Il MEDIUM È IL RUMORE – piccola apologia delle fake news

NOUS

Illustrazione apparsa per la prima volta sul trimestrale SISSA News, house organo della Sissa di Trieste

Affrontando un articolo scientifico, attraverso varie fasi che immagino, mi accomunino a tutti i miei colleghi alle prese con la stessa attività.

Se non so per altre vie (come, ad esempio, quella offerta dall’efficacissimo passaparola) che quel tal lavoro può interessarmi, mi faccio condurre nella scelta dalle parole chiave che mi facilitano la sua ricerca nei vari motori di ricerca, generalisti o specialistici che siano.

Come è ovvio che sia, anche nel caso di un articolo scientifico il titolo gioca un ruolo fondamentale: può avere un carattere squisitamente informativo o, se gli autori sanno giocare bene con le parole e se il tema lo consente, può esibirne uno più ammiccante e provocatorio che non faccia però rinunciare al primo, fondamentale obiettivo: spiegare il contenuto dell’articolo così da accalappiare un lettore che già di suo non chiede altro se non di essere accalappiato.

Detto così, il compito dovrebbe risultare abbastanza facile, e in effetti lo è.

A differenza, infatti, del caso di articoli pubblicati su testate non specialistiche per i quali il problema è che il lettore è di solito distratto da pensieri suoi, dagli annunci pubblicitari e da chissà quali altri fattori ambientali – una situazione nella quale è di fondamentale importanza usare titoli capaci di catturare l’attenzione su un qualsiasi tema pur sapendo che difficilmente la “cattura” durerà per più di pochi secondi – nel caso delle riviste scientifiche, l’editore sa già che il suo lettore medio 1) desidera/deve leggere quell’articolo; 2) per farlo, deve concedersi un tempo anche molto lungo così da comprenderlo sul serio; 3) non desidera “fronzoli” e abbellimenti stilistici, preferendo piuttosto una scansione dei temi che sia sequenziale e logica, nonché uno stile asciutto, non ambiguo, diretto.

Dopo il titolo, la prima cosa che si legge di un articolo scientifico è l’abstract, ovvero un riassunto del contenuto dell’intero pezzo che consenta al potenziale lettore di comprendere il contesto, gli obiettivi, il metodo della ricerca cui l’articolo si riferisce. Tutto ciò mette il potenziale lettore in condizione di comprendere definitivamene se il sospetto generato dal titolo che lì si parla di cose di suo interesse è confermato o meno.

Se, dopo averlo letto, continuerà a essere convinto che quell’articolo gli serva, andrà avanti affrontando l’introduzione e, di seguito, tutte le sezioni previste da una certa “maniera” necessaria e necessariamente logica di organizzare i contenuti fino alla conclusioni finali.

Spesso mi capita di non capire alcuni passaggi, alcune formule, alcuni rimandi a teorie e risultati che non ricordo o che giacciono in altri articoli ancora da leggere.

Negli anni ho imparato a saltare a pie’ pari questi “fossi” presenti lungo il sentiero, ripropondendomi di tornarci su alle letture successive (la rilettura è d’obbligo) e proseguo oltre aggrappandomi alle cose che so, che comprendo o che, consapevole di essermi lasciato alle spalle delle lacune, penso e spero di avere compreso.

Se, nonostante le lacune che ho lasciato inesplorate, riesco ad arrivare fino in fondo, attuo un confronto tra ciò che penso di aver compreso e quanto prometteva l’abstract.

Le due cose coincidono?

Se la risposta è sì, allora posso dire di aver più o meno compreso l’articolo e la mia autostima prende valori > 0, altrimenti, con una valutazione delle mie capacità e competenze pari o minore a zero, cerco gratificazioni altrove, ripromettendomi di prendermi la rivincita dopo attenta e fantascientifica rivisitazione di tutte le materie universitarie (delle quali, nel frattempo, il mio cervello ha trattenuto solo una frazione piccola e, a quanto pare, inutile).

Ho usato l’esempio di ciò che (mi) accade durante la lettura di un articolo scientifico perché ritengo che si tratti della forma di attenzione più alta che un autore possa attendersi da un suo lettore: un’attenzione lenta, pesata, reiterata e critica nei due sensi: la si esercita nei confronti di ciò che si legge e nei confronti di chi legge.

Inoltre partire da questo genere di resoconti scientifici vuol dire iniziare il discorso andando direttamente alla fonte delle cosiddette fake news: notizie false e spesso tendenziose che diventano tali nei numerosi passaggi e filtraggi alle quali sono sottoposte le ricerche scientifiche non appena vengono comunicate e man mano che passano dal laboratorio ad alcuni tra radio, televisioni, giornali e riviste cartacee e on-line.

Supponendo che la lettura dell’articolo scientifico non abbia dato esiti così negativi, la mia comprensione di quel lavoro sarà “a macchia di leopardo”: una somma di informazioni abbastanza sconnesse, tenute insieme dalla bolla dalle pareti sottilissime dell’abstract e messe in relazione le une con le altre grazie a mie ricostruzioni del tessuto mancante tra le parti dell’articolo in cui mi sono invece dimostrato capace di decifrare il discorso.

La comprensione così raggiunta, se non completata con successivi ritorni e integrazioni dei dati che mi mancavano al momento della prima lettura, farà di me un vettore di informazioni frammentate, quindi non così attendibile se posto di fronte al compito di riferirle ad altri.

Quei “ponti” logici – come, del resto, la mia stessa comprensione, vera o presunta, dei passi dell’articolo che mi risultano più chiari – rifletteranno miei modi di ricucire gli strappi, modi che prevedono l’uso di “fili e spilli” appartenenti a un mio baule di “pezze d’appoggio” che potrebbero avere un’origine e un carattere solo in parte scientifico.

Qualcosa che potrebbe anche risultare interessante, affacinante, illuminante, ma che molto probabilmente avrà l’effetto indesiderabile di generere rumore.

Se, nonostante tutto, deciderò di comunicare ciò che penso di aver capito, la mia propagazione delle informazioni che ho realmente compreso o solo nebulosamente intuito sarà quindi affetta dalla inevitabile e subdola presenza di questo rumore che io stesso ho introdotto nella mia comunicazione.

Nel gioco continuo delle trasmissioni, delle ricezioni e delle nuove trasmissioni a opera di individui che prima costituivano il mio pubblico, la mia trasmissione originale potrebbe quindi, in ultima analisi, risultare essere una emissione del solo rumore.

Infatti, in presenza di persone-recettori che si dimostrano, per loro attitudini personali, sensibili esclusivamente alle frequenze spurie che più o meno consapevolmente un emettitore come me produce, a loro volta, privi come saranno dell’informazione vera e/o della capacità di comprenderla, propagheranno e amplificheranno il rumore puro. Dopo vari step esso potrebbe arrivare ad assumere addirittura il ruolo di vero messaggio.

Fin qui nulla di nuovo.

Il processo ci è noto e assomiglia fin troppo al gioco del “passa-parola” col quale tutti da bambini ci siamo trastullati almeno una volta.

Il riconoscimento di pattern visivi, acustici, verbali, … dipende dall’antenna emittente che seleziona il messaggio e la modalità della sua trasmissione, ma è normale che la sua ricezione da parte di altre antenne umane risentirà di bias analoghi legati alla loro “impedenza”, alla loro capacità di riprodurre il concetto o alla loro capacità di empatia – qualcosa che pretendiamo essere una caratteristica generale di un individuo, ma il cui valore poi si scopre essere funzione anche di chi si ha di fronte.

Questo comporta che sentendo un discorso in autobus, guardando un cartellone pubblicitario, leggendo un articolo – tutti messaggi creati da qualcuno affetto da suoi bias personali stimolati, anche loro, da chissà chi o cosa – il nostro cervello coglierà sì l’”embedding” generale (l’abstract), ma selezionerà alcuni particolari con i quali risuoniamo più facilmente.

Col tempo, che ci piaccia o no, potrà capitare che quel particolare diventerà ogni giorno di più il sunto, il vero significato di quello che all’origine era un messaggio più complesso e articolato.

Se oggi questi concetti non costituiscono una novità, lo erano invece negli anni Cinquanta allorché, a causa della crescita della complessità delle linee telefoniche, ci si pose per la prima volta il problema di compiere una analisi quantitativa della propagazione dell’informazione.

Possiamo rivedere il filmino della nascita di queste domande rileggendo il seguente passo tratto dal libro del 1950 Introduzione alla cibernetica di Norbert Wiener1:

Con l’introduzione dei sistemi delle correnti vettrici, le linee telefoniche sono state impiegate nella trasmissione dei dispacci con un rendimento sempre più alto. È sorto così il problema della quantità di informazioni che può essere inviata attraverso una linea, e, collegato con esso, il problema della misura delloinformazione in generale. Entrambi questi problemi sono diventati più pressanti allorché si è scoperto che la presenza stessa di correnti elettriche su una linea determina quelli che si chiamano disturbi di linea, che confondono i messaggi e ontroducono un limite massimo alla loro capacità di trasmettere informazioni. I primi controbuti alla teoria dell’informazione furno informati dal fatto che essi gnroavano i livelli di disturbo e tuttle le altre qualntità di natura accidentale. Solo quando l’idea della casualità fu perfettamente compresa, e fu quindi possibile applicare i connessi concetti di probabilità, il problema della capacità di trasmissione delle linee telegrafiche e telefoniche poté esere formultao rigorosamente. Fu chiaro allora che il problema della misura della quantitè di informazione s’identificava con il problema connesso della regolarità o della irrefgolarità di un modello. (…) È stato provato che il concetto di informazione è soggetto a una legge analoga, e cioè che un messaggio, nel corso della trasmissione, può perdere spontaneamente il suo ordine, ma non può mai acquistarlo. Per esempio, se in una converssazione telefonica si parla mentre interferiscono fortiu disturbi di linea, così da causare una considerevole perdita di energia nel messaggio principale, la persona che riceve all’altro apparecchio può non intendere alcune delle parole che sono state detto e dovrà quindi ricostruirle sulla base del significato del contesto. Così pure nella trduzione di un libro da una lingua a un’altra non si puà rendere l’esatto significato dell’originale perché fra le due lingue non esiste una precisa equivalenza.

 Wiener poi prosegue e nel passo successivo il suo discorso prende la forma proprio di ciò che sto tentando di raccontare in questo articolo:

 Un’applicazione interessante del concetto di quantità di informazione si può trovare nei complessi dispacci telegrafici trasmessi in occasione del Natale o dei compleanni o in altre circostanze particolari. In questi casi il testo del messaggio può essere anche di una intera pagina, ma ciò che è trasmesso è semplicemente la cifra di un codice, come ad esempio C7, che significa il settimo dispaccio convenzionale da inviarsi in occasione dei compleanni. Questi messaggi speciali sono possibili appunto perché i sentimenti espressi sono meramente generici e convenzionali. Se il mittente volesse manifestare una certa originalità di sentimenti, non potrebbe più usufruire delle tariffe ridotte. Il significato del dispaccio a tariffa ridotta è sproporzionatamente piccolo rispetto alla lunghezza del testo. Ancora una volta, quindi, osserviamo che il messaggio è un modello trasmesso che acquista il suo significato per il fatto di esere stato scelto tra un gran numero di possibili modelli. La quantità di significato può essere misurata. Può darsi infatti che quanto meno un messaggio è probabile, tanto più esso comunichi un significato perfettamente ragionevole dal punto di vista del nostro senso comune.

 Mutatis mutandis, dovremmo quindi dire che “quanto più un messaggio è probabile come può essere una comunicazione scientifica, quindi precisa, scritta dallo scienziato A per il collega B e fatta recapitare a lui e solo a lui, tanto meno esso comunica un significato perfettamente ragionevole dal punto di vista del nostro senso comune”.

Tutto questo panegirico mi serve solo ad arrivare al seguente concetto: molto probabilmente quelle che indichiamo come fake news altro non sono che rumore spesso non voluto, ma inevitabilmente generato dall’intersecarsi caotico dei numerosissimi circuiti sociali che veicolano tutte le variazioni rumorose e meno desiderabili, quindi meno prevedibili, di un messaggio iniziale che viene continuamente tradotto e cristallizzato in memi più facilmente riconoscibili.

Se vogliamo, una fake new è la diva delle notizie e, come a tutte le vere dive, non sempre le si chiede di essere brava, colta, corretta. Basta che sia pop, quindi bella e carismatica.

Con questo non voglio certo scagionare quanti cavalcano consapevolmente e per fini propri e non condivisibili, la comoda propagabilità di notizie false. Essendo una diva, attorno a lei ruoteranno sempre interessi di qualche tipo.

Mi affascina tantissimo l’idea di chi in prima approssimazione associa la società a un sistema fisico che, vista così, risponde agli stimoli esterni con modi vibrazionali propri: essa assorbe in modo molto naturale parti dell’informazione – quelle che incontrano i moltissimi “modi propri” della “massa” – e smorza alcune armoniche (nella metafora, parti fondamentali dell’informazione) che nell’urto con l’informazione dura, che andrebbe invece com-presa, vengono dissipate.

La massa quindi privilegia alcuni input che “risuonano” più facilmente in quanto più compatibili con la sua struttura sociale, con la sua elasticità, con la sua deformabilità e con i suoi “calori specifici”: tutte metafore rese possibili dalla grande quantità di accezioni e usi dei vocaboli della nostra lingua che, fluidissima, prende la forma dei contesti in cui viene usata.

A questo livello di approssimazione, credo che la società con tutte le sue parti, vista come sistema fisico interconnesso, non vada solo giudicata con metri etici, meritando anche una analisi “acustica” o basata sulla teoria dell’informazione, cosa che si fa con tutti i sistemi fisici complessi.

In un sistema fisico come un filo usato per trasmettere musica, alcuni parametri rivestono particolare importanza: la densità, la tensione, la già citata impedenza, …

Analoghi di questi parametri credo siano facilmente reperibili in un sistema sociale e lo sono ancora di più in un momento storico in cui tutti noi, vere e proprie antenne umane o sinapsi di un nous diffuso, siamo in connessione grazie ai vecchi media e soprattutto a una gran quantità di nuovi, potentissimi strumenti ogni giorno più efficaci.

La densità con la quale ci presentiamo al segnale esterno potrebbe essere di tipo culturale, quindi misurabile con vari strumenti forniti ad esempio dall’ISTAT, da OBSERVA e da altre agenzie e istituzioni che si occupano di fotografare la nostra nazione misurandone le varie dimensioni e calcolandone i valori dei parametri fondamentali.

Tali istituzioni si sforzano di osservare la realtà alla vecchia maniera, quindi usando statistiche del tutto differenti da quelle che invece stanno modellando da dentro la nostra società: mi riferisco ai meccanismi della rete che alimentano il problema dei big data.

Un problema che ho cercato di comprendere meglio leggendo Che cosa sognano gli algoritmi2, un libro interessante scritto dalla sociologa Dominique Cardon nel quale, tra le altre cose, si legge:

Al contrario del mondo naturale osservato dalla scienza, la società adatta il proprio comportamento alle informazioni statistiche che vengono fornite si di lei. L’ideale dell’oggettività strumentale delle scienze naturali è essenziale per fissare dei “fatti”. Esso infonde agli oggetti statistici la fiducia di cui hanno bisogno per inquadrare il dibattito pubblico. Tuttavia nella nostra società dei calcoli, è sempre più difficile misurare mantenedosi in una posizione esterna. I principali indicatori della statistica sociale sono accusati di non sapere rappresentare correttamente. Soggetti a sospetti metodologici e a presunte strumentalizzazioni, essi hanno perso credito. Negli anni Settanta, la sociologia aveva contribuito a produrre rappresentazioni di insieme delle categorie socioprofessionali, permettendo così di allestire un quadro della società e di far emergere delle inequaglianze nelle traiettorie della mobilità sociale o nell’accesso alla formazione scolastica o ai beni culturali. Le politiche neiliberai degli anni Ottanta hanno contribuito a far perdere autorevolezza a tali categorie, assegnando nuovi usi agli strumenti statistici: questi, ormai, più che a rappresentare la realtà, servono ad agire su di essa. (…) Le verità statistiche sono diventate strumentali: ciò che importa non è più il valore proprio della cifrà, bensì ‘evoluzione del valore misurato tra due registrazioni- “Non appena una misura diventa un obiettivo, essa cessa d’essere una buona misura”, sottolinea la famosa legge di Goodhart. Ma agli indicatori è stata assegnata anche un’altra finalità: trasformare in calcolatori gli attori stessi, inserendoli in un ambiente che detti loro i mezzi pe automisurarsi e allo stesso tempo lasci loro una certa autonomia. Mal connessi l’uno con l’altro, gli indicatori in gatteria conon costituiscono più un sistema. La competenza dei calcolatori soppianta l’autorità professionale. Il fatto che le misure siano false non è più considerato un problema.

 Queste considerazioni, una volta coniugate con il concetto di entropia e di sua propagazione, credo spieghino bene l’ineludibile esistenza e circolazione di fake news. Esse, similmente alle persone più o meno famose che le partoriscono o le amplificano, che siano essi influencer, youtuber oppure oscuri produttori di contenuti pagati o meno per farlo, nascono in modo spontaneo anche grazie all’intima struttura che abbiamo dato alla rete, la quale agisce cercando di

Impiantare un ciclo riflessivo che porti gli attori a sapersi osservati da un sistema metrico e a orientare le loro azioni secondo gli effetti che esse avranno sulla misura. Le misurazioni servono a fabbricare il futuro. (La realtà) non viene più misurata dall’esterno, bensì dall’interno. (…) Così diventa sempre più frequente che una misura di una attività sia presa per una misura del fenomeno sul quale si esercita tale attività: il numero delle denunce di donne che vengono pucchiate diventa il numero delle donne che vengono picchiate, i ricercatori più citati diventano i migliori, i licei che hanno i migliori risultati agli esami di maturità sono le scuole migliori ecc.

 Stando così le cose, non dovremmo sorprenderci della grande diffusione di notizie sbagliate, almeno di quelle scientifiche, dato che, proprio come spiegato nelle citazioni precedenti, anche la valutazione della qualità della ricerca è stata oramai affidata all’automisurazione del mondo scientifico compiuta mediante l’uso di parametri come l’impact factor o l’h-index3

Per quanti “clic” possa totalizzare un articolo scientifico, per quanti ricercatori possanno leggere un certo lavoro, la sua traduzione divulgativa irrimediabilmente affetta da rumore e messa in circolazione nei siti dei giornali a grande diffusione avrà un impatto di gran lunga più grande nel mondo esterno, rendendo il rumore che ha preso il posto della notizia decisamente più conosciuto, comprensibile, affascinante dello stesso concetto scientifico originale. Parimenti, il giornalista, o colui che millanta di esserlo, responsabile della diffusione della fake new, sarà considerato di gran lunga più autorevole e meritevole dell’ignoto scienziato, rimasto molto indietro, a monte del processo.

Il mondo scientifico mi sembra che stia cercando di organizzarsi per adattarsi a questi nuovi trend, anche se trovo che spesso lo faccia in modi discutibili e alquanto maldestri, rendendosi a sua volta responsabile della generazione di altre notizie false.

Mi riferisco, ad esempio, al tentativo di fare apparire che a compiere una scoperta sia stata una sola persona scelta nel gruppo seguendo alcune mode del momento storico o per presunte qualità estetiche che dovrebbero rendere la ricerca collettiva, il team, l’istituzione di appartenenza più sexy, più telegenica, più facilmente cliccabile dai fruitori generici.

Far collassare il lavoro di intere equipe, spesso numerosissime, sulla faccia e il nome di una o due persone penso sia anch’essa una imperdonabile fake new, stavolta prodotta dal mondo scientifico, che non credo porterà grandi vantaggi, generando piuttosto 1) false aspettative del pubblico, 2) false immagini della scienza moderna sempre più alla ricerca di eroine ed eroi che, col loro volto, facciano dimenticare come nel frattempo la ricerca, avendo perso quel carattere romantico riassumibile con l’idea del singolo scienziato seduto al suo tavolino, sia diventata big science e 3) grandi frustrazioni di tutti gli altri componenti i gruppi di lavoro che si vedono adombrati, ridotti a un cognome e una iniziale nell’intestazione dell’articolo scientifico che in pochissimi leggeranno.

Se per un attimo immaginiamo i due contenitori sociali, quello nel quale vi sono gli scienziati e quello che contiene il pubblico, separati da una porticina, ci siamo messi nelle condizioni di un famoso esperimento mentale. Un diavoletto pensa di poter cambiare le cose selezionando notizie, volti, nomi facendoli transitare da un serbatoio all’altro.

Tra l’altro, questa osmosi tra i due ambienti fa sì che, una volta chiusa la porticina giusto in tempo per far filtrare concetti dal mondo della ricerca all’altro impedendo il percorso opposto, rende il processo irreversibile. Non si può agire più di tanto su quanto avviene nel pubblico che, caotico, procede lungo le vie evolutive che gli sono proprie. Il ritorno sui concetti originari come quello che leggendo un articolo scientifico si compie per capire davvero cosa lì vi è scritto non è ammesso: la fonte dell’informazione è praticamente esclusa dal processo.

L‘unico modo è che essa filtri nel mondo di qua, nel mondo occupato dal pubblico, al seguito del suo prodotto, della sua scoperta, e nel farlo diventa pop. Inutile attendersi che qualcuno vada a stanarla nel mondo dietro la porticina: il diavoletto non lo consente.

Credo che alla fine scopriremo ancora una volta, e per via sociale, la validità del secondo principio: l’entropia globale aumenterà lo stesso e forse lo farà più velocemente del solito. In generale, facciamo divulgazione in modi che assomigliano ancora a quelli in voga quando le categorie sociali di cui parla la Cardon erano reali, statiche e non fluide, continuamente sottoposte, come oggi sono, a ridefinizione dei loro confini.

Il gioco di far passare le notizie scientifiche più capaci di altre di eccitare il pubblico da quella porticina fa aumentare il temperatura sociale: la gente si “accalora” per un tema e l’energia così si disperde in modo caotico e non recuperabile, mentre nell’ambiente di ricerca altri si deprimono e si “raffreddano” per il fatto che gli è stato negato di passare di là, rimanendo nel posto più freddo, meno osservato, più buio.

No, questo non credo sia un calo di entropia. Credo sia morte termica: calo di entusiasmi da una parte, ricerca dei riflettori e di finanziamenti dall’altra, generale diminuzione del livello del dibattito scientifico e sociale.

Infine, poi, se pensiamo che gli stessi specialisti di una certa disciplina sono fruitori generici delle discipline altrui, il quadro caotico credo sia completo.

Non credo ci sia al momento una soluzione.

Tutti noi speriamo che il pubblico premi il nostro sforzo divulgativo prendendo la decisione di approfondire ciò che raccontiamo, ma questo non potrà mai impedire la nascita di inevitabili misunderstandings che ci renderanno certi non tanto della crescita della consapevolezza di dove la scienza stia andando, ma solo della crescita esponenziale delle “eresie scientifiche” che in ogni istante vengono prodotte a causa dell’impossibilità di comunicare un concetto in una forma che rispetti la sua originale correttezza formale: per quanto le locuzioni da noi usate per tradurre dati e formule siano caute e asciutte, non avremo nessun controllo sulla loro traduzione istintiva operata all’altro capo del telefono.

So che di solito le fake news, oltre a molta rabbia, generano reazioni come quella di Barbujani il quale, in un accorato articolo sul Domenicale del Sole 24 Ore di ieri in cui parla del sul suo incontro da genetista con questo problema, scrive:

Su una cosa non ho dubbi: tutto questo non va bene. (…) Per poter leggere Proust bisogna cominciare con la grammatica. Ammetto che ho delle belle pretese: pretendo che i lettori, a letto o sul sofà, si concentrinio, diciamo, su come e perché si formano le ali dei moscerini.

Concordo del tutto con il genetista, ma forse, per ridurre (eliminare credo sia impossibile) il serpeggiare di teorie bislacche sul mondo, più che la scienza, dovremmo insegnare la filosofia della scienza e l’etica dell’agire scientifico, curando però di non coniugare entrambe con la paura della materie cosiddette “dure” (che poi è quello che a volte capita nelle scuole…), ma solo il rispetto e la cautela che certe discipline esigono.

Il pubblico generico – una categoria alla quale, in tutte le situazioni meno quelle poche che ci vedono esperti, tutti, nessun escluso, apparteniamo – non sarà mai capace di affrontare le real news di tutte le discipline apprendendole dagli innumerevoli articoli specialistici che di continuo vengono prodotti (si sa: bisogna pubblicare. Serve a far salire ricercatori e università nei rankig internazionali…).

La conversione, poi, di un linguaggio scientifico preciso, composto da pochi termini, numeri, formule, grafici, dati, … in un altro verboso o di sole immagini, un processo tipico di molta divulgazione (forse tutta), viene di solito paragonato all’operazione del tradurre. A tal proposito, cito di nuovo il Wiener quando afferma:

Così pure nella traduzione di un libro da una lingua a un’altra non si può rendere l’esatto significato dell’originale perché fra le due lingue non esiste una precisa equivalenza, In queste condizioni, il traduttore ha soltanto due soluzioni: o impiegare frasi che sono più generiche, più vaghe di quelle dell’originale e che certamente non conservano tutto il significato emotivo del testo originale, oppure alterare l’originale introducendovi un messaggio che non è precisamente quello del testo e che possiede un significato diverso da quello che l’autore ha voluto attribuire al testo. In entrambi i casi, qualcosa dell’idea dell’autore è andata perduta.

Se nel testo precedente sostituiamo emotivo con scientifico, e calcoliamo la degradazione del messaggio iniziale ottenuta dopo n traduzioni compiute da parte di persone non informate dei fatti, probabilmente otterremo un risultato insperato: che la mole di notizie sbagliate con le quali ci troviamo ad avere a che fare è minore di quella con la quale potremmo trovarci a combattere.

Ma a questo punto sorge una domanda fondamentale, stimolata dalla lunga intervista pubblicata su Robinson di ieri e rilasciata a Enrico Franceschini da Ian Mc Ewan. Parlando del suo ultimo romanzo Macchine come me, l’autore racconta:

In testa al libro ho messo un’epigrafe di Kipling: gli uomini non sono fatti per distinguere la verità dalla menzogna. Ovvero non sempre capiscono se la persona che hanno di fronte racconta balle. Un robot potenzialmente sì. E questo potrebbe sembrare un progresso. Ma come sarebbero le relazioni umane se tutti sapessimo, tutto il tempo, cosa pensa la persona che abbiamo davanti? Credo che non resterebbe in piedi alcun matrimonio. (…) Il mio non è un elogio della menzogna. Ma ci sono menzogne che effettivamente si dicono a fin di bene. (…) E in assoluto non credo che un mondo perfetto, in cui sappiamo tutto, sarebbe più felice di quello attuale, in cui ci accontentiamo di cercare di capire, procedendo nel buio, fra sprazzi di luce

In conclusione, forse le fake news ci danno, più delle statistiche che sfruttano strani parametri e diversi indicatori, una misura in termini di temperatura di quanto la società sia ancora viva e risponda come può (ma almeno risponde…) ai pizzicotti e ai morsi che i beccamorti le infieriscono. Va a finire che per imanere umani, ci serve proprio non sapere fino in fondo la verità su nulla (in particolare, continuiamo a mentire, vi prego, sull’amore).

Quando Wiener nel 1950 scriveva:

La società può essere compresa soltanto attraverso lo studio dei messaggi e dei mezzi di comunicazione relativi ad essi; nello sviluppo futuro di questi messaggie mezzi di comunicazione, i messaggi fra l’uomo e le macchine, fra le macchine e l’uomo, e fra macchine e macchine sono destinati ad avere una parte sempre più importante.

ci invitava a guardare il fenomeno da una certa distanza, oggettivizzandolo, quindi oggettivizzando noi stessi (da notare che dimentica di parlare di messaggi tra persone e persone. Che avesse già intuito come saremmo finiti a usare sempre una interfaccia informatica per palrare con i nostri simili?)

Propongo una ulteriore, possibile lettura del fenomeno fake news: riempire il mondo e la rete di idee strampalate potrebbe finanche salvarci dal collasso previsto da molti i quali vedono nell’avvento di robot e dell’intelligenza artificiale la prossima fine dell’umanità.

In realtà, a differenza di quanto accade nei romanzi di fantascienza dove macchine e uomini vivono fianco a fianco, ma senza mescolarsi, stiamo insegnando alla rete e alle macchine ad assomigliarci in molti nostri aspetti, anche quelli più deteriori (vedi i ranking universitari truccati…).

Insomma, stiamo insegnando alle macchine quanto siamo furbi, quindi, inconsapevolmente, stiamo insegnando ai circuiti elettronici come fare i furbi dicendo, calcolando balle o verità parziali.

La rete è già alleata di molti che la manipolano e sta imparando, in ogni momento, i nostri piccoli trucchetti per sopravvivere.

 

SZ

 

1 – Wiener, Norbert, Introduzione alla Cibernetica – L’uso umano degli esser umani, Bollati Boringhieri, 2012

Un appunto di una certa importanza, almeno credo. Al fine di mettere alla prova la mia reale comprensione del testo che, in alcuni punti tra quelli citati, mi sembrava un po’ ambiguo, ho cercato in rete la versione in inglese. Trovatola, ho scoperto che molti capoverso del primo capitolo di quella versione originale non compaiono nella traduzione italiana e che, parimenti, alcune delle parti cui faccio riferimento trovate in quella italiana, non si trovano in quella inglese. Spero qualcuno sappia darmi lumi su questo strano problema di… traduzione (!)

https://www.bollatiboringhieri.it/libri/norbert-wiener-introduzione-alla-cibernetica-9788833923451/

2 – Cardon, Dominique, Che cosa sognano gli algoritmi – Le nostre vite al tempo dei big data, Mondadori, 2018

CHE COSA SOGNANO GLI ALGORITMI

3 – Suggerisco la lettura della recensione di Lorenzo Tomasin sul Sole 24 Ore di ieri agli interventi di Giuseppe de Nicolao pubblicati su roars.it.

-https://www.roars.it/online/vi-spiego-il-doping-delle-classifiche-degli-atenei-intervista-a-giuseppe-de-nicolao/

-https://www.roars.it/online/giuseppe-de-nicolao-le-politiche-della-ricerca-al-tempo-dei-rankings/

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IL MONDO CHE FANNO GLI ALTRI – il migliore tra quelli possibili?

Il pezzo di mondo che faccio io-LOWNell’ultimo articolo (Visioni di MoSKA) ho parlato dell’ambiente estremamente connesso degli istituti di ricerca. In esso, le informazioni corrono da un capo all’altro del mondo rimabalzando su monitor, telefoni, fax, articoli. Anche se non organizzato come facebook, Twitter, Linkedin, …, quello scientifico può per molti versi essere paragonato a un social network. E i social network sono l’argomento di oggi.

Credo fermamente nella loro utilità.

Al di là di considerazioni varie, mi sembra che essi valgano soprattutto come strumento di indagine, come “carotaggio sociale”, non tanto per capire come la gente è, ma per farsi un quadro abbastanza preciso di come la gente ami apparire (e, di conseguenza, in seconda battuta, di come davvero sia).

Aprire la home di facebook, per esempio, consente di osservare le correnti di pensiero, le mode, i trend che per periodi più o meno lunghi regnano incontrastati. Buona parte di essi sono simili a quelli che un tempo chiudevamo fuori dalla porta di casa, mentre oggi hanno libero accesso ai nostri ambienti fisici e mentali e ci inseguono fin nel tinello, in cucina, nell’alcova.

Quasi si tratti di scie chimiche, ne senti l’odore (o il puzzo) e non ti resta che seguirlo per arrivare a comprendere quale sia l’immagine di base, quella noumenica, quasi, alla quale chi posta ama essere associato. Se la trovi, sai che l’elemento di verità è lì e non nella persona che a quell’immagine si riferisce. Quella persona assume solo il ruolo di banale e inconsapevole vettore di un’immagine resa interessante per il nostro contesto culturale da chissà chi, chissà dove, chissà quando.

Si tratta di idee-vestiti, anzi, meglio, vestiti-idee, alle volte interessanti, spesso arroganti e alla moda, utili più che altro a nascondere nudità ridicole o senza particolari attributi.

In questo contesto al quale appartengo e nel quale temo (direi di esserne sicuro) di comportarmi allo stesso modo, ciò che mi sorprende è qualcosa di simile a quanto notavo nel mio articolo di qualche giorno fa parlando di ricerca scientifica: la quasi totale mancanza di idee vere e veramente nuove. No, non preoccupatevi: non intendo qui proporre un pistolotto sul valore della sincerità. Per quello, i social network vanno ancora benissimo.

Intendo dire che grazie alla loro frequentazione, mi è apparso in modo più chiaro di quanto non lo fosse nella vita reale ciò che registravo già da tempo senza dirmelo con chiarezza: viviamo tutti da utenti, senza altre specificazioni possibili.

Vado in palestra con la macchina. Per arrivare lì uso il GPS. In palestra mi servo di altre macchine che allenano i muscoli. Mi collego in rete dove, nei social network, riporterò quanto detto da altri, meglio se pensatori del passato. Forse linkerò dei video girati da chissà chi, roba trovata in rete, o la musica composta e suonata dal mio gruppo/artista preferito. Andrò a fare la spesa da TizioCaio, una catena di supermercati davvero conveniente. Tornato a casa, guarderò la partita giocata dalla mia squadra del cuore, composta da undici persone delle quali so tutto e che mi daranno poi la possibilità di parlare del match domani in ufficio, con i miei colleghi.

Mi viene in mente un brano di un cantautore poco conosciuto (http://it.wikipedia.org/wiki/Tullio_Ferro) in quanto agisce nell’ombra di grandi artisti (ritenuti sempre, automaticamente, autori di ciò che cantano) ai quali ha venduto molte delle sue creazioni. Con lui ho avuto l’opportunità di collaborare tanti anni fa e sono contento di essere tra i musicisti che suonano nel suo disco “Il giorno di un giorno” (Storie di Note, 1999). Il brano che ho ricordato si intitola: “Il mondo che fanno gli altri”, ed è proprio così: a fare il mondo sono le persone delle quali seguiamo le gesta in telvisione, in rete o sui giornali. Sono i politici, gli attori, i cantanti, gli ingegneri, gli artisti, gli scienziati, i programmatori, i pittori, gli stilisti, … ma non tutti i politici, gli attori, i cantanti, … Sono solo quelli che, assunti in uno strato sociale più libero, alto e quantisticamente lontano dal nostro, ci bombardano il cervello di continuo, senza dargli scampo, abituandolo a pensare che è giusto assumere il ruolo di spettatori, di consumatori, di popolo da intrattenere.

Questi alti demiurghi sembrano essere tantissimi, ma a ben vedere, sono solo un manipolo di personaggi davvero esiguo se confrontato con il gran numero di tutti coloro i quali vivono grazie alle vere azioni di quei pochi: ci danno occasione di parlare di loro e di quello che a loro accade, ci fanno arrabbiare, indignare; alcuni di loro vendono i dispositivi dei quali non sappiamo fare a meno; costruiscono con i loro soldi la realtà nella quale ci muoviamo. Ci regalano sogni preparandoci anche a delusioni moderne. Spesso da loro dipende la nostra felicità o, addirittura, la mancanza di essa.

La massa (da leggersi come tutti noi) agisce esclusivamente da volano per dare peso a concetti e azioni di questa moderna oligarchia. Noi costituiamo la forza meccanico-economica che regala un ulteriore giro di giostra quando da quella non ci arriva sufficiente spinta per farne uno. Forse è stato sempre così e sono stupido a registrarlo con un simil-candore così anacronistico. Che ci posso fare? Oggi va così.

Se ognuno di noi, invece che mediante tasse, contributi SIAE, canoni televisivi, … desse a questi super-demiurghi anche solo cinquanta centesimi scoprendosi nel mentre li cerca nelle proprie tasche e da lì li raccoglie, gli apparirebbe subito chiaro come mai quelli che fanno il mondo guadagnano le cifre che ci fanno scandalizzare tanto come nel caso dei 27 milioni di buona uscita di Montezemolo e i non so quanti milioni dei vari Balotelli. Il conto è banale: siamo circa 70 milioni. Già solo 50 centesimi al mese da ognuno di noi basterebbero a spiegare molte delle strane alchimie di cui veniamo a sapere dai giornali. E, come tutti sanno, il nostro esborso non è esattamente di soli 50 centesimi di euro al mese.

Per carità! Non fraintendetemi: ritengo anche io assurde quelle cifre. Tanto più assurde se si pensa che sono del tutto disinteressato alle sorti della Formula 1 e ancor più a quelle del calcio, italiano o internazionale che sia. Queste mie non vogliono essre altro che innocenti constatazioni di un deluso di sinistra e non di un nostalgico appartenente all’altra parte della barricata.

Ma torniamo pure ai sogni che ci regalano i personaggi di cui sappiamo tanto, troppo. La loro grande capacità è quella di donarci l’illusione di poter incidere come loro sull’aspetto del mondo che ci circonda. Ci riteniamo importanti se riusciamo ad assomgliare a certi modelli estetici, comportamentali, economici, … da loro introdotti nel nostro mondo attraverso spifferi aperti nelle nostre mail-box, nei giornali, nelle televisioni, nella rete. Modelli che la maggior parte di noi non avrebbe mai avuto la capacità di elaborare se qualcuno non l’avesse fatto per noi. A tal proposito, devo riconoscere a malincuore una certa perversa genialità nell’agire di tutti questi personaggi che, mi piaccia o meno, creano e ricreano di continuo l’aspetto del mondo in cui vivo.

Il popolo dei social network non sembra accorgersi veramente di tutto ciò. O perlomeno, se mostra di averlo appena fatto, si scopre come la sua apparente presa di coscienza derivi in realtà da un post che gli è piaciuto e che ha deciso di condividere, scritto da qualcuno nella sua estesa rete di contatti. Un tempo condividere voleva dire anche lottare per l’affermazione di un concetto, di un ideale. Oggi basta premere un pulsante senza rischiare alcunché della propria vita reale. E l’ideale, come oramai tante altre cose, totalmente svuotato di un suo genuino valore concettuale, altro non è se non una stringa di caratteri alfanumerici, scritta da qualcuno per motivi che solo lui conosce. Forse.

Le risposte al suo post costituiscono di sicuro la parte più bella: sono tutti con lui; si sono accorti tutti della stessa cosa; sono stati preceduti da lui di un soffio in quanto stavano pensando esattamente allo stesso problema; i Mi piace si sprecano, e così via, sbrodolando con questo tenore per un bel po’ di righe, traduzione moderna del fiato sprecato di un tempo.

Inutile dire, poi, che stessa sorte tocca a un post in totale controtendenza rispetto al precedente e che magari appare su quella medesima bacheca.

Anche l’indignazione, la denuncia, l’autoanalisi diventano una Coca-Cola da stappare e bere per poi immancabilmente ruttare in un commento la propria elaborazione. E, ancora una volta, la Coca-Cola l’avranno fatta altri. Forse anche questo post nasce da istanze simili, ma io non me ne accorgo. Ho l’illusione che a differenziarmi dagli altri sia purtroppo una certa persistenza del disagio che provo; un disagio che non si esaurirebbe una volta contati i numerosi mi piace che un post del genere potrebbe classicamente totalizzare. Ma forse mi sbaglio ancora una volta e non sono che un amplificatore di un malessere antico.

In ogni caso, non passa giorno che non mi chieda a cosa accidenti io serva e cosa di così importante sia successo nella giornata che progressivamente, col passare delle ore, mi lascio alle spalle. Immagino che tutto ciò faccia di me un ottimo cliente per orde di strizzacervelli. L’anomalia, se di anomalia davvero si tratta, è non essere sempre contenti delle innumerevoli e irrinunciabili opportunità di felicità che la modernità ci regala.

Siamo utenti, quindi, ma programmati culturalmente in modo tale da non porci con serietà e partecipazione profonda la domanda che credo fondamentale: ma io cosa faccio davvero? Quale è il mio contributo al mondo nel quale vivo?

So che in una società buonista e cattolica fino al midollo come la nostra, la prima pensata che in genere queste ultime due mie righe stimolano sia: “in effetti, dovrei essere più attento al mio prossimo, più pronto a fare del bene, più…”.

Temo che deluderò qualcuno: non me ne frega niente di concetti del genere. Una volta obbedito a regole condivise (la legge) atte a rendere la nostra esistenza qualcosa di affrontabile senza clava in mano, sono pacificato con l’idea di un prossimo da incontrare per strada. Non gli farò del male, né riterrò di dover porgere questa o l’altra guancia a chichessia. I rapporti umani sono importantissimi, ma non intendo amare tutti come hanno inutilmente tentato di insegnarmi. Mi costerebbe una fatica per la quale la Natura non sembra avermi programmato così bene.

Quando mi chiedo quale sia il mio contributo al mondo che abito, intendo quale pezzo di realtà sia riconducibile alla mia esistenza e solo a quella, al di là delle mie deiezioni, metaforiche e non, risultato delle abbuffate (metaforiche e non) a base di cibi… creati da altri.

Siamo utilizzatori finali di tutto, il più delle volte incapaci di porre rimedio a un problema che si può verificare in qualsiasi momento, in uno qualsiasi dei segmenti di realtà che frequentiamo; fra i circuiti e gli ingranaggi di uno qualsiasi degli strumenti che usiamo.

Siamo utenti che vivono questa propaggine storica provando la vertigine regalata dalla modernità, ma con una consapevolezza del meccanismo di tutto in netto ritardo rispetto al tempo che abitano e basterebbe un conflitto, una catastrofe, un “inciampo” di qualche tipo per denudare in tempi brevissimi questa nostra inadeguatezza. La vertigine della propaggine di inizio capoverso  andrebbe piuttosto vista come timore della voragine sulla quale ci affacciamo. Sarebbe più serio e sincero.

Inutile dire che aspirerei a essere uno che il mondo lo crea, anche se – lo giuro! – non lo disegnerei così. Immediatamente dopo aver scritto questa frase così pretenziosa, mi vien da chiedermi con sospetto: “chissà cosa diventerei se fossi davvero capace di cambiare le cose…”

Dal discorso appena fatto, conseguirebbe che dovremmo tutti tutelare, aiutare, preservare coloro i quali, assolutamente innocui, si dimostrano capaci di creare piccoli tasselli della nostra esistenza senza per questo renderci schiavi di alcunché. Fintanto che le loro entrate non siano spiegabili con i centesimi prelevati con un inganno da tutti i milioni di conti correnti delle persone che ci circondano, non credo ci sia nulla da temere. Personaggi che a già esistenti x e y, affianchino una z ottenuta da una somma creativa, positiva e non banale degli elementi precedenti, dimostrano di conoscere l’esistente e di poter davvero incidere sul reale arricchendolo con ciò che non esisteva prima.

Sembrerebbe ovvio che non tutti possano essere così innovativi, specie in un sistema educativo che esalta la ripetizione pedissequa senza premiare l’originalità. Sarei invece portato a credere – e qui si conclude la mia grossolana utopia di oggi – che chiunque, messo in condizione di essere creativo, se non addirittura costretto dagli eventi a dover essere creativo, possa essere un potenziale “accrescitore consapevole” di realtà, quindi potenziale creatore di altri prodotti che non siano solo ciò che resta dall’aver metabolizzato  prodotti e trovate altrui. Forse basterebbe smettere di suggere per ore alla tetta dei social network che distribuisce sempre latte artificiale a lunga conservazione del contenuto minimo di idee.

Poi tento di figurarmi la società ideale che ho descritto. L’immagine che mi arriva è quella di un popolo estremamente laborioso in cui ogni individuo costruisce giorno dopo giorno un piccolo tassello di realtà – l’unico sul quale sa agire – da condividere con gli altri. Zoommando sulle mani delle persone che popolano questa immagine, scopro che maneggiano gli oggetti del quotidiano, ma non solo quelli che sarei tentato di classificare tra i più “nobili” come libri, quadri, sculture, strumenti musicali e finanche teoremi, ma pure e soprattutto quelli che tengono insieme, puntellano la realtà quotidiana.

Quindi scopro tra  quelle mani chiavi inglesi per avvitare; bulloni da avvitare; posate usate per cucinare pietanze sempre uguali e sempre un po’ diverse; penne per stilare contratti che servono a far avanzare l’economia; attrezzi per coltivare; … ed ecco un sospetto farsi strada:

va a finire che – e non sono certo il primo a sospettarlo: vanto illustri predecessori – questo sia da considerare come il migliore dei mondi possibili, la migliore approssimazione alla società ideale, quella alla quale vorrei appartenere. A instillarmi questo dubbio atroce, ad alto contenuto ironico, è stato inaspettatamente un sogno a occhi aperti, quello descritto nelle righe qui sopra. Se le cose vanno così come vediamo, probabilmente è perché non possono andare altrimenti.

L’elevato numero di individui, un numero in continua crescita, si evolve come farebbero gli stati di una immane simulazione sulla quale, dato il run, non è possibile agire significativamente se non arrestando il processo. A noi quindi non resta che assistere allo spettacolo registrandone le fasi con attenzione così da azzardare previsioni su un futuro in minima parte deterministico, ma sempre in bilico sulla voragine caotica.

A questo punto, temo (mi fa schifo anche solo pensarlo, ma tant’è…) che i 27 milioni di euro dati a Montezemolo per abbandonare il team Ferrari siano necessari, e che lo rimangano almeno fintanto che il prezzo di un chilo di pomodori sarà di pochi euro mentre lo stipendio di un professore di liceo ne varrà poco più di mille.

“Il mondo che fanno gli altri” è estremamente complesso e interconnesso. In esso c’è bisogno di creatività alta, ma anche della mancanza di essa per privilegiare una ripetitività utile, fondamentale, necessaria. A questo punto, temo che la mia incapacità di vedere l’utilità sociale della grande coglionaggine alimentata dai nostri post in rete, sia paragonabile alla mia incapacità di accorgermi quanto sia utile all’equilibrio globale di questo mondo una zanzara che di notte mi sveglia pungedomi sotto la pianta del piede.

Dopo una corsa del genere all’inseguimento della mia contraddizione, mi scopro un Menenio Agrippa de noantri, prigioniero di un loop mentale che mi fa temere di assomigliare a un redento capolista del PD. Quasi quasi mi vien da dire “Viva Montezemolo che mi consente di incazzarmi pensando ai suoi 27 milioni di euro; viva me!, perso in una melassa di teorie in attesa della rivoluzione culturale (che verrà, amen) e, perché no?, viva le zanzare.

Imbarazzo.

Impasse.

Mi auguro soltanto che il mio impianto elettrico, quello idraulico, il forno, questo mio computer, non decidano mai di suicidarsi.

Non saprei proprio dove mettere mani in cose che hanno fatto altri.

SZ

 

Sottofondo:

John Zorn, Naked City

http://grooveshark.com/#!/album/Naked+City/358739