegato dagli altri.

Una tendenza che, forse intuendo quale fosse davvero ciò che la mia natura più autentica mi avrebbe riservato in futuro, ho sconfessato fino a pochi anni fa conducendo una vita sociale intensissima, all’aperto, muovendomi veloce e affamato in spazi enormi, così ampi da apparire in stridente contrasto con il piccolo ambiente della mia astronave.

Va a finire che stavo solo costruendo una cantina di ricordi sociali d’annata, utili a costruirmi un vitalizio mnemonico cui attingere, come in questo momento, per ubriacarmi e non sentire il peso di ciò che sono diventato.

La solitudine dei miei sogni da ragazzo ammetteva solo una eccezione, quella protagonista del secondo ricordo:

stavolta mi trovo, di sera, a discutere con mio padre nel suo studio, ultima stanza in fondo a sinistra del corridoio del nostro appartamento. A quell’ora mi capitava spesso di essere lì con il primo Giovanni della mia vita a chiacchierare sul sottofondo di note non banali emesse dal solito canale radio della Rai – non ricordo se all’epoca fosse il secondo o se invece si trattasse sempre del terzo…-, nella calma aromatica generata dalla sua pipa o dai sigari che amava concedersi alla sera.

Una calma che, non avendo mai fumato, di tanto in tanto provo a riprodurre affondando il mio lungo naso in un bicchiere di torbido Laphroig.

Una sera, quella sera del ricordo – all’epoca ero già studente di Fisica al primo o secondo anno -, si parlava della bellezza del cosmo: in simili discussioni a me veniva prematuramente affidato il ruolo di consulente scientifico, mentre lui sondava gli aspetti più estetici e cosmogonici della faccenda. Quelli che, da insegnante di filosofia e intellettuale onnivoro quale era, di sicuro gli spettavano per aver conquistato le stellette sul campo di battaglia.

Guardando dalla finestra chiusa il fazzoletto di cielo da lì visibile, immaginai per un attimo di volare via a bordo di quella stanza tappezzata di libri che, come la mia piccola astronave di Lego, staccatasi dal resto della casa, della famiglia, del palazzo, …, conduceva me e lui in giro nel cosmo per vedere ancora una volta da vicino ciò che stando ancorati al terreno poteva solo essere evocato.

Oggi sono ancora qui a immaginare spesso di partire. Lui non ha atteso: impaziente, ventitré anni fa è andato in avanscoperta e ogni tanto mi chiedo se in un fotogramma del suo ultimo film sia riuscito a notare, anche solo per un attimo velocissimo, la mia commozione di quella sera.

SZ