CRONACA VIRUS – Giorno 16

                                         MEMORIES OF TOMORROW

Continuando a fare il solito, ozioso zapping col quale si chiudono praticamente tutte le mie lunghe giornate di questo periodo, ieri sera mi sono imbattuto per l’ennesima volta nel film Balla coi lupi.

Un certo meccanismo di zipping – incredibile come cambiare una sola volcale possa aprire scenari mentali del tutto diversi… – del mio (nostro?) cervello ha fatto sì che io abbia compresso il ricordo di quando ho visto quella pellicola collocandolo da qualche parte vicino ad altri molto più recenti.

Scoprire, quindi, dopo una breve ricerca in rete che si tratta di un film uscito nel 1990 mi fa vacillare, togliendomi quasi il pavimento da sotto i piedi.

Nel 1990 avevo 22 anni, vivevo ancora al sud con i miei, ero uno studentello con le idee molto poco chiare, erano ancora vive persone per me fondamentali che di lì a poco sarebbero scomparse…

Insomma, a distanza di trent’anni, vedo un me stesso alieno che però mi somiglia alquanto – potrebbe essere mio figlio – alle prese con un’altra vita su altro continente o su un altro pianeta molto distante da qui.

Ricordo che, pur non essendo mai stato un maniaco del genere western, quel film mi piacque moltissimo, ma si vede che, per risparmiare il poco spazio mentale a mio disposizione, ne ho collocato il ricordo in una posizione molto recente (“sembrava ieri!”) e al contempo fluttuante, tralasciando cioè di ancorarlo ad altri ricordi ben più netti, che mi avrebbero potuto aiutare nel datarlo con precisione.

Nonostante non fosse la prima volta che lo rivedevo, forse proprio grazie alla vista laterale, annebbiata dal sonno incipiente, ho realizzato che non è nient’altro se non il modello o, come si dice oggi, il template sul quale hanno plasmato molti altri film, in primis Avatar, anche questo rivisto da poco grazie al mio DVD (se non sono un maniaco del genere western, lo sono di sicuro del genere fantascientifico del quale possiedo una collezione davvero invidiabile).

L‘impianto del film storico Balla coi Lupi è presto riassunto: c’è il militare che, riportando in una azione di guerra un problema a una gamba, in seguito ai vari eventi scatenati da quell’inconveniente si fa volontariamente inviare in un lontanissimo avamposto. É un militare e l’obiettivo di fondo è smpre quello di proteggere e al contempo espandere i confini per biechi scopi economici che tengono in nessun conto l’esistenza di abitanti di quelle terre lontane, dei loro valori, dei loro affetti, della loro libertà, … L’eroe, costretto dagli eventi a rimanere da solo, si imbatte da subito in un lupo che non ne vuole sapere di mantenersi a debita distanza e, costretto da questo incontro e da vari accadimenti a rivedere la propria posizione rispetto al mondo, decide di aprirsi al nuovo stile di vita che l’ambiente stesso gli suggerisce di adottare. Uno stile che lo porterà presto a contatto con gli alieni abitanti di qulle lande lontane: vincerà le iniziali diffidenze e ovvie ostilità di alcuni maschi alfa di quella comunità e, grazie soprattutto all’attenzione di una donna che gli verrà affiancata dai capi con il compito di insegnargli gradualmente la lingua e gli usi indiani, si integrerà perfettamente nella tribù. Tra lui e la sua “tutrice” sboccerà l’amore e lui diverrà addirittura un esponente di spicco di quella comunità, specie durante il conflitto contro le truppe unioniste presso le quali un tempo era un ufficiale.  Verrà catturato e quindi incolpato di avere tradito le sue origini, la sua cultura e tutto ciò su cui aveva fondato la sua vita precedente. Lui comunque deciderà di schierarsi con gli indiani, ma questo film dall’impianto essenzialmente storico non poteva certo permettersi una conclusione con il classico lieto fine: prima dei titoli di coda viene chiaramente riportato che di lì a poco il popolo indiano verrà decimato e poi assorbito dalla barbarie civile arrivata da est.

In Avatar, film del 2009 e ambientato in un’epoca distante ben 300 anni dai fatti narrati nel film precedente, il protagonista è ancora una volta un militare che in guerra ha subito un trauma localizzato ancora una volta sul suo apparato motorio. La lontana frontiera stavolta non è un continente terrestre da esplorare e conquistare, ma un pianeta orbitante attorno ad alfa Centauri, la stella più prossima al nostro Sole e probabile America del nostro futuro coloniale. Anche in questo film, l’eroe deve infiltarsi nella società del popolo indigeno che vive sul pianeta  e che dimostra di avere conservato quel contatto con la Natura che oramai noi terrestri abbiamo completamente rimosso, del tutto dimentichi come siamo di quando vivevamo in totale simbiosi con il nostro pianeta e gli altri suoi abitanti. Il protagonista è quindi ancora una volta un militare e l’obiettivo di fondo è sempre quello di proteggere e al contempo espandere i confini terrestri per biechi scopi economici che tengono in nessun conto l’esistenza di abitanti di quelle terre lontane, dei loro valori, dei loro affetti, della loro libertà, … L’eroe, rimasto solo, si imbatte in quelli che potrebbero essere dei lupi alieni estremamente più aggressivi del lupo della prateria americana. Sta per soccombere, ma viene salvato da una lei del popolo indigeno. Costretto da questo incontro a rivedere la propria posizione rispetto al mondo, decide di aprirsi al nuovo stile di vita che l’ambiente stesso gli suggerisce di adottare. Uno stile che lo porterà presto a contatto con gli alieni, stavolta veri e non solo metaforici, abitanti di qulle lande lontanissime: vincerà le iniziali diffidenze e ovvie ostilità di alcuni maschi alfa di quella comunità e grazie soprattutto all’attenzione dell’aliena che lo ha salvato dall’attacco delle fiere prima incontrate e che gli verrà affiancata dal capo tribù con il compito di insegnargli gradualmente la lingua e gli usi del loro popolo, lui che è sveglio e intelligente si integrerà perfettamente nella tribù. Tra il nostro eroe e la sua “tutrice” sboccerà l’amore e lui diverrà addirittura un esponente di spicco di quella comunità, specie durante il conflitto contro le truppe terrestri. Verrà catturato e quindi incolpato di avere tradito le sue origini, la sua cultura e tutto ciò su cui aveva fondato la sua vita precedente. Nonostante le accuse, il protagonista deciderà di schierarsi con gli alieni e stavolta, in assenza di libri di storia che ci possano togliere ogni illusione circa la realtà, il film si conclude con un bel lieto fine: vissero, anzi, vivranno (l’azione si svolge nel 2154…) tutti felici e contenti.

Ovviamente la mia scelta di usare lo stesso testo per descrivere i due film, cambiando solo gli elementi che proprio non potevano non essere cambiati, è voluta in quanto utile allo scopo di mostrare quanto più possibile l’estrema sovrapponibilità dei due soggetti narrativi.

Nel caso di Balla coi lupi, si tratta di una memoria di ieri ben documentata grazie alla quale il popolo americano fa ammenda nei confronti di quello indiano oramai reso silente e marginale rispetto alla cultura wasp imperante in quel continente. Nel caso di Avatar, il soggetto vichianamente funziona perché, lo sappiamo bene, non possiamo proprio permetterci di non replicare atteggiamenti aggressivi che da sempre caratterizzano la nostra specie e, in particolare, il popolo americano (in entrambi i film, il protagonista è un milite a stelle e strisce) sempre pronto a esportare democrazia ovunque.

Con questo film, sembra quasi che il regista Cameron abbia deciso di basarsi su una memories of tomorrow di jarrettiana… memoria, andando a costruire un quadro che, nonostante il suo essere una narrazione chiaramente distopica, risulta del tutto credibile e attuale (ma anche credibile in quanto rispecchiata dal passato).

Sembra quasi che nella memoria del mondo vi sia lo stesso scollamento di eventi che vi è nella mia testa: il presente, il futuro e il già avvenuto, piuttosto che risultare appesi nelle giuste posizioni lungo il lunghissimo filo da stendere del tempo, risultano fluttuanti e, mutatis mutandis, intercambiabili.

Un rimescolio delle carte dal quale, nell’estremo tentativo di fare ordine tra i ricordi, emerge prepotente solo una cosa da tenere bene a mente: ci siamo sempre comportati allo stesso modo. Una consapevolezza alla quale segue facilmente l’altra: “E faremo sempre così”.

Ecco perché, senza entrare nel merito di un problema delicatissimo del quale in qualche modo mi sono già qui occupato in un recente passato, leggendo ieri le parole della Fornero che si è pronunciata di recente su un tema importantissimo come il pensionamento di chi secondo lo Stato è ancora in grado di lavorare, mi sono tornate in mente altre memorie di domani ben conservate in mente e vissute grazie alla visionarietà di scrittori e registi indovini.

Ma veniamo prima ai fatti. Sembra che l’ex ministra  abbia espresso il seguente concetto per certi versi autoevidente:

“Se si va in pensione prima, quando si è ancora in buona salute, è un costo, perché qualcuno te la deve pagare.”

Il blog dal quale ho preso questa frase la mette credibilmente in relazione con quella da ascrivere alla Christine Lagarde, la presidentessa a capo della BCE, la quale nel 2012 pare abbia involontariamente scritto l’incipit di un altro romanzo distopico che (sottofondo orchestrale incalzante) potrebbe iniziare proprio con la scritta:

La longevità è diventata un nemico, se non da combattere, almeno da rendere inoffensivo: troppe spese per lo stato in pensioni e assistenza sanitaria”

Con la solita memoria del domani, mi sembra di riuscire a vedere in modo chiaro i possibili sviluppo e conclusione delle scene successive di questo film ancora da girare con 7 miliardi di personaggi in cerca di autore: al popolo, sempre più vessato da leggi ingiuste del tutto a beneficio di una oligarchia aristocratica totalmente insensibile ai bisogni dei più (Metropolis), viene imposto un netto, ma decisamente crudele ricambio generazionale della classe operaia. Il vantaggio è grande: piuttosto che attendere che gli automi-umani, una volta invecchiati, possano diventare un peso economico e sociale, raggiunta un’età giudicata adeguata per smettere di rendere i loro servigi alla società, vengono dismessi ed eutanasicamente invitati a sparire dalla circolazione nell’ignavia e nella disattenzione generali (La fuga di Logan).

Forse verremo rimpiazzati da nostri cloni che gli alieni, a nostra insaputa già da tempo qui in mezzo a noi, in oscuri scantinati-laboratori stanno già preparando (L’invazione degli ultracorpi), oppure verremo sostituiti con le nostre copie sintetiche progettate da una società senza scrupoli di cui non sapremo più nemmeno se sia da considerarsi verticizzata o semplicemente se sia governata da processi-macchina avviati da noi stessi e poi sfuggitici di mano (Moon).

A questa narrazione, trattandosi di uno sguardo su un futuro possibile ma non corroborato da dati storici, posso permettermi di donare un lieto fine costituito dalla buona notizia che mi affretto a darvi: sospetto che molti di noi, forse tutti, coroneranno un sogno che non sapevano neppure di avere, divenendo tutti protagonisti di una serie televisiva che ha già ampiamente dimostrato di piacere al pubblico.

Vi pare poco?

Mi raccomando: fate come nulla fosse, non guardate in camera e siate credibili.

Siate voi stessi.

 

SZ

 

 

 

 

 

 

 

 

Molto in fondo, A dAstra

Out-to-lunch-con-stelleIeri sera ho opposto una strenua resistenza alle lusinghe del letto e, nonostante l’ora (erano le 21:00), tre uova strapazzate, una insalatona, mezzo bicchiere di vino rosso e una mela che hanno tentato per tutto il tempo di riportarmi gravitazionalmente sul divano, ho optato per il cinema.

Andare a vedere film di fantascienza, da astrofisico-divulgatore-ecc, lo considero un dovere che qualche volta si rivela pure un piacere. In ogni caso, io DEVO vedere queste produzioni, altrimenti di cosa parlo alle feste?

Sono andato da solo: il tentativo compiuto alcuni giorni fa di trovare qualcuno interessanto a vedere Ad Astra aveva sortito effetti così deludenti da non voler provare più il sapore della sconfitta, e ho preferito tenermi in bocca quello della cena decidendo così di andare in mia compagnia: ieri sera, almeno, ero abbastanza d’accordo con me stesso (anche se il divano…) e non potevo lasciarmi sfuggire la rara occasione.

Arrivato lì, ho scoperto che molti altri avevano invano invitato gli amici: eravamo davvero in pochi, riuniti in una sala enorme di un cinema dal nome che è esso stesso glorificazione della fantascienza: The space.

È per questo che proprio non capisco come mai le poche persone presenti avevano tutti posti assegnati gli uni vicini-vicini agli altri. C’era un sacco di space libero, ma io sono caduto nel campo gavitazionale di un signore che è venuto a sedersi alla mia destra e che di uova evidentemente ne aveva mangiate molte, ma molte più di me.

Risultato: finché lui non ha deciso, purtoppo solo a film finito, di andarsene a casa, non sono proprio riuscito ad abbandonare il mio posto per andare a colonizzare pionieristicamente una delle tante regioni disabitate di quell’ambiente.

Dopo una infilata di pubblicità così lunga da avermi fatto temere di avere sbagliato sala, finalmente è iniziato il film che, pare, avevo scelto e giuro che, dopo tutto quel tempo e un po’ di oblio – ero chiaramente invecchiato rispetto a quando avevo fatto il mio glorioso ingresso nella sala – è stato bello ricordarmi perché mi trovassi lì.

E qui inizia la vera narrazione, resa interessante dal mio sonnecchiare generato dalle uova, dall’insalatona, dal vino, dalla mela, dal ronfare del corpo autogravitante del mio vicino che deformava lo SPACE-tempo della poltrona adiacente alla mia, dalla pubblicità e dalla comodissima imbottitura della mia poltrona che mi invitava con insistenza a chiudere le palpebre.

Tra i fumi del sonno, negli sprazzi di semicoscienza intermittente prima del buio totale, (sprazzi che oramai caratterizzano tutte le mie serate), ho visto cose che voi rimasti a casa non potrete immaginare.

Ho visto, o almeno credo di avere visto, una struttura attorno alla Terra che inizialmene pensavo fosse la versione futuristica e ipercazzuta della stazione spaziale internazionale e che poi invece si è rivelata una torre così alta da arrivare nello spazio, ad almeno una altezza di un centinaio di chilometri dal suolo.

Ricordo di essermi detto nel dormiverglia che di sicuro dovevo aver visto male. Su un pianeta come il nostro che, con la sua gravità, non consentirebbe mai e poi mai a una struttura, naturale o artificiale che sia, di spingersi oltre più o meno dieci chilometri, una specie di ipertraliccio di quel tipo sarebbe subito crollato frustando una intera regione grande come il Molise (povero: neanche il tempo di iniziare ad esistere che subito si trova a essere sommerso dalla ferraglia…)

Out-to-launch-con-stelle

Su questa torre, i terrestri, anzi, a questo punto, per l’imponenza di quella struttura, li chiamerei i torrestri, si muovevano con la stessa disinvoltura con la quale andreste a comprare un’acqua tonica in spiaggia a Fregene in un qualsiasi giorno di Agosto diverso dal 15 (escludo Ferragosto perché, una volta trovato un po’ di spazio in spiaggia, rinuncereste alla tonica pur di non lasciarlo ad altri e desiderereste trovarvi nello spazio, magari su una torre).

Ho visto (al solito, credo di aver visto) i raggi cosmici balenare nel buio alle porte di Nettuno e arrivare su quella torre sconvolgendola e sconvolgendo pure l’intero nostro pianeta: una salva di protoni e radiazione gamma tale da far pensare che il nostro Sole avesse generato un flare alquanto anomalo o che, non più… solo, avesse finalmente trovato una compagna vicina divenuta una specie di supernova in preda a uno strano climaterio stellare.

Ho visto (ho creduto di avere visto) navi mercantili abitate da incazzatissime scimmie da esperimento al largo dei bastioni di Giove, o giù di lì.

Ho visto anche un brachicardico-tardigrado di dimensioni umane, eroe figlio di eroe, che si trovava a suo agio quasi ovunque: in un profondo lago marziano (!); su un rover lunare lanciato a velocità folle e speronato dai pirati che infestavano il nostro saltellite naturale; nella sala d’aspetto dell’agenzia delle entrate; … Insomma, stava bene ovunque e comunque, ma non a letto con la bella Liv Tyler.

Per inciso, la recitazione del Pitt Brad ricorda qui quelle della bellissima Bellucci impegnata in qualcuna delle sue interpretazioni più intense. Imperdibile.

Ho visto poi un Tommy Lee Jones, nel film padre dell’eroe, truccato così tanto bene da  sembrare una delle scimmie da esperimento di cui sopra.

Credo di aver visto tutto ciò soltanto grazie a interruzioni del mio sonno provocate da scossoni gravitazionali generati dalla precessione dell’ingente massa alla mia destra. A ogni giro, simile a una pulsar,  da una zona vicino al suo polo nord emetteva sibili e rantoli tipici di chi lottava per rimanere sveglio, contrastato nel suo progetto da un quantitativo di cibo molto più impegnativo delle mie tre uova strapazzate.

Non oso pensare cosa sia successo durante la notte dalle parti del suo polo sud.

Durante una di queste brevi veglie, mi è parso anche di capire che la fonte di quei raggi cosmici che investivano la Terra provocando incredibili sbalzi di tensione seguiti da black out, quindi morti, feriti e altri disagi, fosse proprio l’astronave di Tommy Lee Jones. Per un problema tecnico non ricordo più di quale natura, quella specie di camper spaziale ogni tot inondava l’intero sistema solare di emissioni che, pur se spegnessimo tutti i frullatori, i tostapane e le macchinette da caffè del mondo, nemmeno al CERN riuscirebbero a generare.

Si-loca-con-stelle

Ecco, lì confesso che sono stato davvero sul punto di andare a casa a finire il mio sonno in un  sistema di riferimento che, pur essendo qui sulla Terra, lontano dal mio vicino avrei pure potuto definire “inerziale”.

Ma ho scelto di rimanere (in realtà non possedevo una adeguata velocità di fuga per fuggire via dalla massa planetaria vicina che mi teneva avvinto) perché mi piace soffrire e devo dire che ho fatto proprio bene.

Sì, perché in questo pot-pourri di elementi ripresi da classiconi come Solaris, 2001 Odissea nello spazio (alcune scene di lui nell’astronave con i riflessi delle elettroniche sul casco non potevano non richiamare Frank Bowman alle prese con Hal 9000), Space Cowboy*; con musiche che, per genere, tentano di replicare il successo di quelle bellissime di Interstellar, con Pitt che, come il Clooney di Gravity se ne va con gran disinvoltura a spasso tra gli anelli di Nettuno, facendosi scudo con un cofano di Bianchina di fantozziana memoria, … c’è stato spazio per qualcosa di interessante, che val la pena dire qui.

Nei film di fantascienza spaziale ci hanno abituato a vedere gli arredamenti delle astronavi come qualcosa di davvero lontano dalla nostra esperienza terrestre. In questo film, invece, mi ha colpito l’aspetto dell’interno dell’astronave nella quale Tommy Lee Jones da un trentennio scrutava il cosmo alla ricerca di vita extraterrestre.

Mi si conceda una piccola divagazione. Tantissimi anni fa, qui a Bologna mi è capitato di andare dal dentista della mutua che all’epoca era dalle parti di via XXI Aprile. Una volta entrato, abituato all’idea di studio dentistico che mi ero fatto quando a pagare le cure erano i miei genitori, ebbi una sensazione straniante: lo studio appariva fatiscente, con attrezzature vecchie, brutte, da museo dell’odontoiatria.

Si trattava, per questo, di un ambiente molto vero, forse più vero di quelli moderni, e magari il dottore era il più bravo di tutti quelli da me incontrati in precedenza ma, oramai satollo di verità – il mio dente pulsava con la violenza e la schiettezza di un film neorealista – decisi di fuggire via per andare a farmi debiti altrove.

Insomma, anche il dente ogni tanto ascolta l’occhio che pretende la sua parte.

Alcuni interni di quell’astronave parcheggiata da trent’anni nell’orbita di Nettuno mi hanno restituito quell’idea di vecchio, di malandato, di superato. Una inadeguatezza tecnologica che mai nessun regista aveva messo così a nudo nei numerosi film di fantascienza spaziale che ho visto.

Similmente, a un certo punto, anche l’inscalfibile eroe tardigrado brachicardico nel film cede e viene smascherato con tutte le sue umane debolezze che, anche queste, a mio parere non erano mai state messe così bene in evidenza – forse a funzionare è stato proprio il contrasto con la freddezza fino a quel momento ostentata dal personaggio – in altre produzioni cinematografiche. Lo spazio è immenso ma, diversamente da quello che succede nel cinema nel quale mi trovavo, ciò che manca a chi si avventura lontano dalla Terra è il contatto con l’altro.

Ci-siamo-trasferiti-al-civico

Ieri sera l’universo mi è apparso per quello che ora mi sembra ragionevole che sia: contrariamente a quanto sostengono i seguaci del principio antropico, nel film esso si mostrava per nulla fatto su misura per noi o, se preferite, noi umani apparivamo ancora del tutto inadatti a stare stare dentro il cosmo senza i paesaggi terrestri e un bel po’ di nostri simili a rompere le balle.

La sensazione netta è stata che l’unico luogo naturale di aristotelica memoria dove possiamo stare fosse la Terra e che, se davvero c’è un altro posto simile a questo, il tentativo di raggiungerlo al momento è un suicidio: si tratterebbe di un viaggio capace di distruggerci dentro e fuori.

Mentre sulla Terra invecchiamo sullo sfondo di un mondo che si rinnova e di una tecnologia che di giorno in giorno muta, migliorando se stessa e la qualità della nostra vita, nei lunghi anni di viaggio per raggiungere un pianeta lontano capace di ospitarci, invecchieremmo dentro un ambiente che invecchia con noi, assumendo sempre più l’aspetto dello studio del dentista della mutua.

“Ciò che non uccide fortifica”, recita un detto. In realtà, se l’universo ti fa il torto di non ucciderti, vuol dire che ha deciso di indebolirti mentalmente, oltre che fisicamente, e l’aver posto i riflettori su questa dimensione così disumana di ciò che invece i film di fantascienza hanno fino a oggi tenuto a far apparire alla nostra portata, credo sia la vera cifra di questo film perlopiù mediocre (mi riservo comunque di rivederlo a stomaco vuoto o dopo un pasto leggero. Le mie frequenti assenze cognitive di quella sera, per quanto giustificate, non dovrebbero consentirmi di essere così definitivo nel giudizio).

In esso, la ricerca del padre dato per morto e poi ritrovato vivo e vegeto (anche se un po’ defunto dentro) molto lontano da tutto il consesso umano, la voglia di rivederlo, l’enorme difficoltà a lasciarlo andare nonostante, essendo “più di là che di qua”, non appartenesse più al mondo sul quale lo si voleva riportare, mi hanno fatto capire ancora una volta quanto, nonostante i ventidue anni oramai trascorsi dalla sua morte, sia ancora per me irrisolto il problema del distacco da mio padre.

Inoltre sono più di sei anni che questo pensiero si è intrecciato finemente con un altro che pure il film ha evidenziato: sono spesso aggredito dalla consapevolezza che un giorno sarò costretto, per decorrenza dei termini, ad allontanarmi da mio figlio. Si tratta di un incubo normale; un’idea ricorrente che, ne sono sicuro, aggredisce spesso tutti i genitori e le due cose, ovvero la morte dei nostri genitori e la consapevolezza che morendo, toccherà anche a noi lasciare i nostri figli, si mescolano rivelandoci quanto siamo soli. Se poi questi pensieri li si pone non sulla quinta di una piazza popolata e festosa di una domenica mattina, ma sul drappo nero del buio cosmico, la nostra esistenza solitaria diventa incontestabilmente pesante, chiara, definitiva.

É quindi un film di fantascienza, ma che ha per argomenti anche la fragilità umana e il rapporto padre-figlio: un argomento di cui parlo anche io nel mio spettacolo Giovannino e il Cosmo, una favola astronomico-musicale alla Prokofiev nella quale sottolineo l’importanza di un rapporto importantissimo, quello padri-figli, del quale ancora pochi parlano nella maniera adeguata e dandone l’importanza che merita.

In preda a simili pensieri, a un certo punto mi è sembrato addirittura soave ciò che di solito aborro: sono stato grato al crokkiare di patatine, nachos, pop corn e al turbinare rumoroso delle ultime gocce rimaste negli scaldabagni di cartone che impropriamente al bar del cinema chiamano bicchieri di coca: un repertorio di cacofonie che mi ha ricordato la presenza ingombrante, quindi (solo) per una volta gradita, degli altri spettatori nel The Space.

Vendesi-per-cessata-attività-respiratoria

Finanche la geometria perturbata dello SPACE-tempo della mia poltrona, dolcemente digradante verso il mio ingombrante vicino, mi ha donato per un fugacissimo, meraviglioso istante la gioia di vivere in una buca di potenziale popolata da un altro umano dal corpo politropico, evidentemente degenere.

La morale del film, da me seguito tra una ronfata e l’altra, in definitiva credo fosse il recupero di un’umanità inespressa che l’eroe celava dentro, da qualche parte. Una volta tornato a casa, distrutto nel corpo e nella mente, egli ritrova anche la giusta dimensione sentimentale con la sua ex – una dimensione che la sua precedente esperienza familiare non gli aveva permesso di sondare in modo adeguato – riuscendo finalmente ad apprezzare, lui che aveva sempre viaggiato nell’alto dei cieli, la vita terrena.

Credo sia una storia che segna un interessante (non bello. Interessante) ritorno a una dimensione sociale, sentimentale, romantica, un po’alla Bradbury di Cronache Marziane, di fare film di fantascienza in aperto contrasto con lo scientismo di capolavori come Interstellar, una pellicola a mio parere ancora insuperata.

Riprende un modo di interpretare la fantascienza spaziale non tanto come incursione dello spazio nelle faccende umane, ma come proiezione alla Star Trek dei classici topoi narrativi sul drappo buio del cosmo.

E, a causa di tre uova strapazzate, un’insalatona, mezzo bicchiere di vino rosso e una mela, ho rischiato che tutti questi momenti finissero per andare perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia.

Poi è stato (finalmente) tempo di dormire.

 

SZ

 

*) il buon Davide Alboresi Lenzi, amico astrofilo che ho incontrato al cinema, mi ha fatto notare che una foto di Tommy Lee Jones mostrata nel film è stata scattata proprio durante le riprese di quella fortunata, simpatica produzione

 

 

 

Oggi inizio

Oggi inizio!

Perché una Zouppa???

Perché mi ricorda qualcosa che “bolle in pentola”, qualcosa da gustare dopo lunga cottura e che va servita calda.

In fondo, il blog è qualcosa di simile: un’idea ti ribolle in testa e, quando è pronta, la servi sulla tavola di internet sperando che qualcuno gradisca e che decida di sedersi a mangiare con te.
Nello scegliere come chiamare questo spazio, non ho potuto fare a meno di cedere al fascino della lingua inglese. Prima di capitolare, ho fatto diverse ipotesi in italiano, ma ogniqualvolta ho optato per un nome da dare a questo blog, ho scoperto di essere sempre arrivato almeno II, quando non addirittura XXXXVVVIII.

Inizialmente la zuppa era quindi zuppa, poi ho deciso di renderla soup, in inglese. Più agile, moderna, veloce, take away.

Sì, però non era certo mia intenzione parlare (solo) di cucina –  ci sono tantissimi blog specializzati sull’argomento. Uno “ottimo” fra tanti, http://relaxingcooking.wordpress.com/ della mia amica Maria Antonietta Montone – e mi andava di rendere omaggio anche all’italiano che con la zuppa in qualche modo c’entra di sicuro. Sarà poi che vivo da tanti anni in Emilia Romagna, una regione nella quale le “z” sono “s” (ragassi, pissa, pessi, …), che alla fine ho deciso di vendicare le “z” cambiando l'”s”iniziale di soup nella “z” di zoup.

Sì, ma perché squid?

Innanzi tutto perché amo i calamari, vivi, fritti, ripieni o al sugo che siano.

Subisco da sempre il fascino di tutto ciò che ha a che fare col mare. Oltre a questo, subisco anche quello che avvolge l’esistenza di animali strani, dei vari mostri marini inventati o veri che siano e, tra tutti, l’architeutis dux, il famoso calamaro gigante, è quello che più mi emoziona.

Cerco sempre in rete immagini nuove che mostrino questo stranissimo essere di cui ancora si sa molto poco e che mi sembra rappresentare al meglio la potenza e la fantasia della Natura. No, non credo di aver mai immaginato di fare una zouppa di calamaro gigante, ma ho pensato che al ribollire di pensieri di cui dicevo prima, lo squid avrebbe aggiunto di sicuro sapore. Inoltre mi regala l’opportunità di usare una splendida metafora per riferirmi a tutte le cose che mi interessano come professionista e come persona.

Uso allora il dato che questo animale possiede ben dieci TEN-tacoli, otto corti più due lunghi, per dire la mia agganciando idelamente l’astronomia, la scienza in generale, la fantasciena, il fumetto, l’illustrazione scientifica, la narrativa, il jazz, la musica classica. Per arrivare a dieci, rimangono ancora due tentacoli. Volendo quindi completare il cucuzzaro, se sarà il caso di sconfinare in temi non compresi nell’elenco predcedente, deciderò volta per volta in che direzione puntare queste due appendici-jolly.

Insomma, vorrei provare a divertirmi in un modo per me nuovo, sperando di divertire anche qualche altro internauta che si trovi a passare da qui.

Mi prendo giusto il tempo di impratichirmi con questo strumento, dopodiché inizierò a pubblicare cose spero interessanti con una cadenza ancora tutta da stabilire che vorrei fosse regolare, pur sapendo che non ce la posso proprio fare.

Cià!