CRONACA VIRUS – Giorno 36

EXTRATERRESTRE, MI PORTO VIA

Come era da attendersi, Pasqua e Pasquetta hanno fatto registrare numerose violazioni alla raccomandazione del governo di stare a casa ed evitare assembramenti. I sostenitori del “sì, va bene la regola, però…” hanno provato a far finta che non vi fossero limitazioni, che fosse tutto normale, e sono partiti alla volta delle loro usuali destinazioni da sollazzo per festeggiare all’aperto, fra amici, giorni di grande letizia.

Non è qui che voglio parlare di cose già dette in precedenza, preferendo piuttosto confessare un sogno ricorrente, che ho fatto sia a occhi chiusi che ben aperti.

Mi è capitato spesso di teorizzare la possibilità di prendere in modo definitivo le distanze da chi ha una visione della vita di comunità, del mondo, del rispetto per le regole, della storia così diversa dalla mia, e immagino che la stessa cosa sia capitato a molti, forse a tutti.

Un rifugio mentale che molti hanno tratteggiato nel dettaglio creando classici del pensiero filosofico e politico accomunati dal tratto utopico o eutopico delle loro descrizioni.

Il reiterato tentativo di passare dall’idea pura alla sua realizzazione ha posto l’umanità davanti a bivi che ci hanno visto prendere sempre la strada sbagliata: la storia ci insegna che la realizzazione pratica di alcune belle idee dovrebbe essere evitata, preferendo relegarle all’ambito del possibile, dell’arte o della filosofia, per lasciare la realtà di procedere lungo le sue direzioni naturali.

Ma questa consapevolezza non deve certo impedire di sognare vagheggiando di luoghi recintati, rigorosamente off limits per chi invece coltiva il culto di sogni personali che per te non sono altro che spettri, mostri, segni di un degrado mentale e civile inaccettabili.

In simili paesi del bello, del giusto, del saggio, ci circonderemmo di persone elette, che per entrare devono dimostrare di soddisfare particolari requisiti, credere in determinate idee, quelle che simmetricamente sono gli spettri e i mostri di chi rimane fuori.

La transizione da qui alla dittatura, al culto di un controllore statale o di un tiranno illuminato posto al comando di queste enclave di ben essere è breve: cosa succede, infatti, se una volta entrata e lasciata vivere nell’utopia che ci accomuna tutti, dopo aver messo su famiglia e aver creato interazioni intense con altri eletti, una persona cambia idea su qualcosa? Viene imprigionata? Viene ostracizzata? La si lascia fare, libera di infettare anche altri con le sue idee reazionarie?

L’idea che, vivendo in un paese sulla carta perfetto, sia impossibile che in un suo abitante non sorga l’esigenza di cambiare qualcosa, è un’utopia nell’utopia. Se di paese perfetto si tratta davvero, allora al suo interno si dovrebbe democraticamente accettare il processo referendario o elettivo con la conseguente rivelazione di correnti di pensiero, di forbici con lame di destra e di sinistra, con moderati o sedicenti tali e agguerriti sostenitori di una alternativa invisa a molti altri.

Si scoprirebbe così, che i veri oggetti frattali piuttosto che essere solo quelli geometrici, sono ben altri e si chiamano idee, pensiero, aspirazioni, sogni, desideri. In parole povere, siamo frattali in quanto umani.

Partecipiamo di tutto e, convinti assertori di una idea ma, coinvolti emotivamente in rapporti con parenti o amici che sappiamo pensarla in maniera del tutto opposta, facciamo dentro di noi spazio, pur se piccolo, anche a quel punto di vista.

Siamo sede di tutto, anche del suo contrario. E il nostro paese ideale si popolerebbe della stessa varietà ideologica che ammala e al contempo fa bello il nostro mondo reale.

E che dire poi delle mire espansionistiche, giustificate dalla inevitabile crescita della popolazione di una particolare utopia, che farebbe desiderare ai suoi abitanti di appropriarsi dello spazio, della regione, delle risorse di altri consessi sociali di non eletti  che vivono poco più in là?

La storia ci insegna che non è possibile eludere simili dinamiche e consiglia di riguardare le varie nazioni moderne proprio come la cristallizzazione di quella che un tempo era l’utopia dei suoi fondatori e che poi, nel tempo, è diventata una certa, vaga identità del popolo che lì vive.

In quest’ottica, gli inni, le letterature, le architetture, … assumono il carattere di antiche vestigia di bellissime utopie smussate da violente e incessanti maree di realtà.

Il mio volto non è solo l’espressione dei miei geni, ma anche ciò che rimane di antiche battaglie biologiche sostentue da tutte le generazioni che mi hanno preceduto. Similmente l’arte potrebbe assumere l’ulteriore significato di deposito di utopie politiche e sociali come anche dell’agire degli anticorpi culturali che le sono stati opposti e che ne hanno compromesso la purezza iniziale.

Tutto ciò è avvenuto sempre sull’unico scenario concesso fino ad ora all’umanità: la nostra Terra, il nostro pianeta.

Ora siamo diventati tanti e presto saremo troppi. Se un tempo era forse più facile ignorare chi, lontano da te, decideva di tenere atteggiamenti diametralmente opposti ai tuoi, oggi non è più possibile farlo: l’epidemia ci ha dimostrato l’esiguità dello spazio sul quale prima ci percepivamo lontani e ciò che fa un giapponese oggi ha un’importanza fondamentale e spesso letale per quello che qualcun altro fa a Fregene (e viceversa).

In piena emergenza, ti ritrovi a spiegare per l’ennesima volta al tuo prossimo le tue ragioni, quelle che non sono certo dettate dall’odiato buonsenso e che invece derivano dal rispetto quasi religioso per quanto ti dice chi lavora in campo medico, unico arbitro da ascoltare in casi del genere. Lo fai e lo rifai, ma scopri di parlare a un mondo di sordi.

Allora speri in un futuro non troppo lontano in cui la Terra, oramai soffocata dalle persone e, soprattutto, dai punti di vista, non basterà più a contenere gli uni e gli altri.

Arrivati quel punto, saremo in molti a decidere di andarcene e ci attrezzeremo per farlo sul serio. Colonizzeremo lune, asteroidi, pianeti lontani e tutte queste appprossimative repliche della Terra porteranno i nomi di una particolare idea che ha condotto quegli scontenti e solo loro fin lì perché gli altri, che la pensano in modo diverso, saranno andati su un altro sasso a vivere come più gli aggrada.

L’ostracismo potrà allora prendere il significato di “abbandono del sasso” più che estrazione del l’ostracon: un abbandono che spesso sarà volontario e compiuto da chi comunque saprà di potere autoesiliarsi per andare in direzione di un ulteriore, piccolo mondo sul quale fare atterrare la propria visione… del mondo.

Ricominceranno le guerre tra stati, ma stavolta – mi ripeto – non potranno che essere chiamate in altro modo se non “guerre dei mondi” e sarà un tripudio di riscoperte degli antichi Omero come Clarke, Asimov, Heinlein, … che già di questi scenari avevano predetto molto e dei quali qualcuno si chiederà se fossero da considerarsi singoli poeti o nomi collettivi, quasi si sia trattato di Bourbaki della letteratura “classica”.

Poi si passerà alla fase di pace: un contratto ma apparentemente rilassato federalismo cosmico e di crisi in crisi, di scaramuccia in scaramuccia, arriveremo a dominare la Galassia.

Qualcuno potrà forse leggere in questi miei ultimi periodi un certo compiacimento scientista, ma mi sento di doverlo deludere: non sarà una conquista del pensiero, della conoscenza, della nostra atavica curiosità.

La spinta non sarà così edificante: la nostra storia nello spazio è iniziata nel 1957 con lo Sputnik, un satellite dimostrativo, un guanto di sfida lanciato in orbita, e a farci conquistare il resto dello spazio sarà ancora una volta l’aggressività: una diffusione incontrollata del nosro egoismo che per fortuna si tirerà dietro, tra le altre innumerevoli cose, anche, ora sì!, il pensiero, la conoscenza e la nostra atavica curiosità.

In preda a una voglia incredibile di prendere le distanze da una marea di persone, conosciute – delle quali nella situazione odierna, tramite i social purtroppo vengo a sapere cosa pensano – e sconosciute, dalle quali non riesco ad allontanarmi nemmeno chiudendomi in casa; nemmeno andando ad abitare nella più lontana delle periferie; scopro che anche le visioni più pure della mente sono nulla senza un paesaggio reale nel quale farle scorazzare libere da ostacoli umani.

Quelle idee abbisognano sempre e comunque di paesaggi vuoti, di mondi disabitati, di spazi dove creare utopie solide, architetture.

Senza simili ambienti liberi, le idee sono nulla. Senza metri quadrati, senza chilometri e chilometri di spazio a disposizione le idee rischiano di rivelarsi ciarpame inutile.

Andatevene tutti affanculo.

Anzi, no.

State ancora qui, vi prego.

SZ

 

Molto in fondo, A dAstra

Out-to-lunch-con-stelleIeri sera ho opposto una strenua resistenza alle lusinghe del letto e, nonostante l’ora (erano le 21:00), tre uova strapazzate, una insalatona, mezzo bicchiere di vino rosso e una mela che hanno tentato per tutto il tempo di riportarmi gravitazionalmente sul divano, ho optato per il cinema.

Andare a vedere film di fantascienza, da astrofisico-divulgatore-ecc, lo considero un dovere che qualche volta si rivela pure un piacere. In ogni caso, io DEVO vedere queste produzioni, altrimenti di cosa parlo alle feste?

Sono andato da solo: il tentativo compiuto alcuni giorni fa di trovare qualcuno interessanto a vedere Ad Astra aveva sortito effetti così deludenti da non voler provare più il sapore della sconfitta, e ho preferito tenermi in bocca quello della cena decidendo così di andare in mia compagnia: ieri sera, almeno, ero abbastanza d’accordo con me stesso (anche se il divano…) e non potevo lasciarmi sfuggire la rara occasione.

Arrivato lì, ho scoperto che molti altri avevano invano invitato gli amici: eravamo davvero in pochi, riuniti in una sala enorme di un cinema dal nome che è esso stesso glorificazione della fantascienza: The space.

È per questo che proprio non capisco come mai le poche persone presenti avevano tutti posti assegnati gli uni vicini-vicini agli altri. C’era un sacco di space libero, ma io sono caduto nel campo gavitazionale di un signore che è venuto a sedersi alla mia destra e che di uova evidentemente ne aveva mangiate molte, ma molte più di me.

Risultato: finché lui non ha deciso, purtoppo solo a film finito, di andarsene a casa, non sono proprio riuscito ad abbandonare il mio posto per andare a colonizzare pionieristicamente una delle tante regioni disabitate di quell’ambiente.

Dopo una infilata di pubblicità così lunga da avermi fatto temere di avere sbagliato sala, finalmente è iniziato il film che, pare, avevo scelto e giuro che, dopo tutto quel tempo e un po’ di oblio – ero chiaramente invecchiato rispetto a quando avevo fatto il mio glorioso ingresso nella sala – è stato bello ricordarmi perché mi trovassi lì.

E qui inizia la vera narrazione, resa interessante dal mio sonnecchiare generato dalle uova, dall’insalatona, dal vino, dalla mela, dal ronfare del corpo autogravitante del mio vicino che deformava lo SPACE-tempo della poltrona adiacente alla mia, dalla pubblicità e dalla comodissima imbottitura della mia poltrona che mi invitava con insistenza a chiudere le palpebre.

Tra i fumi del sonno, negli sprazzi di semicoscienza intermittente prima del buio totale, (sprazzi che oramai caratterizzano tutte le mie serate), ho visto cose che voi rimasti a casa non potrete immaginare.

Ho visto, o almeno credo di avere visto, una struttura attorno alla Terra che inizialmene pensavo fosse la versione futuristica e ipercazzuta della stazione spaziale internazionale e che poi invece si è rivelata una torre così alta da arrivare nello spazio, ad almeno una altezza di un centinaio di chilometri dal suolo.

Ricordo di essermi detto nel dormiverglia che di sicuro dovevo aver visto male. Su un pianeta come il nostro che, con la sua gravità, non consentirebbe mai e poi mai a una struttura, naturale o artificiale che sia, di spingersi oltre più o meno dieci chilometri, una specie di ipertraliccio di quel tipo sarebbe subito crollato frustando una intera regione grande come il Molise (povero: neanche il tempo di iniziare ad esistere che subito si trova a essere sommerso dalla ferraglia…)

Out-to-launch-con-stelle

Su questa torre, i terrestri, anzi, a questo punto, per l’imponenza di quella struttura, li chiamerei i torrestri, si muovevano con la stessa disinvoltura con la quale andreste a comprare un’acqua tonica in spiaggia a Fregene in un qualsiasi giorno di Agosto diverso dal 15 (escludo Ferragosto perché, una volta trovato un po’ di spazio in spiaggia, rinuncereste alla tonica pur di non lasciarlo ad altri e desiderereste trovarvi nello spazio, magari su una torre).

Ho visto (al solito, credo di aver visto) i raggi cosmici balenare nel buio alle porte di Nettuno e arrivare su quella torre sconvolgendola e sconvolgendo pure l’intero nostro pianeta: una salva di protoni e radiazione gamma tale da far pensare che il nostro Sole avesse generato un flare alquanto anomalo o che, non più… solo, avesse finalmente trovato una compagna vicina divenuta una specie di supernova in preda a uno strano climaterio stellare.

Ho visto (ho creduto di avere visto) navi mercantili abitate da incazzatissime scimmie da esperimento al largo dei bastioni di Giove, o giù di lì.

Ho visto anche un brachicardico-tardigrado di dimensioni umane, eroe figlio di eroe, che si trovava a suo agio quasi ovunque: in un profondo lago marziano (!); su un rover lunare lanciato a velocità folle e speronato dai pirati che infestavano il nostro saltellite naturale; nella sala d’aspetto dell’agenzia delle entrate; … Insomma, stava bene ovunque e comunque, ma non a letto con la bella Liv Tyler.

Per inciso, la recitazione del Pitt Brad ricorda qui quelle della bellissima Bellucci impegnata in qualcuna delle sue interpretazioni più intense. Imperdibile.

Ho visto poi un Tommy Lee Jones, nel film padre dell’eroe, truccato così tanto bene da  sembrare una delle scimmie da esperimento di cui sopra.

Credo di aver visto tutto ciò soltanto grazie a interruzioni del mio sonno provocate da scossoni gravitazionali generati dalla precessione dell’ingente massa alla mia destra. A ogni giro, simile a una pulsar,  da una zona vicino al suo polo nord emetteva sibili e rantoli tipici di chi lottava per rimanere sveglio, contrastato nel suo progetto da un quantitativo di cibo molto più impegnativo delle mie tre uova strapazzate.

Non oso pensare cosa sia successo durante la notte dalle parti del suo polo sud.

Durante una di queste brevi veglie, mi è parso anche di capire che la fonte di quei raggi cosmici che investivano la Terra provocando incredibili sbalzi di tensione seguiti da black out, quindi morti, feriti e altri disagi, fosse proprio l’astronave di Tommy Lee Jones. Per un problema tecnico non ricordo più di quale natura, quella specie di camper spaziale ogni tot inondava l’intero sistema solare di emissioni che, pur se spegnessimo tutti i frullatori, i tostapane e le macchinette da caffè del mondo, nemmeno al CERN riuscirebbero a generare.

Si-loca-con-stelle

Ecco, lì confesso che sono stato davvero sul punto di andare a casa a finire il mio sonno in un  sistema di riferimento che, pur essendo qui sulla Terra, lontano dal mio vicino avrei pure potuto definire “inerziale”.

Ma ho scelto di rimanere (in realtà non possedevo una adeguata velocità di fuga per fuggire via dalla massa planetaria vicina che mi teneva avvinto) perché mi piace soffrire e devo dire che ho fatto proprio bene.

Sì, perché in questo pot-pourri di elementi ripresi da classiconi come Solaris, 2001 Odissea nello spazio (alcune scene di lui nell’astronave con i riflessi delle elettroniche sul casco non potevano non richiamare Frank Bowman alle prese con Hal 9000), Space Cowboy*; con musiche che, per genere, tentano di replicare il successo di quelle bellissime di Interstellar, con Pitt che, come il Clooney di Gravity se ne va con gran disinvoltura a spasso tra gli anelli di Nettuno, facendosi scudo con un cofano di Bianchina di fantozziana memoria, … c’è stato spazio per qualcosa di interessante, che val la pena dire qui.

Nei film di fantascienza spaziale ci hanno abituato a vedere gli arredamenti delle astronavi come qualcosa di davvero lontano dalla nostra esperienza terrestre. In questo film, invece, mi ha colpito l’aspetto dell’interno dell’astronave nella quale Tommy Lee Jones da un trentennio scrutava il cosmo alla ricerca di vita extraterrestre.

Mi si conceda una piccola divagazione. Tantissimi anni fa, qui a Bologna mi è capitato di andare dal dentista della mutua che all’epoca era dalle parti di via XXI Aprile. Una volta entrato, abituato all’idea di studio dentistico che mi ero fatto quando a pagare le cure erano i miei genitori, ebbi una sensazione straniante: lo studio appariva fatiscente, con attrezzature vecchie, brutte, da museo dell’odontoiatria.

Si trattava, per questo, di un ambiente molto vero, forse più vero di quelli moderni, e magari il dottore era il più bravo di tutti quelli da me incontrati in precedenza ma, oramai satollo di verità – il mio dente pulsava con la violenza e la schiettezza di un film neorealista – decisi di fuggire via per andare a farmi debiti altrove.

Insomma, anche il dente ogni tanto ascolta l’occhio che pretende la sua parte.

Alcuni interni di quell’astronave parcheggiata da trent’anni nell’orbita di Nettuno mi hanno restituito quell’idea di vecchio, di malandato, di superato. Una inadeguatezza tecnologica che mai nessun regista aveva messo così a nudo nei numerosi film di fantascienza spaziale che ho visto.

Similmente, a un certo punto, anche l’inscalfibile eroe tardigrado brachicardico nel film cede e viene smascherato con tutte le sue umane debolezze che, anche queste, a mio parere non erano mai state messe così bene in evidenza – forse a funzionare è stato proprio il contrasto con la freddezza fino a quel momento ostentata dal personaggio – in altre produzioni cinematografiche. Lo spazio è immenso ma, diversamente da quello che succede nel cinema nel quale mi trovavo, ciò che manca a chi si avventura lontano dalla Terra è il contatto con l’altro.

Ci-siamo-trasferiti-al-civico

Ieri sera l’universo mi è apparso per quello che ora mi sembra ragionevole che sia: contrariamente a quanto sostengono i seguaci del principio antropico, nel film esso si mostrava per nulla fatto su misura per noi o, se preferite, noi umani apparivamo ancora del tutto inadatti a stare stare dentro il cosmo senza i paesaggi terrestri e un bel po’ di nostri simili a rompere le balle.

La sensazione netta è stata che l’unico luogo naturale di aristotelica memoria dove possiamo stare fosse la Terra e che, se davvero c’è un altro posto simile a questo, il tentativo di raggiungerlo al momento è un suicidio: si tratterebbe di un viaggio capace di distruggerci dentro e fuori.

Mentre sulla Terra invecchiamo sullo sfondo di un mondo che si rinnova e di una tecnologia che di giorno in giorno muta, migliorando se stessa e la qualità della nostra vita, nei lunghi anni di viaggio per raggiungere un pianeta lontano capace di ospitarci, invecchieremmo dentro un ambiente che invecchia con noi, assumendo sempre più l’aspetto dello studio del dentista della mutua.

“Ciò che non uccide fortifica”, recita un detto. In realtà, se l’universo ti fa il torto di non ucciderti, vuol dire che ha deciso di indebolirti mentalmente, oltre che fisicamente, e l’aver posto i riflettori su questa dimensione così disumana di ciò che invece i film di fantascienza hanno fino a oggi tenuto a far apparire alla nostra portata, credo sia la vera cifra di questo film perlopiù mediocre (mi riservo comunque di rivederlo a stomaco vuoto o dopo un pasto leggero. Le mie frequenti assenze cognitive di quella sera, per quanto giustificate, non dovrebbero consentirmi di essere così definitivo nel giudizio).

In esso, la ricerca del padre dato per morto e poi ritrovato vivo e vegeto (anche se un po’ defunto dentro) molto lontano da tutto il consesso umano, la voglia di rivederlo, l’enorme difficoltà a lasciarlo andare nonostante, essendo “più di là che di qua”, non appartenesse più al mondo sul quale lo si voleva riportare, mi hanno fatto capire ancora una volta quanto, nonostante i ventidue anni oramai trascorsi dalla sua morte, sia ancora per me irrisolto il problema del distacco da mio padre.

Inoltre sono più di sei anni che questo pensiero si è intrecciato finemente con un altro che pure il film ha evidenziato: sono spesso aggredito dalla consapevolezza che un giorno sarò costretto, per decorrenza dei termini, ad allontanarmi da mio figlio. Si tratta di un incubo normale; un’idea ricorrente che, ne sono sicuro, aggredisce spesso tutti i genitori e le due cose, ovvero la morte dei nostri genitori e la consapevolezza che morendo, toccherà anche a noi lasciare i nostri figli, si mescolano rivelandoci quanto siamo soli. Se poi questi pensieri li si pone non sulla quinta di una piazza popolata e festosa di una domenica mattina, ma sul drappo nero del buio cosmico, la nostra esistenza solitaria diventa incontestabilmente pesante, chiara, definitiva.

É quindi un film di fantascienza, ma che ha per argomenti anche la fragilità umana e il rapporto padre-figlio: un argomento di cui parlo anche io nel mio spettacolo Giovannino e il Cosmo, una favola astronomico-musicale alla Prokofiev nella quale sottolineo l’importanza di un rapporto importantissimo, quello padri-figli, del quale ancora pochi parlano nella maniera adeguata e dandone l’importanza che merita.

In preda a simili pensieri, a un certo punto mi è sembrato addirittura soave ciò che di solito aborro: sono stato grato al crokkiare di patatine, nachos, pop corn e al turbinare rumoroso delle ultime gocce rimaste negli scaldabagni di cartone che impropriamente al bar del cinema chiamano bicchieri di coca: un repertorio di cacofonie che mi ha ricordato la presenza ingombrante, quindi (solo) per una volta gradita, degli altri spettatori nel The Space.

Vendesi-per-cessata-attività-respiratoria

Finanche la geometria perturbata dello SPACE-tempo della mia poltrona, dolcemente digradante verso il mio ingombrante vicino, mi ha donato per un fugacissimo, meraviglioso istante la gioia di vivere in una buca di potenziale popolata da un altro umano dal corpo politropico, evidentemente degenere.

La morale del film, da me seguito tra una ronfata e l’altra, in definitiva credo fosse il recupero di un’umanità inespressa che l’eroe celava dentro, da qualche parte. Una volta tornato a casa, distrutto nel corpo e nella mente, egli ritrova anche la giusta dimensione sentimentale con la sua ex – una dimensione che la sua precedente esperienza familiare non gli aveva permesso di sondare in modo adeguato – riuscendo finalmente ad apprezzare, lui che aveva sempre viaggiato nell’alto dei cieli, la vita terrena.

Credo sia una storia che segna un interessante (non bello. Interessante) ritorno a una dimensione sociale, sentimentale, romantica, un po’alla Bradbury di Cronache Marziane, di fare film di fantascienza in aperto contrasto con lo scientismo di capolavori come Interstellar, una pellicola a mio parere ancora insuperata.

Riprende un modo di interpretare la fantascienza spaziale non tanto come incursione dello spazio nelle faccende umane, ma come proiezione alla Star Trek dei classici topoi narrativi sul drappo buio del cosmo.

E, a causa di tre uova strapazzate, un’insalatona, mezzo bicchiere di vino rosso e una mela, ho rischiato che tutti questi momenti finissero per andare perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia.

Poi è stato (finalmente) tempo di dormire.

 

SZ

 

*) il buon Davide Alboresi Lenzi, amico astrofilo che ho incontrato al cinema, mi ha fatto notare che una foto di Tommy Lee Jones mostrata nel film è stata scattata proprio durante le riprese di quella fortunata, simpatica produzione