Nell’ultimo articolo (Visioni di MoSKA) ho parlato dell’ambiente estremamente connesso degli istituti di ricerca. In esso, le informazioni corrono da un capo all’altro del mondo rimabalzando su monitor, telefoni, fax, articoli. Anche se non organizzato come facebook, Twitter, Linkedin, …, quello scientifico può per molti versi essere paragonato a un social network. E i social network sono l’argomento di oggi.
Credo fermamente nella loro utilità.
Al di là di considerazioni varie, mi sembra che essi valgano soprattutto come strumento di indagine, come “carotaggio sociale”, non tanto per capire come la gente è, ma per farsi un quadro abbastanza preciso di come la gente ami apparire (e, di conseguenza, in seconda battuta, di come davvero sia).
Aprire la home di facebook, per esempio, consente di osservare le correnti di pensiero, le mode, i trend che per periodi più o meno lunghi regnano incontrastati. Buona parte di essi sono simili a quelli che un tempo chiudevamo fuori dalla porta di casa, mentre oggi hanno libero accesso ai nostri ambienti fisici e mentali e ci inseguono fin nel tinello, in cucina, nell’alcova.
Quasi si tratti di scie chimiche, ne senti l’odore (o il puzzo) e non ti resta che seguirlo per arrivare a comprendere quale sia l’immagine di base, quella noumenica, quasi, alla quale chi posta ama essere associato. Se la trovi, sai che l’elemento di verità è lì e non nella persona che a quell’immagine si riferisce. Quella persona assume solo il ruolo di banale e inconsapevole vettore di un’immagine resa interessante per il nostro contesto culturale da chissà chi, chissà dove, chissà quando.
Si tratta di idee-vestiti, anzi, meglio, vestiti-idee, alle volte interessanti, spesso arroganti e alla moda, utili più che altro a nascondere nudità ridicole o senza particolari attributi.
In questo contesto al quale appartengo e nel quale temo (direi di esserne sicuro) di comportarmi allo stesso modo, ciò che mi sorprende è qualcosa di simile a quanto notavo nel mio articolo di qualche giorno fa parlando di ricerca scientifica: la quasi totale mancanza di idee vere e veramente nuove. No, non preoccupatevi: non intendo qui proporre un pistolotto sul valore della sincerità. Per quello, i social network vanno ancora benissimo.
Intendo dire che grazie alla loro frequentazione, mi è apparso in modo più chiaro di quanto non lo fosse nella vita reale ciò che registravo già da tempo senza dirmelo con chiarezza: viviamo tutti da utenti, senza altre specificazioni possibili.
Vado in palestra con la macchina. Per arrivare lì uso il GPS. In palestra mi servo di altre macchine che allenano i muscoli. Mi collego in rete dove, nei social network, riporterò quanto detto da altri, meglio se pensatori del passato. Forse linkerò dei video girati da chissà chi, roba trovata in rete, o la musica composta e suonata dal mio gruppo/artista preferito. Andrò a fare la spesa da TizioCaio, una catena di supermercati davvero conveniente. Tornato a casa, guarderò la partita giocata dalla mia squadra del cuore, composta da undici persone delle quali so tutto e che mi daranno poi la possibilità di parlare del match domani in ufficio, con i miei colleghi.
Mi viene in mente un brano di un cantautore poco conosciuto (http://it.wikipedia.org/wiki/Tullio_Ferro) in quanto agisce nell’ombra di grandi artisti (ritenuti sempre, automaticamente, autori di ciò che cantano) ai quali ha venduto molte delle sue creazioni. Con lui ho avuto l’opportunità di collaborare tanti anni fa e sono contento di essere tra i musicisti che suonano nel suo disco “Il giorno di un giorno” (Storie di Note, 1999). Il brano che ho ricordato si intitola: “Il mondo che fanno gli altri”, ed è proprio così: a fare il mondo sono le persone delle quali seguiamo le gesta in telvisione, in rete o sui giornali. Sono i politici, gli attori, i cantanti, gli ingegneri, gli artisti, gli scienziati, i programmatori, i pittori, gli stilisti, … ma non tutti i politici, gli attori, i cantanti, … Sono solo quelli che, assunti in uno strato sociale più libero, alto e quantisticamente lontano dal nostro, ci bombardano il cervello di continuo, senza dargli scampo, abituandolo a pensare che è giusto assumere il ruolo di spettatori, di consumatori, di popolo da intrattenere.
Questi alti demiurghi sembrano essere tantissimi, ma a ben vedere, sono solo un manipolo di personaggi davvero esiguo se confrontato con il gran numero di tutti coloro i quali vivono grazie alle vere azioni di quei pochi: ci danno occasione di parlare di loro e di quello che a loro accade, ci fanno arrabbiare, indignare; alcuni di loro vendono i dispositivi dei quali non sappiamo fare a meno; costruiscono con i loro soldi la realtà nella quale ci muoviamo. Ci regalano sogni preparandoci anche a delusioni moderne. Spesso da loro dipende la nostra felicità o, addirittura, la mancanza di essa.
La massa (da leggersi come tutti noi) agisce esclusivamente da volano per dare peso a concetti e azioni di questa moderna oligarchia. Noi costituiamo la forza meccanico-economica che regala un ulteriore giro di giostra quando da quella non ci arriva sufficiente spinta per farne uno. Forse è stato sempre così e sono stupido a registrarlo con un simil-candore così anacronistico. Che ci posso fare? Oggi va così.
Se ognuno di noi, invece che mediante tasse, contributi SIAE, canoni televisivi, … desse a questi super-demiurghi anche solo cinquanta centesimi scoprendosi nel mentre li cerca nelle proprie tasche e da lì li raccoglie, gli apparirebbe subito chiaro come mai quelli che fanno il mondo guadagnano le cifre che ci fanno scandalizzare tanto come nel caso dei 27 milioni di buona uscita di Montezemolo e i non so quanti milioni dei vari Balotelli. Il conto è banale: siamo circa 70 milioni. Già solo 50 centesimi al mese da ognuno di noi basterebbero a spiegare molte delle strane alchimie di cui veniamo a sapere dai giornali. E, come tutti sanno, il nostro esborso non è esattamente di soli 50 centesimi di euro al mese.
Per carità! Non fraintendetemi: ritengo anche io assurde quelle cifre. Tanto più assurde se si pensa che sono del tutto disinteressato alle sorti della Formula 1 e ancor più a quelle del calcio, italiano o internazionale che sia. Queste mie non vogliono essre altro che innocenti constatazioni di un deluso di sinistra e non di un nostalgico appartenente all’altra parte della barricata.
Ma torniamo pure ai sogni che ci regalano i personaggi di cui sappiamo tanto, troppo. La loro grande capacità è quella di donarci l’illusione di poter incidere come loro sull’aspetto del mondo che ci circonda. Ci riteniamo importanti se riusciamo ad assomgliare a certi modelli estetici, comportamentali, economici, … da loro introdotti nel nostro mondo attraverso spifferi aperti nelle nostre mail-box, nei giornali, nelle televisioni, nella rete. Modelli che la maggior parte di noi non avrebbe mai avuto la capacità di elaborare se qualcuno non l’avesse fatto per noi. A tal proposito, devo riconoscere a malincuore una certa perversa genialità nell’agire di tutti questi personaggi che, mi piaccia o meno, creano e ricreano di continuo l’aspetto del mondo in cui vivo.
Il popolo dei social network non sembra accorgersi veramente di tutto ciò. O perlomeno, se mostra di averlo appena fatto, si scopre come la sua apparente presa di coscienza derivi in realtà da un post che gli è piaciuto e che ha deciso di condividere, scritto da qualcuno nella sua estesa rete di contatti. Un tempo condividere voleva dire anche lottare per l’affermazione di un concetto, di un ideale. Oggi basta premere un pulsante senza rischiare alcunché della propria vita reale. E l’ideale, come oramai tante altre cose, totalmente svuotato di un suo genuino valore concettuale, altro non è se non una stringa di caratteri alfanumerici, scritta da qualcuno per motivi che solo lui conosce. Forse.
Le risposte al suo post costituiscono di sicuro la parte più bella: sono tutti con lui; si sono accorti tutti della stessa cosa; sono stati preceduti da lui di un soffio in quanto stavano pensando esattamente allo stesso problema; i Mi piace si sprecano, e così via, sbrodolando con questo tenore per un bel po’ di righe, traduzione moderna del fiato sprecato di un tempo.
Inutile dire, poi, che stessa sorte tocca a un post in totale controtendenza rispetto al precedente e che magari appare su quella medesima bacheca.
Anche l’indignazione, la denuncia, l’autoanalisi diventano una Coca-Cola da stappare e bere per poi immancabilmente ruttare in un commento la propria elaborazione. E, ancora una volta, la Coca-Cola l’avranno fatta altri. Forse anche questo post nasce da istanze simili, ma io non me ne accorgo. Ho l’illusione che a differenziarmi dagli altri sia purtroppo una certa persistenza del disagio che provo; un disagio che non si esaurirebbe una volta contati i numerosi mi piace che un post del genere potrebbe classicamente totalizzare. Ma forse mi sbaglio ancora una volta e non sono che un amplificatore di un malessere antico.
In ogni caso, non passa giorno che non mi chieda a cosa accidenti io serva e cosa di così importante sia successo nella giornata che progressivamente, col passare delle ore, mi lascio alle spalle. Immagino che tutto ciò faccia di me un ottimo cliente per orde di strizzacervelli. L’anomalia, se di anomalia davvero si tratta, è non essere sempre contenti delle innumerevoli e irrinunciabili opportunità di felicità che la modernità ci regala.
Siamo utenti, quindi, ma programmati culturalmente in modo tale da non porci con serietà e partecipazione profonda la domanda che credo fondamentale: ma io cosa faccio davvero? Quale è il mio contributo al mondo nel quale vivo?
So che in una società buonista e cattolica fino al midollo come la nostra, la prima pensata che in genere queste ultime due mie righe stimolano sia: “in effetti, dovrei essere più attento al mio prossimo, più pronto a fare del bene, più…”.
Temo che deluderò qualcuno: non me ne frega niente di concetti del genere. Una volta obbedito a regole condivise (la legge) atte a rendere la nostra esistenza qualcosa di affrontabile senza clava in mano, sono pacificato con l’idea di un prossimo da incontrare per strada. Non gli farò del male, né riterrò di dover porgere questa o l’altra guancia a chichessia. I rapporti umani sono importantissimi, ma non intendo amare tutti come hanno inutilmente tentato di insegnarmi. Mi costerebbe una fatica per la quale la Natura non sembra avermi programmato così bene.
Quando mi chiedo quale sia il mio contributo al mondo che abito, intendo quale pezzo di realtà sia riconducibile alla mia esistenza e solo a quella, al di là delle mie deiezioni, metaforiche e non, risultato delle abbuffate (metaforiche e non) a base di cibi… creati da altri.
Siamo utilizzatori finali di tutto, il più delle volte incapaci di porre rimedio a un problema che si può verificare in qualsiasi momento, in uno qualsiasi dei segmenti di realtà che frequentiamo; fra i circuiti e gli ingranaggi di uno qualsiasi degli strumenti che usiamo.
Siamo utenti che vivono questa propaggine storica provando la vertigine regalata dalla modernità, ma con una consapevolezza del meccanismo di tutto in netto ritardo rispetto al tempo che abitano e basterebbe un conflitto, una catastrofe, un “inciampo” di qualche tipo per denudare in tempi brevissimi questa nostra inadeguatezza. La vertigine della propaggine di inizio capoverso andrebbe piuttosto vista come timore della voragine sulla quale ci affacciamo. Sarebbe più serio e sincero.
Inutile dire che aspirerei a essere uno che il mondo lo crea, anche se – lo giuro! – non lo disegnerei così. Immediatamente dopo aver scritto questa frase così pretenziosa, mi vien da chiedermi con sospetto: “chissà cosa diventerei se fossi davvero capace di cambiare le cose…”
Dal discorso appena fatto, conseguirebbe che dovremmo tutti tutelare, aiutare, preservare coloro i quali, assolutamente innocui, si dimostrano capaci di creare piccoli tasselli della nostra esistenza senza per questo renderci schiavi di alcunché. Fintanto che le loro entrate non siano spiegabili con i centesimi prelevati con un inganno da tutti i milioni di conti correnti delle persone che ci circondano, non credo ci sia nulla da temere. Personaggi che a già esistenti x e y, affianchino una z ottenuta da una somma creativa, positiva e non banale degli elementi precedenti, dimostrano di conoscere l’esistente e di poter davvero incidere sul reale arricchendolo con ciò che non esisteva prima.
Sembrerebbe ovvio che non tutti possano essere così innovativi, specie in un sistema educativo che esalta la ripetizione pedissequa senza premiare l’originalità. Sarei invece portato a credere – e qui si conclude la mia grossolana utopia di oggi – che chiunque, messo in condizione di essere creativo, se non addirittura costretto dagli eventi a dover essere creativo, possa essere un potenziale “accrescitore consapevole” di realtà, quindi potenziale creatore di altri prodotti che non siano solo ciò che resta dall’aver metabolizzato prodotti e trovate altrui. Forse basterebbe smettere di suggere per ore alla tetta dei social network che distribuisce sempre latte artificiale a lunga conservazione del contenuto minimo di idee.
Poi tento di figurarmi la società ideale che ho descritto. L’immagine che mi arriva è quella di un popolo estremamente laborioso in cui ogni individuo costruisce giorno dopo giorno un piccolo tassello di realtà – l’unico sul quale sa agire – da condividere con gli altri. Zoommando sulle mani delle persone che popolano questa immagine, scopro che maneggiano gli oggetti del quotidiano, ma non solo quelli che sarei tentato di classificare tra i più “nobili” come libri, quadri, sculture, strumenti musicali e finanche teoremi, ma pure e soprattutto quelli che tengono insieme, puntellano la realtà quotidiana.
Quindi scopro tra quelle mani chiavi inglesi per avvitare; bulloni da avvitare; posate usate per cucinare pietanze sempre uguali e sempre un po’ diverse; penne per stilare contratti che servono a far avanzare l’economia; attrezzi per coltivare; … ed ecco un sospetto farsi strada:
va a finire che – e non sono certo il primo a sospettarlo: vanto illustri predecessori – questo sia da considerare come il migliore dei mondi possibili, la migliore approssimazione alla società ideale, quella alla quale vorrei appartenere. A instillarmi questo dubbio atroce, ad alto contenuto ironico, è stato inaspettatamente un sogno a occhi aperti, quello descritto nelle righe qui sopra. Se le cose vanno così come vediamo, probabilmente è perché non possono andare altrimenti.
L’elevato numero di individui, un numero in continua crescita, si evolve come farebbero gli stati di una immane simulazione sulla quale, dato il run, non è possibile agire significativamente se non arrestando il processo. A noi quindi non resta che assistere allo spettacolo registrandone le fasi con attenzione così da azzardare previsioni su un futuro in minima parte deterministico, ma sempre in bilico sulla voragine caotica.
A questo punto, temo (mi fa schifo anche solo pensarlo, ma tant’è…) che i 27 milioni di euro dati a Montezemolo per abbandonare il team Ferrari siano necessari, e che lo rimangano almeno fintanto che il prezzo di un chilo di pomodori sarà di pochi euro mentre lo stipendio di un professore di liceo ne varrà poco più di mille.
“Il mondo che fanno gli altri” è estremamente complesso e interconnesso. In esso c’è bisogno di creatività alta, ma anche della mancanza di essa per privilegiare una ripetitività utile, fondamentale, necessaria. A questo punto, temo che la mia incapacità di vedere l’utilità sociale della grande coglionaggine alimentata dai nostri post in rete, sia paragonabile alla mia incapacità di accorgermi quanto sia utile all’equilibrio globale di questo mondo una zanzara che di notte mi sveglia pungedomi sotto la pianta del piede.
Dopo una corsa del genere all’inseguimento della mia contraddizione, mi scopro un Menenio Agrippa de noantri, prigioniero di un loop mentale che mi fa temere di assomigliare a un redento capolista del PD. Quasi quasi mi vien da dire “Viva Montezemolo che mi consente di incazzarmi pensando ai suoi 27 milioni di euro; viva me!, perso in una melassa di teorie in attesa della rivoluzione culturale (che verrà, amen) e, perché no?, viva le zanzare.
Imbarazzo.
Impasse.
Mi auguro soltanto che il mio impianto elettrico, quello idraulico, il forno, questo mio computer, non decidano mai di suicidarsi.
Non saprei proprio dove mettere mani in cose che hanno fatto altri.
SZ
Sottofondo:
John Zorn, Naked City
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