EXTRATERRESTRE, MI PORTO VIA
Come era da attendersi, Pasqua e Pasquetta hanno fatto registrare numerose violazioni alla raccomandazione del governo di stare a casa ed evitare assembramenti. I sostenitori del “sì, va bene la regola, però…” hanno provato a far finta che non vi fossero limitazioni, che fosse tutto normale, e sono partiti alla volta delle loro usuali destinazioni da sollazzo per festeggiare all’aperto, fra amici, giorni di grande letizia.
Non è qui che voglio parlare di cose già dette in precedenza, preferendo piuttosto confessare un sogno ricorrente, che ho fatto sia a occhi chiusi che ben aperti.
Mi è capitato spesso di teorizzare la possibilità di prendere in modo definitivo le distanze da chi ha una visione della vita di comunità, del mondo, del rispetto per le regole, della storia così diversa dalla mia, e immagino che la stessa cosa sia capitato a molti, forse a tutti.
Un rifugio mentale che molti hanno tratteggiato nel dettaglio creando classici del pensiero filosofico e politico accomunati dal tratto utopico o eutopico delle loro descrizioni.
Il reiterato tentativo di passare dall’idea pura alla sua realizzazione ha posto l’umanità davanti a bivi che ci hanno visto prendere sempre la strada sbagliata: la storia ci insegna che la realizzazione pratica di alcune belle idee dovrebbe essere evitata, preferendo relegarle all’ambito del possibile, dell’arte o della filosofia, per lasciare la realtà di procedere lungo le sue direzioni naturali.
Ma questa consapevolezza non deve certo impedire di sognare vagheggiando di luoghi recintati, rigorosamente off limits per chi invece coltiva il culto di sogni personali che per te non sono altro che spettri, mostri, segni di un degrado mentale e civile inaccettabili.
In simili paesi del bello, del giusto, del saggio, ci circonderemmo di persone elette, che per entrare devono dimostrare di soddisfare particolari requisiti, credere in determinate idee, quelle che simmetricamente sono gli spettri e i mostri di chi rimane fuori.
La transizione da qui alla dittatura, al culto di un controllore statale o di un tiranno illuminato posto al comando di queste enclave di ben essere è breve: cosa succede, infatti, se una volta entrata e lasciata vivere nell’utopia che ci accomuna tutti, dopo aver messo su famiglia e aver creato interazioni intense con altri eletti, una persona cambia idea su qualcosa? Viene imprigionata? Viene ostracizzata? La si lascia fare, libera di infettare anche altri con le sue idee reazionarie?
L’idea che, vivendo in un paese sulla carta perfetto, sia impossibile che in un suo abitante non sorga l’esigenza di cambiare qualcosa, è un’utopia nell’utopia. Se di paese perfetto si tratta davvero, allora al suo interno si dovrebbe democraticamente accettare il processo referendario o elettivo con la conseguente rivelazione di correnti di pensiero, di forbici con lame di destra e di sinistra, con moderati o sedicenti tali e agguerriti sostenitori di una alternativa invisa a molti altri.
Si scoprirebbe così, che i veri oggetti frattali piuttosto che essere solo quelli geometrici, sono ben altri e si chiamano idee, pensiero, aspirazioni, sogni, desideri. In parole povere, siamo frattali in quanto umani.
Partecipiamo di tutto e, convinti assertori di una idea ma, coinvolti emotivamente in rapporti con parenti o amici che sappiamo pensarla in maniera del tutto opposta, facciamo dentro di noi spazio, pur se piccolo, anche a quel punto di vista.
Siamo sede di tutto, anche del suo contrario. E il nostro paese ideale si popolerebbe della stessa varietà ideologica che ammala e al contempo fa bello il nostro mondo reale.
E che dire poi delle mire espansionistiche, giustificate dalla inevitabile crescita della popolazione di una particolare utopia, che farebbe desiderare ai suoi abitanti di appropriarsi dello spazio, della regione, delle risorse di altri consessi sociali di non eletti che vivono poco più in là?
La storia ci insegna che non è possibile eludere simili dinamiche e consiglia di riguardare le varie nazioni moderne proprio come la cristallizzazione di quella che un tempo era l’utopia dei suoi fondatori e che poi, nel tempo, è diventata una certa, vaga identità del popolo che lì vive.
In quest’ottica, gli inni, le letterature, le architetture, … assumono il carattere di antiche vestigia di bellissime utopie smussate da violente e incessanti maree di realtà.
Il mio volto non è solo l’espressione dei miei geni, ma anche ciò che rimane di antiche battaglie biologiche sostentue da tutte le generazioni che mi hanno preceduto. Similmente l’arte potrebbe assumere l’ulteriore significato di deposito di utopie politiche e sociali come anche dell’agire degli anticorpi culturali che le sono stati opposti e che ne hanno compromesso la purezza iniziale.
Tutto ciò è avvenuto sempre sull’unico scenario concesso fino ad ora all’umanità: la nostra Terra, il nostro pianeta.
Ora siamo diventati tanti e presto saremo troppi. Se un tempo era forse più facile ignorare chi, lontano da te, decideva di tenere atteggiamenti diametralmente opposti ai tuoi, oggi non è più possibile farlo: l’epidemia ci ha dimostrato l’esiguità dello spazio sul quale prima ci percepivamo lontani e ciò che fa un giapponese oggi ha un’importanza fondamentale e spesso letale per quello che qualcun altro fa a Fregene (e viceversa).
In piena emergenza, ti ritrovi a spiegare per l’ennesima volta al tuo prossimo le tue ragioni, quelle che non sono certo dettate dall’odiato buonsenso e che invece derivano dal rispetto quasi religioso per quanto ti dice chi lavora in campo medico, unico arbitro da ascoltare in casi del genere. Lo fai e lo rifai, ma scopri di parlare a un mondo di sordi.
Allora speri in un futuro non troppo lontano in cui la Terra, oramai soffocata dalle persone e, soprattutto, dai punti di vista, non basterà più a contenere gli uni e gli altri.
Arrivati quel punto, saremo in molti a decidere di andarcene e ci attrezzeremo per farlo sul serio. Colonizzeremo lune, asteroidi, pianeti lontani e tutte queste appprossimative repliche della Terra porteranno i nomi di una particolare idea che ha condotto quegli scontenti e solo loro fin lì perché gli altri, che la pensano in modo diverso, saranno andati su un altro sasso a vivere come più gli aggrada.
L’ostracismo potrà allora prendere il significato di “abbandono del sasso” più che estrazione del l’ostracon: un abbandono che spesso sarà volontario e compiuto da chi comunque saprà di potere autoesiliarsi per andare in direzione di un ulteriore, piccolo mondo sul quale fare atterrare la propria visione… del mondo.
Ricominceranno le guerre tra stati, ma stavolta – mi ripeto – non potranno che essere chiamate in altro modo se non “guerre dei mondi” e sarà un tripudio di riscoperte degli antichi Omero come Clarke, Asimov, Heinlein, … che già di questi scenari avevano predetto molto e dei quali qualcuno si chiederà se fossero da considerarsi singoli poeti o nomi collettivi, quasi si sia trattato di Bourbaki della letteratura “classica”.
Poi si passerà alla fase di pace: un contratto ma apparentemente rilassato federalismo cosmico e di crisi in crisi, di scaramuccia in scaramuccia, arriveremo a dominare la Galassia.
Qualcuno potrà forse leggere in questi miei ultimi periodi un certo compiacimento scientista, ma mi sento di doverlo deludere: non sarà una conquista del pensiero, della conoscenza, della nostra atavica curiosità.
La spinta non sarà così edificante: la nostra storia nello spazio è iniziata nel 1957 con lo Sputnik, un satellite dimostrativo, un guanto di sfida lanciato in orbita, e a farci conquistare il resto dello spazio sarà ancora una volta l’aggressività: una diffusione incontrollata del nosro egoismo che per fortuna si tirerà dietro, tra le altre innumerevoli cose, anche, ora sì!, il pensiero, la conoscenza e la nostra atavica curiosità.
In preda a una voglia incredibile di prendere le distanze da una marea di persone, conosciute – delle quali nella situazione odierna, tramite i social purtroppo vengo a sapere cosa pensano – e sconosciute, dalle quali non riesco ad allontanarmi nemmeno chiudendomi in casa; nemmeno andando ad abitare nella più lontana delle periferie; scopro che anche le visioni più pure della mente sono nulla senza un paesaggio reale nel quale farle scorazzare libere da ostacoli umani.
Quelle idee abbisognano sempre e comunque di paesaggi vuoti, di mondi disabitati, di spazi dove creare utopie solide, architetture.
Senza simili ambienti liberi, le idee sono nulla. Senza metri quadrati, senza chilometri e chilometri di spazio a disposizione le idee rischiano di rivelarsi ciarpame inutile.
Andatevene tutti affanculo.
Anzi, no.
State ancora qui, vi prego.
SZ