LA FACCIA DEI LIBRI ALL’EPOCA DI FACCIA-LIBRO
La gradualità, anche se veloce, è l’inevitabile carattere che assume il cambiamento.
Si tratta soprattutto di una qualità auspicabile: la variazione repentina, netta, fulminea, è di solito irreversibile e siamo più propensi a connetterla con l’imprevisto, con il negativo, e con l’indesiderato che con il positivo, con la svolta risolutiva.
Capita così che, giorno dopo giorno, muti il concetto di prossimità, e non parlo solo di quella metaforica, dipendente da fattori come amicizia, famiglia, affinità elettive, …
In questa fase di rimescolamento delle carte in vista di una partita che non sappiamo ancora se mai si disputerà, può capitare di ritrovarsi vicini alla donna di quadri o, peggio, a quella di “picche”, quando invece si progettava di passare molto tempo insieme a quella di fiori.
Va così, non ci si deve soprendere. I rapporti virtuali, specie nei social, sono fili che non vanno pettinati, che spotaneamente si cercano affannosi e che a volte fissano i capi in maniera random. Forse lo fanno temendo di rimanere sospesi come stringhe inutilizzate e inconcludenti che, nate per legare, per accostare almeno due capi, rimangono lì a ingarbugliarsi solo con loro stesse.
In questo gioco combinatorio però alla fine si scopre che abbiamo ancora bisogno di rapporti con interlocutori concreti, che abbiano uno spessore, una massa, un peso, un volume.
Sarebbe meglio avessero carne e ossa, ma al momento gli è consentito avere al massimo una voce, quella di una telefonata, e le dimensioni e il peso di un cellulare, strumento che tramite una videochiamata può rivelare anche una faccia, delle espressioni, dei tratti umani.
É così che ieri ho sentito un amico lontano; è così che vedo i miei compagni di corso al Conservatorio di Rovigo; è così che vedo mio figlio col quale gioco anche a nascondino sfruttando gli angoli ciechi della telecamera del cellulare.
Alla spasmodica ricerca di un contatto fisico che poi si coniughi anche con idee ben espresse, condivise o anche solo condivisibili, ci si guarda intorno e si scoprono loro: i libri.
Ebook a parte, che a turno prendono le dimensioni del tuo pc, del tuo kindle o del tuo tablet, hanno corpi tutti simili e al contempo diversi. Sono volumi a base rettangolare con area di base e spessore variabili. Hanno un peso, un colore, un odore. Una caratteristica, questa, che – particolarmente marcata per alcune pubblicazioni esattamente come lo è di alcune persone – mi ha fatto riemergere alla memoria un ricordo che avevo perso per strada: mio cugino Emilio da ragazzo apriva i libri per immergervi subito l’intera faccia alla ricerca di quel tratto olfattivo in alcuni casi molto intenso e caratterizzante.
Sembrava quasi che per lui il vero significato della parola “libro” fosse “contenitore di idee olfattive” piuttosto che “contenitore di parole e idee”. Lui forse preferiva andare a fiutare un libro, piuttosto che a leggerlo, ma so per certo che poi ha cambiato idea, laureandosi in ingegneria.
I libri hanno una faccia, anche se, a parte casi particolari come i Meridiani Mondadori, non ti trovi praticamente mai davanti i volti che scopri in rete essere stati quelli degli autori che li hanno scritti.
No, essi piuttosto prendono il volto di illustrazioni, di tratti grafici, di copertine monotinteggiate e per te quel nome famoso diventa indissolubilmente legato non ai tratti fiosionomici degli scrittori, ma a quella immagine, a quelle linee o a quel colore che non tinteggia altro se non se stesso.
É per questo che ci si lega a quella copia, a quella edizione, e non a quell’altra magari più nuova, più aggiornata, ma decisamente meno desiderabile.
I libri, certi libri, invecchiano con te e riconosci sul loro volto le stesse rughe che gli hai regalato tu. Tu sei il tempo che li consuma; sei tu e/o la tua incuria, la polvere di casa tua, che poi in buona parte altro non è se non la tua pelle la quale, rinnovandosi, si sfalda e si posa nel tuo ambiente. A volte le rughe dei libri sono le stesse che hai tu, e queste caratteristiche, che spesso si ritrovano anche nei volti dei parenti e degli amici più stretti, non sono barattabili.
Inoltre, poi, specie in periodi come questo e non avendo a disposizione l’Overlook Hotel, non posso certo dispiacermi di non avere per casa Conrad, Hemingway, Platone, Einstein, Asimov, Clarke, Boltzmann, Poe, Calvino, … in persona.
Avrebbero bisogno di mangiare, dormire, andare in bagno, … e poi di frequente si scopre, leggendone le biografie, che a dispetto di ciò che di loro si immagina attraverso i loro scritti, erano persone difficili, quando non addirittura sgradevoli.
Fossero qui, molto probabilmente li sbatterei fuori, loro e le loro idee, dopo pochi minuti di chiacchiere “rilassate (o, cosa ancora più probabile, deciderebbero loro di allontanarsi da me). Invece ho un archivio del “meglio di” che mi consente di selezionare proprio quanto di meglio i loro cervelli hanno sintetizzato.
Purtroppo con loro, con i libri, non si può dialogare apertamente, anche se credo che una certa forma metaforica di chiacchierata silenziosa possa pure essere il semplice annotare i pensieri che la loro lettura suscita. Puoi starne certo: avranno il buon gusto di non ribattere e – chi tace acconsente – potrai bearti di aver raccolto la loro muta accettazione.
Questo aspetto ha il potere di rendere esclusivo il nostro rapporto: ciò che davvero quella copertina dice al sottoscritto, lo dice solo a me. Potrebbe dire qualcosa di simile anche a qualcun altro, ma so per certo che la somma delle mie sensazioni che si mescolano intimamente al significato invece universale di quei concetti, rende il loro discorso unico, mio, esclusivo, troppo complesso da trasmettere per intero.
Le copertine di quei libri diventano così facce che declamano versi, aforismi, formule, interi capitoli su mondi reali o alternativi. Hanno simili cose da dire sulla punta della lingua posta poche pagine dopo; le puoi zittire quando vuoi o lasciarle a parlare, a faccia aperta, alla superficie del pavimento dando loro l’illusione di star lì ad ascoltarli.
Averne tanti fuori dagli scaffali, poi, magari tutti buttati alla rinfusa sul pavimento o su divani e letti perché da te richiamati per disegnare meglio il filo rosso di un a volte azzardato pensiero sinestesico, sfaccettato e sinergico, regala una piacevole illusione: che casa tua sia diventata, per un tempo limitato e irripetibile, sede di un convegno folle e meraviglioso tra teste che non si sono mai incontrate, ognuna accorsa lì per parlare con te e con gli altri del mondo visto con i suoi occhi.
Insomma, non siamo soli. Siamo arrivati fin qui grazie anche a loro che ci guardano di costa dalle nostre librerie.
Se poi a queste narrazioni si sommano pure quelle contenute nei cd per i quali valgono gli stessi discorsi fatti più su per i libri, il gioco è fatto e cent’anni di solitudine, nella loro disumanità, possono apparire umanamente sopportabili.
Disumanità e umanità. Se c’è qualcosa che ci può davvero aiutare in questo momento storico è proprio quest’ultima intesa come insieme di persone, ma anche e soprattutto come valore assoluto della cifra intellettuale dei migliori di noi.
Una cifra memorizzata su vivi supporti di carta dalla capacità che, in onore della visione orwelliana assolutamente poetica di persone-libri (o libri-persone), non misurerei più in bit e byte, ma in Farhenheit.
Ecco, propongo proprio che, se un giorno riusciremo davvero a mettere le memorie intere dei nostri cervelli su un supporto fisico per renderci immortali, se un giorno avremo davvero una porta USB, magari sulla nuca, da cui prelevare, downloadare chi siamo, cosa proviamo, cosa pensiamo, cosa ricordiamo, …, allora si opti per un cambio di unità di misura:
la capacità di memoria umana, piuttosto che ancora in bit e byte, merita di essere misurata in Fahrenheit, con l’acca in mezzo, rubando così il nome a quello di una scala di temperature meno usata delle più famose scale kelvin e centigrada, e che, per questo, un giorno potrebbe anche prenderne un altro, non trovate?
🙂
SZ
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