CRONACA VIRUS – Giorno 11

                            PANACEE MODERNE IN UNA MILOCCA DEL NORD

L‘atroieri sera, a letto, tra i fumi del sonno, ho colto di sfuggita in un TG la voce di qualcuno che paventava una possibile, ulteriore stretta del governo sulle uscite di casa.

Come era del resto facile immaginare, si annunciava il possibile arrivo di una disposizione che avrebbe regolamentato finanche le uscite per andare a fare la spesa o per andare in farmacia.

Comprensibilmente intimorito da questa prospettiva, la mattina dopo, di buon ora, mi sono precipitato a rinnovare le mie scorte.

Purtroppo mi è apparso subito chiaro che quella notizia l’avevano sentita in tanti: già all’ora di apertura mi sono infatti ritrovato ad essere uno dei tanti anelli di una lunghissima catena umana in fila davanti al centro commerciale a circa un chilometro da casa mia.

Piccolo antefatto: giorni fa mi ha contattato in chat Marcello Catanzaro, giovanissimo sindaco di Isnello, paesino del palermitano dove ho vissuto per un anno e mezzo, col quale sono rimasto in ottimi rapporti.

In quell’occasione mi ha confidato che è sua intenzione creare una specie di biblioteca on-line di videoletture da mettere a disposizione sul sito del comune e che, per farlo, stava contattando varie persone invitandole a registrare brevi puntate video con le quali esaurire la lettura di un libro a loro scelta.

Inutile dirlo, la sua iniziativa mi è piaciuta parecchio e, avendo valutato la possibilità di dover attendere a lungo prima di poter fare la mia spesa, lì al supermercato mi ero portato da leggere un libro che mi sembrava potesse andare bene per quel progetto.

Usando il carrello a mo’ di scudo così da costringere tutti quelli che, salmonati, risalivano la lunga fiumana di persone in fila a starmi a quella famosa distanza di sicurezza di almeno un metro – sembra che questo sia sempre e solo un problema mio. Nonostante lo spazio, loro ti passerebbero tutti a due cm e sembra quasi che a spingerli sia la voglia di scoprire la tua faccia contrariata così da regalarsi un’ulteriore incazzatura – ho avuto tempo di immergermi nella lettura dei Racconti fantastici di Pirandello.

Quello col quale il libro principia mi ha subito colpito per la sua casuale capacità di accordarsi finemente al periodo che stiamo vivendo. Intitolato Acqua e lì, parte strizzando l’occhio al lettore al quale l’autore chiede se ricorda Milocca

“beato paese, dove non c’è pericolo che la civiltà debba un giorno o l’altro arrivare, guardato com’è dai suoi sapientissimi amministratori? Prevedono costoro, dai continui progressi della scienza, nuove e sempre maggiori scoperte, e lasciano intanto Milocca senz’acqua e senza luce”

Una nota a pie’di pagina mi illumina: nell’ironico racconto Le sorprese della scienza contenuto nella raccolta Novelle per un anno, Pirandello aveva già parlato di quella frazione del nisseno che oggi ha per nome Milena, puntando il dito sulla vacuità di chi, secondo lui, confida nella scienza per risolvere problemi pratici.

Il racconto è presto riassunto svelando che si tratta di una trappola narrativa costruita ad arte nella quale la scienza rimane fatalmente incastrata, impersonata com’è dal povero dottor Calajò

che pare goda nel mondo dei medici (fuori, s’intende, del paese) d’una bella reputazione per certi suoi contributi, come li chiamano, allo studio di non so quali malattie, oggi come oggi, disgraziatamente incurabili. Ma perché mai può esser fatta la scienza medica? Per essere applicata, crede ingenuamente il dottor Calajò

A incastrarlo, oltre agli eventi e alla sua attenzione maniacale per la ricerca che lo distrae dalla vita familiare, vi è anche

un certo Piccaglione (…) che è proprio il medico che ci vuole per Milocca: non ha laurea, non la pretende a scienziato, non compromette in nessun modo la scienza, …

Il racconto finisce così come è iniziato, ovvero con la vittoria totale del secondo. La sua, nonostante egli sia costretto ad abbandonare il paese, è addirittura una vittoria morale: perché Piccaglione, il quale

“tutta la sua farmacia la porta in tasca, in una scatola che s’apre come un libro, da una parte e dall’altra scompartita in tante caselline, ciascuna con un tubetto pieno di pallottoline di zucchero intrise d’alcool con le essenze omeopatiche”

guarisce tutti, o quantomeno non li ammazza come invece fa fare Pirandello al Calajò e alla sua scienza medica.

Correva l’anno 1923, praticamente un secolo fa, e volendo a tutti i costi giustificare il buon Luigi che di cose memorabili ne ha fatte davvero tante, mi sforzo di immaginare possibili giustificazioni per la sua presa di posizione così apertamente antiscientista che immagino molto deve alle posizioni del Croce che in quegli anni, litigando con il matematico Enriquez, combatteva il pensiero scientifico.

Posso allora immaginare come i tentativi della scienza medica, all’epoca ancora goffi in tante situazioni, si dimostrassero molto meno efficaci, specie nel guarire malati immaginari, delle magherìe messe in atto da sedicenti guaritori sciamanici che abitavano le contrade misconosciute dell’entroterra italico.

Non so perché, ma mi è sembrato di vederla, la Milocca di Pirandello. Per un attimo fugace mi è parso di vivere lì e di vedere dalla finestra uno, due, dieci Piccaglione che, nonostante gli inviti a starsene a casa, se ne vanno a spasso. Questo mentre i vari e reali Calajò – quelli che nel frattempo sono stati visti fra noi, infettarsi con noi e spesso morire prima di noi, dimostrandoci definitivamente che non vivono affatto in lontane torri d’avorio – sono stati tutti richiamati a dare una mano negli ospedali per tentare di fronteggiare l’emergenza.

Mi è sembrata di vivere lì e a quel tempo perché, pur se tutti sottoposti ai continui richiami emessi dagli altoparlanti del centro commerciale che a gran voce invitavano la gentile clientela a tenere la distanza di sicurezza, in più occasioni diverse persone mi si sono avvicinate costringendomi a rinnovare l’invito a starsene lontane.

Una di loro, una giovane signora che mi si è accostata chiedendomi se avessi visto non so quale prodotto, evidentemene interdetta per il mio invito a mantenere una distanza adeguata, mi ha detto con un candore disarmante:

“Io almeno ho la mascherina”

e lì mi è sembrato finalmente di capire cosa anima chi, vedendoti a volto scoperto (in tutte le farmacie dove ho cercato  ‘ste benedette mascherine, mi hanno risposto che le avevano terminate…), ti si avvicina così tanto, noncurante delle raccomandazioni ripetute fino alla noia da tv, giornali, operatori sanitari, …

Forse la vista del mio volto scoperto stimola la voglia irrefrenabile di chi invece ha quella protezione di autogratificarsi esibendo ciò che, oramai introvabile, è diventato il nuovo Rolex, il nuovo visone da mostrare con un misto di esibizionismo e di paternalismo compiaciuto e biasimante nei confronti di chi come me, povero idiota, sta rischiando così tanto.

Sarà per il fatto di essere una protezione che ha anche il carattere di indumento molto visibile, quindi un oggetto particolarmente adatto a diventare un capo di moda, fatto sta che, ne sono certo, se Roland Barthes fosse stato ancora fra noi, non avrebbe perso l’occasione di eternare quel tenero presidio medico riconoscendogli il valore di ulteriore mito d’oggi.

Non so, forse hanno ragione i mascherati e tutti colori i quali non si curano del male e vanno avanti. In ogni caso, trovando opportuno ogni tanto mandare in ferie sia il pensiero laterale che e soprattutto quello dietrologico (entrambi potrebbero portare a ipotizzare chissà quali magagne grazie alle quali da tutto ciò guadagnano alcune lobby oscure), decido di affidarmi agli articoli scritti da alcuni colleghi di Calajò nei quali si dice chiaramente che quel presidio non elimina il pericolo di contagio dal virus, avendo il solo effetto di diminuirne il rischio.

Ad esempio, nel sito http://www.salute.gov.it, si trova:

“Per prevenire il rischio di infezione da nuovo coronavirus è prioritario curare l’igiene delle mani e delle secrezioni respiratorie. L’Organizzazione Mondiale della Sanità raccomanda di indossare una mascherina solo se sospetti di aver contratto il nuovo coronavirus e presenti sintomi quali tosse o starnuti, oppure se ti prendi cura di una persona con sospetta infezione da nuovo coronavirus. L’uso della mascherina aiuta a limitare la diffusione del virus ma deve essere adottata in aggiunta ad altre misure di igiene respiratoria e delle mani. Non è utile indossare più mascherine sovrapposte.”

Un punto di vista condiviso dal professore Walter Ricciardi, componente del comitato esecutivo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) e consigliere del ministro della Salute, il quale dalle pagine del Corriere della Sera fa sapere che:

«Quelle di garza, che vanno a ruba, servono come misura di precauzione. Quelle sofisticate, che hanno dei filtri, servono a proteggere gli operatori sanitari».

Gli fa eco il presidente della Federazione degli Ordini dei Farmacisti Italiani (Fofi), Andrea Mandelli secondo il quale

«Bastano le misure di igiene (lavare le mani) ed evitare i contatti ravvicinati, come per l’influenza, mentre (le mascherine, n.d.r.) sono necessarie a chi è già malato per evitare di diffondere i patogeni».

E allora mi torna in mente il risultato di una recente ricerca che credo abbia allarmato un po’ tutti, secondo la quale gli studenti italiani hanno, tra gli altri, un grosso problema di comprensione di ciò che leggono. A questo punto credo di essere autorizzato a pensare  che la stessa ricerca condotta su un campione di adulti non darebbe risultati migliori.

Il racconto di Pirandello si chiude con il povero Calajò al quale un collega più giovane suggerisce di dare ai Milocchesi, come del resto faceva il più furbo Piccaglione, né più, né meno quello che vogliono. Dice, infatti:

(…) e lei, scusi, perché non si mette a fare il medico come lo vogliono a Milocca? Acqua e lì!

-Come, acqua e lì? – domanda stordito Calajò. E quello: Ma sì, illustre collega, acqua, acqua naturale, tinta in rosso o in verde da qualche sciroppino, e lì!

E allora sapete che vi dico?

Mascherina, e lì sia!

 

SZ

 

 

 

 

 

Lettere Divulgative a un Figlio Lontano – Un terzo bonus di 24 ORE di visibilità

Mammouth-Zoup

Nel Domenicale di domani, Domenica 17 Aprile 2017, dovrebbe esserci (a volte l’editoria riserva sorprese dell’ultim’ora…) di nuovo un mio fumetto intitolato “Un orologio… a tempo”. É la terza volta che capita, dopo il 29 Gennaio e il 26 Febbraio, e la cosa ovviamente mi gratifica, rimpinguando energie mentali che spesso mi vedono “in riserva”.

Quale occasione migliore, allora, per raccontare quale sia il mio modo di pormi davanti a questa opportunità? Quale momento migliore per capirmi meglio, descrivendo(mi), spiegando(mi) quale sia la strategia che ho deciso, più o meno consciamente, di adottare nel costruire queste brevissime storie domenicali?

In un primo momento, ho pensato al testo che segue come a qualcosa che potesse trovare spazio nel sito del SOLE 24 ORE, ma poi Alfredo Sessa, responsabile della pagina, mi ha fatto notare che, eccezion fatta per alcuni spunti di interesse più generale, il testo fosse così personale da risultare molto più adatto a questo mio spazio.

Se state leggendo qui queste parole è proprio perché non ho potuto fare a meno di scoprire, rileggendomi, che aveva perfettamente ragione.

Senza quindi indugiare ulteriormente in introduzioni varie, prefazioni, preamboli, fronzoli, ecco quanto scrivevo in preparazione dell’uscita di, si spera, domani.

Buona lettura, sempre che vi vada di leggerlo.

Prima di iniziare a disegnare le mie brevi storie per il Domenicale, ho dato un’occhiata preventiva a quanto fatto dai colleghi che mi hanno preceduto su quella pagina. Questa breve indagine ha fatto emergere un carattere ondivago, come è normale che sia, degli approcci comunicativi: quello è chiaramente uno spazio dedicato ai più piccoli, ma nel quale la volontà di coinvolgerli viene coniugata quando in modo “classico”, ovvero con disegni dal tratto ampio, dai colori distesi e dai testi diradati, quando con un tratto un po’ più adulto caratterizzato da una maggiore densità e spigolosità dei segni e testi più ambiziosi.

Tutto ciò mi è sembrato normale, anzi, è del tutto normale: a parte prevedibili e necessarie variazioni di approccio da parte dei diversi autori, l’obiettivo stesso del comunicare ai più piccoli, in assenza di una precisa indicazione su cosa “più piccoli” esattamente significhi, implica il parlare a un range di età abbastanza ampio nel quale anche solo una differenza di un anno comporta enormi variazioni nelle capacità cognitive dei bambini.

Conoscendomi e sapendo che, almeno fino a oggi, mi è stata e mi è più consona la comunicazione con un pubblico adulto, ho pensato di interpretare il compito di parlare ai minori facendolo in un modo indiretto: ovvero passando dalla comunicazione intermedia con i genitori ai quali suggerisco possibili argomenti da raccontare, oggi o tra qualche anno, con l’aiuto dei miei fumetti o meno, ai propri figli.

La tensione divulgativa mi è propria, ma dopo aver pubblicato la prima storia “Se solo i grandi guardassero il cielo” – che, tra le due fin qui pubblicate, è quella che definirei più “emozionale”, da contrapporre ad altre di carattere più divulgativo (es.: “Un preciso caccolo astronomico”, Il Sole 24 Ore, 26 Febbraio), “storico” (es.: fumetto per l’European VLBI Network) o “di ricerca” (es.: quella oggi presente nel Domenicale. Per una discussione più approfindita su queste categorie, cliccare qui), e nella quale, come precisavo nell’intervista fattami da Alfredo Sessa lo scorso 29 Gennaio, un concetto da passare c’è ma è più nascosto, da intravedere in filigrana – ricordo di essere stato invitato dall’allora responsabile dell’inserto a esplicitare nei miei fumetti qualche contenuto astronomico in più: era proprio questo che ci si aspettava da un fumettista che, come me, facesse capo all’INAF, Istituto Nazionale di Astrofisica.

Ovvio che, dopo questo invito esplicito, l’idea di pubblicare sul SOLE 24 Ore ha preso ad intrigarmi ancora di più, con l’effetto però di stabilire in modo definitivo, o quasi, quale fosse il livello minimo di complessità grafica e testuale sul quale io, col mio tratto e col mio modo di raccontare, potevo attestarmi: non è assolutamente impossibile spiegare contenuti astronomici ai più piccoli, anzi; ma potendo farlo, preferisco dire qualcosa di più, quindi parlare a bimbi più grandi e ai loro accompagnatori.

Il coinvolgimento dei genitori in questo processo mi diventa quindi fondamentale in quanto è soprattutto a loro che mi rivolgo, privilegiando i papà per il semplice motivo che lo sono anche io e che quindi sento di vibrare in consonanza con molti nella mia stessa situazione.

I temi che ho scelto di trattare sono decisamente soft e, mentre con L’istituto cileno Milenio de Astrofisica sto conducendo, sempre a fumetti, un’operazione di divulgazione di temi di Astrofisica più dura non disdegnando di inserire qui e là anche qualche semplice formula, nel Domenicale propongo temi di Astronomia osservativa condotta a occhio nudo, quindi qualcosa di più facilmente trasmissibile da padre in figlio anche se il padre (o la madre) in questione non è un astronomo.

Rendere Giovanni protagonista di queste brevi storie assume qui molte valenze: intanto mi coinvolge in modo tale da farmi “stare sul pezzo” in modo diverso, senza farmi avvertire la stanchezza per le innumerevoli correzioni che apporto in corso d’opera a testo e disegni, ma che poi, a lavoro finito e solo allora, arriva puntuale a devastarmi.

Oltre a questo c’è anche un altro aspetto.

È ormai dal Novembre 2016 che lavoro all’INAF-OAPA/GAL-Hassin, Centro Internazionale per le scienze astronomiche di Isnello, paesino madonita della provincia di Palermo, e questo significa che vedo mio figlio solo per quindici giorni al mese, allorché torno a Bologna dove ho studiato, lavorato e vissuto negli ultimi anni.

Disegnare mio figlio cercando tra i tanti video che gli faccio quando sono a casa la posa giusta da riprodurre nel fumetto, mi fa sentire come quel cavernicolo che a Lascaux disegnava il bisonte sulla parete della sua grotta. Così facendo se lo propiziava, conquistava la sua preda, la “ipotecava”, quasi, creando un mondo possibile e parallelo in cui lui catturava il bisonte perché era ciò che già stava capitando lì, su quel mondo-parete, grazie ai suoi rudimentali strumenti da disegno e a una sorprendente maturità artistica. Disegnando il bisonte, il nostro lontano antentato lo aveva già fatto suo, lo aveva già catturato.

Bene.

Disegnando mio figlio standomene lontano da lui, sembrerà retorico, ma mi permette di conquistarlo, di farlo mio, di parlargli tenendolo vicino nonostante i circa mille e duecento chilometri che ci dividono (e trasformandomi così, da Squid Zoup, a Mammouth-Zoup, titolo dell’illustrazione d’apertura di questo articolo). Inoltre parlargli, nonostante in quei fumetti io gli stia raccontando qualcosa che lui a quattro anni non può proprio comprendere, mi consente di curare un’altra mia vecchia frustrazione: faccio divulgazione da tanto, oramai, e mi sono trovato spesso a raccontare l’astronomia a tanti bambini di tutte le età.

A un certo punto, tempo fa, mi sono detto che sarebbe stato bello spiegarla anche a un bimbo mio e non solo a bimbi altrui. Non è detto che Giovanni un giorno accetterà le mie narrazioni. Magari preferirà altro all’astronomia e alla scienza in generale e, nel caso, da padre a me starà di accettare senza drammi il suo disinteresse per le mie passioni.

In ogni caso, ora esiste un piccolo universo cartaceo e parallelo nel quale le cose stanno andando come desideravo: mio figlio si interessa a ciò che posso dargli, lo accetta di buon grado e si dimostra felice di trascorrere con me il breve tempo che prende raccontargli queste storielle epistemiche.

Forse un giorno tutto ciò mi dovrà bastare.

SZ

Sfondo musicale:

Oggi inizio

Oggi inizio!

Perché una Zouppa???

Perché mi ricorda qualcosa che “bolle in pentola”, qualcosa da gustare dopo lunga cottura e che va servita calda.

In fondo, il blog è qualcosa di simile: un’idea ti ribolle in testa e, quando è pronta, la servi sulla tavola di internet sperando che qualcuno gradisca e che decida di sedersi a mangiare con te.
Nello scegliere come chiamare questo spazio, non ho potuto fare a meno di cedere al fascino della lingua inglese. Prima di capitolare, ho fatto diverse ipotesi in italiano, ma ogniqualvolta ho optato per un nome da dare a questo blog, ho scoperto di essere sempre arrivato almeno II, quando non addirittura XXXXVVVIII.

Inizialmente la zuppa era quindi zuppa, poi ho deciso di renderla soup, in inglese. Più agile, moderna, veloce, take away.

Sì, però non era certo mia intenzione parlare (solo) di cucina –  ci sono tantissimi blog specializzati sull’argomento. Uno “ottimo” fra tanti, http://relaxingcooking.wordpress.com/ della mia amica Maria Antonietta Montone – e mi andava di rendere omaggio anche all’italiano che con la zuppa in qualche modo c’entra di sicuro. Sarà poi che vivo da tanti anni in Emilia Romagna, una regione nella quale le “z” sono “s” (ragassi, pissa, pessi, …), che alla fine ho deciso di vendicare le “z” cambiando l'”s”iniziale di soup nella “z” di zoup.

Sì, ma perché squid?

Innanzi tutto perché amo i calamari, vivi, fritti, ripieni o al sugo che siano.

Subisco da sempre il fascino di tutto ciò che ha a che fare col mare. Oltre a questo, subisco anche quello che avvolge l’esistenza di animali strani, dei vari mostri marini inventati o veri che siano e, tra tutti, l’architeutis dux, il famoso calamaro gigante, è quello che più mi emoziona.

Cerco sempre in rete immagini nuove che mostrino questo stranissimo essere di cui ancora si sa molto poco e che mi sembra rappresentare al meglio la potenza e la fantasia della Natura. No, non credo di aver mai immaginato di fare una zouppa di calamaro gigante, ma ho pensato che al ribollire di pensieri di cui dicevo prima, lo squid avrebbe aggiunto di sicuro sapore. Inoltre mi regala l’opportunità di usare una splendida metafora per riferirmi a tutte le cose che mi interessano come professionista e come persona.

Uso allora il dato che questo animale possiede ben dieci TEN-tacoli, otto corti più due lunghi, per dire la mia agganciando idelamente l’astronomia, la scienza in generale, la fantasciena, il fumetto, l’illustrazione scientifica, la narrativa, il jazz, la musica classica. Per arrivare a dieci, rimangono ancora due tentacoli. Volendo quindi completare il cucuzzaro, se sarà il caso di sconfinare in temi non compresi nell’elenco predcedente, deciderò volta per volta in che direzione puntare queste due appendici-jolly.

Insomma, vorrei provare a divertirmi in un modo per me nuovo, sperando di divertire anche qualche altro internauta che si trovi a passare da qui.

Mi prendo giusto il tempo di impratichirmi con questo strumento, dopodiché inizierò a pubblicare cose spero interessanti con una cadenza ancora tutta da stabilire che vorrei fosse regolare, pur sapendo che non ce la posso proprio fare.

Cià!