CRONACA VIRUS – Giorno 29

                                               PICCOLE E CHIUSE COSE

Cosa significa davvero “capire”?

È un problema inerente la pura comprensione di un periodo composto dalla somma sapiente dei significati dei singoli termini o è qualcosa di più elevato, qualcosa che va oltre il ristretto orizzonte linguistico?

Come al solito, il tutto è più della somma delle singole parti. A modo suo, lo dimostra la recente indagine OCSE-PISA sui risultati della quale tornerò prima o poi in queste cronache.

E lo dimosta anche il fatto di aver creduto, a suo tempo, di avere pienamente compreso il messaggio di Pascoli.

Oggi invece mi accorgo ancora una volta che la cifra del suo messaggio come anche quello di altri autori non poteva che essere l’integrale di decine e decine di sue esperienze che oggi, grazie all’età ma anche e soprattutto alla situazione che stiamo vivendo, mi sembra rivelare il suo vero significato, la sua parte extrasemantica.

Un discorso che di certo non si applica solo alla produzione del poeta romagnolo, anche se nel suo caso ho l’impressione che pur nelle sue note trovate pregrammaticali, abbia sempre e soltanto avuto intenzioni postgrammaticali (intendendo qui impropriamente quel termine come “intenzioni reali da rivelare molto, molto a posteriori”).

A farmi sentire il bisogno di ritornare sul luogo del delitto giovanile per tentare di comprendere cosa accidenti volesse davvero dire con quella sua famosa poetica delle piccole cose è proprio la sommatoria delle mie esperienze, condotta sul periodo pluridecennale, che come credo tutti i miei coetanei mi sento chiamato a calcolare. Inoltre vi è anche l’aggravante dell’anomala attenzione – stavolta ritengo sia cosa che riguardi tutti, coetanei e non – che sono costretto a dedicare alle mie azioni dalla limitatezza imposta ai miei spostamenti fisici,.

Allora, passando in rassegna gli eventi che mi hanno condotto qui e ora, guardando la mia vita di questi giorni come potrebbe fare un drone personale silenzioso e indiscreto che svolazza dalle parti del soffitto, capisco che molti dei suoi versi mi si confanno esattamente come a un adolescente si addicono quelli di una canzone che riassuma le senzazioni tipiche della sua età.

Ancora una volta scopri che valeva la pena arrivare fin qui per comprendere ciò che ti è capitato in altri momenti “non sospetti”: fai tuo adesso ciò che ti hanno fatto ascoltare forse un po’ troppo presto, pretendendo che già allora fosse per te importante. Dittelo pure: solo ora puoi avere la sensazione di apprezzare intimamente la differenza tra tutto e parti, tra territorio e mappa, tra leggere Pascoli o chiunque altro degli autori incontrati da ragazzo e, forse, comprenderli (più) a fondo.

Piccole cose.

Si diventa pascoliani nel ricordare meravigliosi spazi aperti, naturali, che proprio per questo possono però rappresentare la morte tanto evocata da quel poeta, quella che sappiamo annidarsi lì fuori attendendo una tua distrazione.

E lo si diventa anche privilegiando la frugalità dei pasti (altrimenti “inquarto”), la piccola ambizione di compiere ogni giorno quei gesti tra l’utile e il piacevole che costellano la giornata di un abitudinario. Piacevoli perché familiari, conosciuti, appaganti, tuoi.

E se pascoliano non lo eri, in qualche misura, forse senza accorgertene, lo diventi: il tuo sistema fisico, quello composto dalle tue particelle, a furia di muoversi sempre all’interno dello stesso ambiente a 3 + 1 dimensioni, trasforma pian piano quello spazio perlopiù euclideo in uno spazio delle fasi nel quale passa e ripassa dagli stessi punti, ritrovando lì gli stessi valori di almeno 6 delle tue coordinate e dei tuoi limitati gradi di libertà.

La tua casa, quasi fosse descrivibile come un universo-spugna composto da vuoti e pieni di materia barionica, diventa un invisibile sistema di vuoti e di pieni di densità di probabilità delle tue configurazioni.

Scopri così che la parola abitudine potrebbe per te essere definita dalla Crusca come “curva che descrive l’evoluzione della probabilità di trovarti seduto in cucina a mangiare o a letto a leggere, guardare la televisione; scrivere, a volte. In soggiorno, al tavolo, a scrivere, disegnare, suonare o sempre in soggiorno, sul tappeto a fare ginnastica. In bagno a prenderti cura del tuo animale domestico“.

Posizione e azione allora appaiono ciò che davvero sono: un sinolo inscindibile che forse di suo basterebbe a dare una risposta al quesito, ancora in attesa di una risposta univoca, circa cosa sia da considerarsi vivo e cosa no.

E se non si è o se proprio non si vuole essere pascoliani – un appellativo qui banalizzato, compresso, sunto improprio di abitudinario e di perso nella contemplazione della bellezza evocativa, apollinea, quasi, di piccoli gesti, di piccoli oggetti e pensieri – meglio far finta di decidere di diventarlo; se non lo si deciderà, si potrà rimanere delusi dallo scoprirsi più banali, meno fantasiosi e imprevedibili, meno figli dei fiori e più piccoli yuppie dell’azienda domestica di quanto si amava pensare di sé.

La mattina si legge e si scrive. Lo fai tenendo un orecchio alla radio e l’attenzione alla pagina piena o a quella da riempire. Se decidi di leggere e non ti sei già svegliato con le idee chiare, rimani un po’ sospeso, indeciso a quale musa votarti. Una attività che mangia la sua fetta di tempo.

Tra la scelta, la lettura e la scrittura, volano via due o tre ore e sei a ridosso dell’ora di pranzo. Un po’ di ginnastica, un pasto contenuto – non è mica sempre Sabato o Domenica! -, lavi i piatti e sono già le tre del pomeriggio. Al fine settimana, questo è il momento del film, della tavoletta di cioccolato e di un fondo di tazzina da caffé occupato dal tuo torbato preferito da sniffare, prima che da bere. E ti senti un Regolo, un piccolo re.

Intanto la radio continua a tenerti compagnia. A volte la ascolti attento; a volte ribolle in sottofondo mentre pensi ad altro e in questi casi sembra avere la sola funzione di simulare l’interno di un autobus, di una metro, di un bar per inscenare una situazione di normalità sociale.

Ogni tanto, come può capitare di sentire la confessione di una coppia alla fermata dell’autobus o i ragionamenti di due signore in fila al supermarket, capti una frase, un tono, una musica, interessanti e ti fermi. Smetti di scrivere, di suonare, di disegnare; mentre lavi i piatti, interrompi il rumoroso flusso d’acqua. Ascolti, soppesi, e riprendi la la tua corsetta.

Due-tre telefonate: a tua madre, a tuo figlio, a qualche amico/a; e un’ora almeno se ne va così.

In un ambiente piccolo come il mio, è bene che anche gli oggetti siano frugali come i pasti, altrimenti l’ambizione comodamente contenuta da uno molto ingombrante, ucciderebbe altre più contenute, nascoste dentro oggetti minimi che pure hanno diritto ad esistere in questa frazione di mondo.

Ad esempio, le mie armoniche, vere e proprie myricae musicali, di spazio ne chiedono davvero poco e spesso capita di non trovarle, nascoste da altre piccole ambizioni concretizzate in oggetti come libri, fogli, giornali o più prosaicamente investite da frane di vestiti buttati disordinatamente qui e là.

Nel caso del mio strumento preferito, l’ambizione è trovarvi dentro quanta più musica possibile. E se proprio lì non la si trova, si cerca di soffiarcela dentro a forza, violentando il loro spazio tridimensionale per farlo stavolta diventare uno spazio delle fRasi.

Così facendo, ci si gioca qualche altra ora, e non è male, anche se poi ti disperi per non poterle più riafferrare.

Scrivendo, suonando una piccola armonica, organizzando segni su una pagina, ti scopri a non fare altro che tentare di isolare pezzi di mondo nel tentativo di farti, a partire da essi, un’idea sintetica che lo riassuma; un’idea sintetica che ne sveli in negativo quella famosa differenza che manca e che sempre mancherà alla somma delle sue parti tengibili.

Scopri ad esempio, che pur appassionandoti l’avventura della Big Science col suo concertare gli sforzi di centinaia di persone verso uno stesso obiettivo conoscitivo (magari farne parte!), continui a immaginare l’attività di uno scienziato come lo sforzo romantico di una mente da sola di fronte alla Natura.

E allora sospetti che sia proprio questo che ti fa amare la scienza allo stesso modo in cui ami la letteratura, la pittura, la musica: pur essendo anche queste attività interpretabili come avventure collettive, sono più facilmente riconducibili all’impertinenza di un singolo che, ritto in piedi, non arretra e, anzi, urla contro la realtà: un enorme grizzly incazzato, sfidandola ad attaccare.

Ami le scommesse da piccoli, folli Achab che pur sapendo di non poter fare altra fine se non quella di venir risucchiati dall’abisso, sono comunque felici di aver anche solo scalfito la pellaccia spessa del leviatano lasciandogli una cicatrice, una piccola traccia del loro arpione spuntato.

Sulla scorta di simili pensieri, mi trovo a sperare che questa fase storica insegnerà a essere più prudenti nel chiudere le porte ai piccoli progetti scientifici, quelli ai quali basterebbe un’infima frazione del budget sempre prenotato da altri ipertrofici, che però  da casa non possono proprio proseguire.

In un rifugio, antiatomico o antivirus che sia, non puoi portarti una mandria da macellare o una campagna da coltivare. C’è spazio solo per loro comodi, piccoli riassunti: cibo in scatola.

In una emergenza come questa, non puoi lanciare sonde o far collidere particelle. Puoi solo fermarti a pensarle in maniera diversa, cercando nuove inquadrature; sintetizzandone il pensiero in nuovi versi scientifici ancora mai scritti: l’equazione di Dirac è stata scritta da lui solo. A casa sua.

Immagino le immense cattedrali della scienza al momento vuote di persone e mi intristisco, ma al contempo rivaluto la possibilità che qualcuno, nel tentativo puerile ed eroico di giocare a fare dio, possa ancora scoprire qualcosa dal tavolino del tinello, o con un piccolo telescopio sistemato sul suo balcone.

La stessa fame globalizzante, onnivora, spietata che muoveva ogni giorno masse enormi di persone in nome di una ineluttabile economia, rimandava una necessaria fermata per riprendere fiato. Una dinamica che attanagliava tutto, anche la ricerca, l’arte e l’intero spettro delle attività umane, comprese quelle che più si pretendeva fossero pure e lontane da logiche di profitto.

Una fame globalizzante che ha trasformato molti dei migliori scienziati in cupi strateghi, freddi politici, affamati amministratori del denaro pubblico che veniva elargito solo ai loro progetti più ambiziosi; solo a quelli che vestivano meglio di altri il tricolore per il gran galà della scienza.

Ora forse, privati per un po’ dei loro Monòpoli e monopòli, alcuni di loro scopriranno che quel gioco non era poi così necessario e affascinante. Me li voglio immaginare nel mentre – riaprendo un impolveratissimo manuale di Fisica del primo anno e scoprendo che quel tal grafico era davvero lì, in quella posizione che ricordavano e con quelle unità di misura segnate sugli assi – riscoprono perché da ragazzi hanno fatto quella scelta universitaria e non quella di iscriversi a Economia, Scienze Politiche o al Partito.

Piccoli pensieri, piccoli gesti, piccole oggetti che anche oggi tornano a farmi compagnia.

E, al passare delle ore, mi dico che Quasi-quasi cambio -modo, poetica e poeta.

Scopro, allora, che dopo aver scorazzato in un piccolo panorama di oggetti, attività e ambizioni, sempre quelli, sempre uguali, sempre qui, la giornata è pressoché finita.

Ed è subito sera.

SZ