Astronomia è guardarsi attorno

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Direi Astronomi-cecchini quelli che il 17 Ottobre scorso sono riusciti a mirare con uno strano fucile un punto in cielo molto particolare: quello che ospita il satellite GAIA.

Il fucile è in realtà il telescopio da un metro e mezzo di diametro posizionato a Loiano, sull’Appennino tra Bologna e Firenze. Un’arma strana che, piuttosto che sparare proiettili per colpire e poi catturare qualcosa o peggio, qualcuno, ne riceve di innocui e li fa propri senza ferire nessuno.

I proiettili ricevuti sono innocui fotoni nel visibile e i cecchini sono l’Astronomo Alberto Buzzoni, il Tecnologo Italo Foppiani e il Tecnico Roberto Gualandi, tutti in forze presso l’INAF-Osservatorio Astronomico di Bologna. Anche se magari non lo crediamo possibile, in barba a presbiopia e miopia, problemi che affliggono almeno due di loro, i tre hanno centrato nel campo del telescopio il satellite GAIA, un puntino nero tra le stelle posto a un milione e mezzo di chilometri da noi.

La preda catturata da Buzzoni & Co. è quindi un satellite che orbita attorno al punto lagrangiano L2, un punto che cambia posizione nello spazio mantenendosi però fermo rispetto al sistema Terra-Sole.

Visitati per la prima volta nel 1722 dalla fantasia matematica dell’italo-francese Joseph Louis de Lagrange, luoghi come L2 sono particolari soluzioni del classico problema dei tre corpi – soluzioni che identificano cinque punti di equilibrio del sistema fisico – nel caso  speciale in cui uno dei tre abbia una massa di molto minore rispetto a quella di ognuno degli altri due.

Punti-Lagrangiani

Se i tre corpi sono il  Sole (massa pari a circa dieci alla trentatré grammi), la Terra (massa dell’ordine di dieci alla 27 grammi) e un satellite delle dimensioni di GAIA (ha una massa di due per dieci alla sei grammi), allora rientriamo perfettamente nella situazione appena descritta. Uno di questi cinque punti di equilibrio, quello che si indica con L1, è situato tra il Sole e la Terra, lungo la congiungente i centri della stella e del pianeta. Lì vi abbiamo posto da tempo SOHO, un altro satellite che osserva stabilmente il nostro astro.

Sempre lungo la retta congiungente i centri di Sole e Terra vi sono altri due punti di equilibrio. L2 giace oltre l’orbita terrestre, mentre L3, rispetto al Sole, sta dalla parte opposta alla posizione del nostro pianeta.

L’aspetto davvero affascinante dell’esistenza dei punti lagrangiani come L2 è che porre lì un ferro da stiro, un’automobile, mia zia o il satellite GAIA, equivale ad aver creato un nuovo, minuscolo pianeta del Sistema Solare che, pur orbitando attorno al Sole descrivendo un giro più ampio di quello tracciato dalla Terra, mantiene lo stesso nostro periodo di rivoluzione.

In pratica, un anno su GAIA equivale a un anno sulla Terra e questo in barba alla terza legge di Keplero che per luoghi via via più distanti dal Sole, prevederebbe tempi di rivoluzione più lunghi.

Ma a quale scopo quel satellite è stato messo lì? Una cosa è certa: così lontano da noi, di sicuro non servirà ad aiutare le telecomunicazioni o a gestire la rete di GPS.

La ragione per sfruttare un punto del genere è che lì ci si trova sul limitare della sfera di influenza gravitazionale della Terra (sfera di Hill), laddove basterebbe uno starnuto per far finire mia zia nella “giurisdizione gravitazionale” esclusiva del Sole o in quella della Terra, interrompendo bruscamente questa magia di gestione cooperativa tra la nostra stella e il nostro pianeta.

Avere quindi la possibilità di sincronizzare il satellite con i nostri movimenti, ci rende molto più facile il compito di controllarlo a distanza e, soprattutto, di riceverne i dati che gli abbiamo chiesto di raccogliere.

Quali dati? Beh, è arrivato il momento di svelare l’arcano: GAIA è un telescopio progettato per catturare la luce proveniente dalle stelle del nostro vicinato così da registrarne vari parametri, in primis la posizione.

La sua esistenza testimonia uno sforzo antichissimo: quello di catalogare la realtà con l’obiettivo di farci un’idea quanto più precisa possibile di come essa sia fatta. Da quell’eremo spaziale, GAIA attuerà un censimento delle stelle della galassia. Un obiettivo titanico perseguito da un consorzio internazionale che vede anche la partecipazione italiana e, in particolare, del gruppo dell’INAF bolognese.

Il padellone da dieci metri visibile nelle immagini che trovate in rete non è uno specchio, bensì una protezione contro i raggi solari che disturberebbero le osservazioni. Detto in soldoni, il satellite ha un lato interamente illuminato dal Sole, mentre dall’altra è del tutto al buio. Dieci metri di diametro del suo sombrero servono a creare sul lato in ombra una notte fittizia, scura e fredda, o, se preferite, una fase costante del pianetino GAIA.

Il Sole è ancora capace di inviare tantissima luce in quella zona: a ben vedere, stiamo parlando di un punto nello spazio lontano solo un milione e mezzo di chilometri da noi che ne distiamo quasi centocinquanta dalla nostra stella. Il telescopio di GAIA, quello responsabile del censimento, è quindi posto sulla Dark Side of The Satellite.

Top-GunDue parole le merita anche il fucile-telescopio con il quale è stato possibile catturare l’immagine di GAIA tra le stelle. Considerando solo gli strumenti ottici presenti sul suolo nazionale, quello di Loiano usato per questa caccia grossa risulta essere al terzo posto per dimensioni. Viene dopo il telescopio Cherenkov – uno strumento un po’ particolare, che meriterebbe un articolo tutto per sé – da poco installato a Serra la Nave (CT) e forte di uno specchio con diametro di quattro metri, seguito da quello di Asiago (VI) da un metro e ottantadue centimetri di diametro.

Se invece di considerare solo quelli posti sullo stivale e isole nostrane, ci ricordiamo anche dei telescopi italiani residenti all’estero (dopo la fuga dei cervelli, la fuga degli specchi? Sì, fuga dall’incredibile e selvaggio inquinamento luminoso delle nostre città), quello di Loiano, dove per un anno e mezzo anche io ho lavorato come assistente notturno alle osservazioni, slitta in quarta posizione.

Prepotente, entra infatti in seconda il telescopio Galileo che, con i suoi tre metri e sessanta centimetri di diametro dello specchio principale, osserva dall’alto dell’isola La Palma, nelle Canarie.

Quindi, ricapitolando, il telescopio di Loiano ha spiato GAIA che a sua volta spia il cosmo.

Avere spiato GAIA significa che l’allegra compagnia bolognese ha centrato un oggetto di dieci metri di dimensione posto a un milione e mezzo di chilometri di distanza da noi, una posizione che fa assumere al satellite una magnitudine pari a 21, quindi debolissima.

Tutto questo è stato reso possibile grazie al sistema di Tracking Differenziale messo a punto dal gruppo bolognese di tecnologi al quale fa capo Foppiani, e alla perizia del tecnico Gualandi.

Per capire la reale valenza scientifica di un simile risultato, sbircio nella pagina web approntata da Buzzoni e scopro che:

“La rilevazione di Gaia segna un punto importante per il nostro telescopio, dal momento che le difficoltà incontrate da ESA nel calcolo della luminosità attesa per il satellite, (diverse magnitudini più debole del previsto, una volta operativo in orbita), si sono dimostrate critiche per il contributo della rete di telescopi ottici a Terra alle operazioni di “station keeping” della nave. Questa “marcia in più” apre la via anche a tutti quei nuovi progetti osservativi (“di nicchia” ma potenzialmente molto competitivi) che riguardano lo studio (soprattutto spettroscopico e polarimetrico) dei NEO e dei PHO (“Potentially Hazardous Objects”, asteroidi e comete in flyby ravvicinato alla Terra). Sarà inoltre possibile utilizzare il telescopio per operazioni di validazione orbitale di satelliti artificiali (commerciali e scientifici) in orbita HEO e GEO terrestre e di caratterizzazione orbitale dei pericolosi “detriti spaziali” (space debris). Potrebbe attendersi, infine, un contributo competitivo del telescopio Cassini anche per il tracking delle future missioni di sonde in orbita perilunare e come supporto ottico al tracking delle manovre di gravity assist (entro circa 5 Milioni di km dalla Terra) delle prossime di missioni interplanetarie a Marte e oltre”.

E fa un po’ pensare il sapere che la big science, quella dei grandi progetti internazionali come GAIA e figlia di un nuovo sentire gigantico che impone gesti estremi come scagliare un telescopio a un milione e mezzo di chilometri da noi, offra occasioni per emozionarsi romanticamente. Lo fa con i mezzi tipici della little science, quella di un piccolo telescopio di classe due metri, posizionato sulla dorsale appenninica.

Da una parte vi è una moltitudine di persone che lavora a un immane progetto, quasi fosse il corrispettivo umano di un immenso corallo. Ognuna di loro è responsabile di una piccola frazione del progetto globale e ognuna di loro è intenta a lavorare vivendo in luoghi diversi del globo. I singoli ricercatori sono solo parzialmente a conoscenza di ciò che gli altri stanno facendo, ma sono comunque accomunati dalla visione scientifica di insieme e dall’emozione di far parte di una grande avventura umana e culturale.

Dall’altra vi sono tre persone che si conoscono da anni e che decidono di condividere una emozionante nottata di osservazione nella control room di un osservatorio. Diverse moka di caffè, probabilmente alcune pizze margherita, da asporto, e tante speranze individuali e collettive da raccontare l’indomani ad amici e comunità scientifica.

Da una parte, compiacimento wagneriano; dall’altro, composta gioia pascoliana.

Una nuova danza estremamente affascinante si svolge davanti ai nostri occhi, tra spinte necessarie e passioni vissute alla vecchia maniera. Mi sembra vengano reiterare dinamiche di più di un secolo fa e, a ballare questa danza, sono ancora romanticismo, positivismo, e una certa critica reciproca, biunivoca, a tratti decadente, che serpeggia tra due fazioni del mondo della ricerca.

Buzzoni, un astronomo molto sui generis (da giovane correva i 100 metri ed era un valente  pianista jazz…), intervistato, descrive così la sua gioia per il risultato ottenuto:

Da una vita me ne sto col naso all’in su a guardare le galassie lontane e le “astronavi” vicine e forse è a questo che devo la mia cervicale… Stavolta ho visto la preda direttamente nel suo nido, in cima all’Everest celeste.

Insomma, quando ci impegniamo, qui sulla Terra scopriamo di essere eredi dell’arte del celeste Orione, ma anche di aver fatto compiere una notevole evoluzione al concetto stesso di “caccia”. Diciamocelo pure, e con un certo vanto: i nostri fucili astronomici sono oramai le armi più precise in assoluto. Oltre tutto, sono le armi dalla gittata più lunga: esse sparano più lontano di quelli di qualsiasi altro cacciatore che imbracci una doppietta.

Mi correggo: i nostri fucili telescopici si fanno sparare da sempre più lontano, andando a catturare immagini della realtà che ci circonda anche laddove pochi sospettano che vi possa essere qualcosa a sparare fotoni.

Apprezzerei molto che il cacciare fosse sempre e solo questo, ovvero un’attività che non preveda più inutile spargimento di sangue per assumere definitivamente il significato di catturare immagini del mondo che ci circonda per meglio capirlo e classificarlo. Bello è sapere che già da tempo qualcuno vi si dedica – si pensi, ad esempio, agli amanti del bird-watching e di fotografia naturalistica in generale – e che per gli astronomi è sempre stato così, e così continuerà sempre a essere. Amen.

Per sapere come è fatto il mondo, bisogna girarlo. Sapendo però che il mondo gira anche senza il nostro aiuto, a noi non rimane da fare altro che guardarci bene attorno.

Ecco, se vogliamo, l’astronomia è proprio questo: guardarsi attorno, in un “attorno” sempre più ampio.

L’orizzonte di alcuni è dato da una beccaccia in volo. Uno scenario limitato nello spazio e nel tempo, che finisce con un “bang”.

Quello dei nostri amici bolognesi il 17 Ottobre passava da L2.

Loro, ma anche altri colleghi, di solito osservano molto, molto più lontano di L2, trovando un orizzonte finito, iniziato con un big bang e in continua espansione.

Chissà, un giorno magari beccheremo anche beccacce aliene e scopriremo che da qui sarà difficile colpirle in quanto protette dalla legge.

Si tratta di una legge fisica.

E, ve lo garantisco, a essa niente e nessuno sfugge.

SZ 

 

Sottofondo: ovviamente The Dark Side of the Moon, dei Pink Floyd

http://grooveshark.com/#!/album/The+Dark+Side+Of+The+Moon/9730519

 

Per saperne di più, consiglio i seguenti link:

Ma quant’è bella Gaia dai colli bolognesi

http://www.bo.astro.it/~eps/buz11401/Gaia.html

http://it.wikipedia.org/wiki/Cherenkov_Telescope_Array

http://it.wikipedia.org/wiki/Punti_di_Lagrange

 

 

 

 

 

How Deep Is Your World?

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L’idea alla base di questa breve storia è di pochi giorni fa, ma credo si tratti solo dell’emersione di un pensiero finalmente compiuto che si è affacciato a puntate nella mia testa.

Un pensiero composto da vari tasselli che voglio svelare solo ora, approfittando del fatto che oramai avete già letto la storia.

L’immagine del cielo catturata da una macchina fotografica dopo una posa lunga un’intera nottata, restituisce un’aspetto inusuale delle stelle: a causa della rotazione terrestre attorno al suo asse, la loro luce va a impressionare il CCD disegnando piuttosto che punti, cerchi  luminosi centrati sul polo celeste.

L’accostamento tra l’aspetto inusuale di un cielo così pieno di anelli concentrici, il propagarsi nell’aria di onde acustiche grazie alle quali misuriamo la profondità di un pozzo oscuro quando, lasciatovi cadere dentro un sasso, contiamo i secondi che impiega a raggiungere il fondo e infine la propagazione di cerchi nell’acqua in seguito alla caduta in essa di un oggetto qualsiasi, sono gli elementi alla base dell’idea di questo fumetto.

In aggiunta a questi, uno ulteriore: la consapevolezza che spesso la Natura si dimostra frattale, quasi si sia accorta che le convenga replicare a scale diverse qualche meccanismo particolarmente efficace per ottenere il meglio da sé col minimo sforzo.

Ecco che i cerchi nell’acqua e la propagazione delle onde acustiche nel pozzo nero per antonomasia, quello cosmico, mi hanno stimolato l’accostamento con altri cerchi: quelli che si trovano all’interno di un tronco d’albero. Da essi risaliamo facilmente all’età della pianta, un procedimento che va sotto il nome di dendrocronologia.

Lanciato-low simmetrico

Sappiamo che l’ecoscandaglio non è esattamente lo strumento migliore per misurare la profondità del cosmo. Non è possibile lanciare alcunché così da fargli incontrare il limite estremo del nostro universo e, in ogni caso, quand’anche fossimo capaci di farlo, non vi sarebbe nulla, aria, acqua o altro mezzo propagatore, a trasmetterci il rumore dell’impatto (impatto? Col fondo dell’universo? Un giorno proverò a immaginarlo).

In effetti, una eco nel cosmo c’é, ma non è certo quella di un impatto, bensì quella di un’esplosione; un’esplosione muta. Trattasi di una eco termica, la cosiddetta radiazione cosmica di fondo, protagonista di un’altra storia che prima o poi forse racconterò (in parte l’ho già fatto. Si veda Addomesticare il Cosmo del 6/5/13).

Quella di una musica cosmica (o din rumore cosmico) che può rivelarci la grandezza del contenitore universale è un’idea antichissima che si è fatta strada fino ad arrivare finanche ai giorni nostri. Ne ho parlato tanto in alcuni articoli e conferenze, ma soprattutto nel libro Pianeti tra le note pubblicato dalla Springer. La storia a fumetti che ho pubblicato qui sopra – badate bene! – è solo una metafora grafica di quell’idea così affascinante.

Spero che troviate questa metafora comprensibile. Ho provato a facilitarvi le cose ponendo  quelle cifre che trovate vicino a ognuno dei 13 cerchi visibili nel cielo di Squid Zoup. Si tratta di diverse età del nostro universo che vanno dalla sua infanzia, ovvero da quando aveva solo 0,02 miliardi di anni (Giga years, Gy), agli attuali 13,82, cifra che ho posto a sinistra del cerchio più ampio, il tredicesimo.

Squid-lancia-low

13,8 miliardi di anni sembra proprio essere il tempo trascorso dall’inizio del cosmo fino a oggi. Un tempo lunghissimo che è stato misurato non certo tagliando un albero o lanciando pietre verso il fondo del cielo. In quella direzione lanciamo solo sguardi attenti e curiosi, in attesa di essere raggiunti da fotoni chiacchieroni e portatori di segreti di sicuro più interessanti di quelli contenuti negli archivi di Andreotti.

Un’ulteriore metafora rinvenibile nel fumetto è quella offerta dall’apertura progressiva delle linee divisorie poste tra le vignette della seconda e terza pagina. Nelle prime, vi è una curvatura maggiore, poi pian piano esse vanno diventando più rettilinee. Con questa rappresentazione, ho voluto provare a dare l’idea dell’espansione cosmica iniziata col Big Bang ancora in corso: in questo scenario cosmologico, sappiamo che l’universo si è espanso da dimensioni iniziali microscopiche fino a raggiungere quelle attuali dopo una storia meravigliosa durata ben 13,8 miliardi di anni.

Per la cronaca, nonostante la veneranda età, il nostro cosmo non manifesta nessuna voglia di frenare la sua espansione. Anche ora, mentre state leggendo queste parole, sta lievitando e, addirittura, pare stia pure accelerando.

Allacciate le cinture

SZ

Lanciato2-low

P.S.: ringrazio l’amico Giuseppe (Pippo) Vaccaro (http://www.hortusgiardini.it) il quale mi ha fornito altro cibo per analogie interessanti e che vanno ad accrescere la probabilità di avere altre idee in futuro.

Mi ha infatti segnalato l’opera di uno scultore che delle pietre, della musica e delle connessioni tra questi elementi e il cosmo ha fatto la sua ragione di vita artistica. Trattasi di Pinuccio Sciola

 

Sottofondo: Sarei tentato di scrivere How deep is your love (e alla fine l’ho scritto…), un notissimo brano dei Bee Gees che mi ricorda la mia infanzia e di cui ho chiaramente parafrasato il titolo.

Invece vi suggerirei di ascoltare il bellissimo suono delle pietre di Sciola nei tre video seguenti:

 

Vedute di MoS.K.A.

Lobi-globo

Avrei voluto scrivere queste righe già a fine Giugno.

Poi, non so perché, mi sono ritrovato a procrastinare. Forse l’ho fatto per far sedimentare quelle che all’inizio erano solo sensazioni forti.

É probabile quindi che io abbia ritardato questo momento nell’intento di far diventare una matassa di sensazioni, qualcosa di più facilmente modellabile, scalfibile tramite le parole, quasi si trattasse di un progetto di scultura piuttosto che di scrittura.

Ora mi sa che è giunto il momento di dare forma ai pensieri, ed eccomi qui seduto a provare a scheggiare la matassa con le prime parole-scalpello.

Era il 7 Giugno e, da poco arrivato a Catania per riprendere il lavoro al fianco di Giuseppe Cutispoto, responsabile delle attività divulgative dell’OACT, sono stato gentilmente invitato da Grazia Umana, direttrice dell’istituto, a partecipare come semplice osservatore ai lavori del congresso SKA (Square Kilometer Array) che si sarebbe svolto a Giardini Naxos dal 9 al 13/6.

Non mi sono certo fatto pregare e così ho iniziato a fare su e giù tra Catania e Giardini in compagnia di colleghi con i quali non ci vedevamo da un anno, cogliendo l’occasione per fare simpatiche chiacchierate su varie ed eventuali.

Intanto mi sembra doveroso dire in due parole cosa si intende per Square Kilometer Array.

Si tratta di un network di radiotelescopi posizionati parte in sud Africa, parte in Australia, che complessivamente andranno a disegnare sulla superficie terrestre una macchia estesa più o meno un chilometro quadrato.

Questi radiotelescopi lavoreranno in un range abbastanza ampio di frequenze e, grazie al posizionamento nei due continenti (distanza tra la stazione africana e quella australiana di circa 3000 chilometri) e alla grande superficie di raccolta della radiazione, raggiungeranno interferometricamente una precisione cinquanta volte superiore a quella degli odierni radiotelescopi.

Una rapida occhiata al programma del congresso (http://astronomers.skatelescope.org/documents/aaska14-presentations/), fa capire bene come si sia trattata di una lunga e interessante dichiarazione di intenti scientifici ad ampissimo raggio nell’attesa del varo ufficiale del progetto che partirà nel 2018.

La prima giornata è stata interamente dedicata alla cosmologia e a chiusura lavori risultavo essere del tutto intossicato dal concetto di reionizzazione che ho assaggiato in tutte le salse. Ho visto lo stesso grafico in almeno una decina di talk, ho seguito gli interventi di speaker decisi a usare SKA per studi cosmologici che differivano di un epsilon gli uni dagli altri e – cosa che trovo sia da evitare quando mi esibisco su un palco (credo che un palco sia sempre un palco e che un pubblico sia sempre un pubblico, anche se si parla di cosmologia) – la consapevolezza della sovrapposizione a volte parziale, a volte notevole, tra l’argomento del proprio talk e quello di chi precedeva/seguiva, non sembrava generare alcun imbarazzo in loro.

Anzi, cosa strana, sembrava proprio che a una maggiore sovrapposizione tra argomenti e modi espressivi, corrispondesse una maggiore soddisfazione di relatore e astanti. Si sa, repetita iuvant, specie in una fase preliminare alla partenza. Le ripetizioni servono a regolare bene tutti i parametri in vista dell’inizio così da essere sicuri che non vi siano (troppe) sorprese dell’ultim’ora. Questo implicitamente significa che cose analoghe avvengono anche in altri meeting e che quindi non ci sia stato niente di così grave e sconvolgente (ma neanche eccitante) in quel primo giorno di congresso.

Al di là di questa necessità oserei dire logistica di ripetere il già noto, non ho potuto fare a meno di notare ciò che già in molti hanno denunciato: a dispetto dei passi da gigante compiuti da un punto di vista tecnologico, quindi sperimentale, siamo fermi a concetti teorici vecchi di cento anni e, pur sapendo alla perfezione tutto ciò che c’è da sapere in un certo ambito (questo valeva per i relatori e molti convenuti, non certo per me, purtroppo), non riusciamo a sbloccarci da un impasse lungo un secolo.

Forse il problema è proprio dato dal fatto che tutti coloro i quali devono sapere certe cose, le sanno benissimo, anche se le sanno allo stesso modo, le dicono allo stesso modo, le progettano allo stesso modo.

Fatto sta che ci ritroviamo tutti ad affollare il margine estremo della ricerca (quella detta “di punta”) in attesa che siano gli strumenti a darci il LA per poter azzardare un timido passo in avanti.

Il balzo più recente che abbiamo compiuto – parlo della scoperta del bosone di Higgs – appoggiava su quella che forse è stata l’ultima teoria davvero interessante da un punto di vista di una certa fantasia scientifica, quella che consente di farsi un’idea di come stanno le cose in netto anticipo sulla creazione della tecnologia che potrebbe avvalorarla.

Prima di essere una scoperta, il suddetto bosone è stato una pura idea e questo lo rende interessante quanto le onde gravitazionali, il multiverso, le stringhe e pochi altri concetti che sono emersi da una certa capacità di guardare la Natura con occhi disintossicati dai trend, ovvero da ciò che viene pedissequamente fatto in tutti gli istituti di ricerca.

In questo periodo storico, le idee su come potenziare la tecnologia in nostro possesso si sprecano e sembra quasi che gli strumenti siano gli unici a poter indirizzare la comunità scientifica verso nuovi orizzonti della fisica.

La fantasia, perché di fantasia si tratta, di grandi visionari del passato non trova più posto nei congressi, nelle pubblicazioni, nei libri.

Nessuno si sbilancia a dire qualcosa di nuovo, ad azzardare nuovissime idee sconvolgenti, forse perché nuove idee non ve ne sono; forse perché si sta tutti attenti a che il vicino, se ne ha, non le esponga, stando pronti a tacciarlo di antiscientificità qualora decidesse di arrischiare un nuovo punto di vista. O forse il motivo per l’assenza di nuovissime idee (parlo di quelle capaci di sconvolgere un paradigma. Ovvio che piccole, nuove idee vengono proposte ogni giorno) è da ricercare nella constatazione che elaborarne vuol dire correre il rischio che esse non vengano considerate, riprese, approfondite da altri. Tutto ciò inciderebbe negativamente sull’impact factor, un parametro sociologico strettamente connesso alla piccola frazione di finanziamenti dedicati alla ricerca e che per questo tiene in ostaggio la comunità scientifica.

La paura.

Il terrore di dire la cosa sbagliata. Il timore di essere additati come stupidi, ignoranti, incapaci. Questa paura ha agito sulla mente di noi “uomini di scienza” per tutti gli anni della formazione universitaria. Di sicuro è cosa in parte sana, ma credo che non ci siano stati forniti sufficienti antidoti per vincerla a partire da un certo momento in poi e sono pochi coloro i quali riescono a emanciparsene così da andare al di là di essa. Gli stessi lavori di tesi sono sempre frutto di idee altrui, da potenziare, verificare, estendere così da non dover temere di incorrere in un giudizio negativo; così da non finire in un perpetuo indice dei casi risibili; così da non rischiare di finire in un eterno registro delle barzellette accademiche.

Ma quando si era studenti, nessuno ci chiedeva cosa pensavamo davvero; mai nessuno ci invitava a “giocare” con il linguaggio fisico-matematico imparato sui banchi universitari.

Il risultato è che oramai la scienza appare spesso essere una sorta di culto con dei mantra che vanno ripetuti e riconfermati.

Il dato nuovo ogni tanto si fa strada a forza fra la ridda di misure sempre simili o forse solo riguardate in modo sempre uguale ma, quando accade che qualcosa di inaspettato finalmente emerge, si scopre che si è trattato perlopiù di serendipity e non certo di folgorazioni che oramai appartengono solo alla storia della scienza e agli aneddoti circa figure mitiche di un recente passato apparentemente irrecuperabile.

Ecco che se Einstein pubblicava ben cinque sconvolgenti articoli nel giro di un anno standosene da solo e lontano dai tanti, oggi i tanti firmano insieme un articolo che, come ho già avuto modo di raccontare in un mio precedente post, non potrà mai essere sottoposto a una decente operazione di peer-review. Perché? Per il fatto stesso che tutti coloro i quali sono in grado di esaminarlo, sono lì tra i firmatari e non metteranno mai in moto un inopportuno conflitto di interessi scientifico.

Inoltre un altro dei principi aurei su cui si basa la ricerca, quello della riproducibilità dell’esperimento, viene perso per strada: dove mai si potrà tentare di riprodurre ciò che è stato misurato al CERN?

Insomma, mi sembra che l’enunciazione di cosa sia il metodo scientifico necessiti di una ritoccatina tale da risultare quantomeno coerente con quanto davvero si fa nella pratica scientifica di altissimo livello.

Quando mi trovo a divulgare e a raccontare come proceda la scienza per abbattere il rischio di errori tramite il controllo delle affermazioni condotto con metodo scientifico, spesso mi sento un millantatore che racconta il falso per puro amore di una certa retorica epistemica e/o per eccesso di corporativismo.

Il problema, oltre che epistemologico, credo davvero sia di ordine didattico: una volta impartiti i rudimenti del linguaggio che va usato per colloquiare con la Natura – La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l’universo), ma non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne’ quali è scritto… – bisognerebbe affrettarsi a spiegare agli studenti come giocare con esso, come fare per imbastire discorsi propri in questa lingua; come fare a intavolare personali chiacchierate con ciò che circonda tutti. Nulla di tutto ciò. Ci ritroviamo spesso a essere ragionieri del computo scientifico, continuatori pedissequi di meravigliose, interessantissime litanie (che, tra l’altro, ritengo assolutamente necessarie, da continuare), ma sono davvero pochi i docenti che si sognano di dare fiducia alla capacità del singolo così da spingerlo a tentare di trovare un modo nuovo di guardare il mondo.

Nessuno ci insegna questo, ma tutti ci lasciano intendere come stare nel solco di ricerche che hanno già dato ottimi frutti. Ecco che le virtù di chi lavora in ambito scientifico diventano nella maggioranza dei casi la costanza, l’abnegazione, la precisione, la puntualità, l’attenzione e una certa capacità di capire dove si è posizionati, di capire cosa si può dire e cosa proprio non può essere detto; quando parlare e quando far parlare il proprio capo. Insomma, bisogna aver presente in quale anello della filiera si è arrivati e comportarsi di conseguenza, stando attenti a non uscire dal solco. E se non si spingono i giovani a mettere in discussione tutto, non credo ci si debba aspettare che siano gli anziani a farlo.

Ovvio che non pretendo di compendiare in questo discorso tutti e tutta la ricerca che viene compiuta nel mondo. Io stesso ho avuto la fortuna di imbattermi in alcuni docenti illuminati e inoltre non mi è dato sapere come vanno le cose oltre il limitato orizzonte che si si osserva dal mio computer. In ogni caso, se su grande scala la situazione differisse davvero da come la descrivo, credo avremmo meeting scoppiettanti, pieni di interventi stimolanti e ci troveremmo a vivere in un mondo in cui, a furia di nuove teorie e idee, avremmo già da tempo trovato un bel po’ di soluzioni aggiuntive a problemi interessanti.

Certo, avremmo di sicuro a che fare con una certa quantità di idee sbagliate, da smaltire, ma che credo risulterebbero affascinanti e – perché no? – finanche trainanti per trovarne altre più probabilmente “vere”. Senza scomodare i soliti noti, da quanto tempo non ci imbattiamo in un Fred Hoyle con le sue trovate a volte strampalate ma di sicuro geniali? Riuscite a immaginare oggi un giovane scienziato che prenda la parola in un congresso internazionale per esporre qualcosa di equivalente alla teoria dello stato stazionario?

Se l’aspetto inerente una certa fantasia scientifica non viene curato nelle università e nei centri di ricerca, trovo normale che poi si abbia uno eccesso incontrollato e incontrollabile di fantasia pseudo-scientifica nel mondo che circonda l’accademia.

Lasciare il campo delle idee libero a qualcuno, vuol dire trovarlo occupato nel giro di poco tempo da squatter del pensiero, altrimenti detti complottisti e analfabeti scientifici.

Insomma, la Big-Science è necessaria, di questo ne sono stra-convinto.

Ciò che non mi convince e che scopro non convincere nemmeno i miei colleghi Antonio Frasca, Ettore Marilli e Corrado Trigilio, è che oramai la scienza debba procedere solo lungo le linee tracciate nei grandi progetti.

Buco Nero ginevrino -  Angelo Adamo - Questa illustrazione è stata pubblicata per la prima volta sulla rivista SISSA News, House-Organ della SISSA di Trieste

Buco Nero ginevrino – Angelo Adamo – Questa illustrazione è stata pubblicata per la prima volta sulla rivista SISSA News, House-Organ della SISSA di Trieste

Si tratta di percorsi che, dovendo combattere con ingenti attriti socio-politici, portano a inventare strategie inaspettate di coinvolgimento del pubblico. Esse vanno dalla diffusione di paure per un possibile buco nero ginevrino che si sarebbe potuto creare in seguito all’accensione di un LHC potenziato (2008), all’articolo sulla “gara di velocità” tra fotoni e neutrini, vinta dai bit che trasportavano la falsa e prematura informazione.Falsa partenza

Ben venga la Big-Science con la quale potremo finalmente arrivare a scoprire ciò che giace a distanze enormi da noi, ai due estremi micro e macro del nostro universo, ma lavorare con la little-science, a esempio quella dei piccoli telescopi, potrebbe essere la palestra per stimolare fantasie che ora dormono per il nostro erroneo ritenere che degli oggetti raggiungibili con strumenti normali sappiamo già tutto ciò che di interessante c’era da sapere.

Sarebbe bello almeno allenarsi a rivedere con sguardi diversi, prima educati e poi rieducati a essere maleducati, tutto ciò che crediamo di conoscere così bene da non richiedere ulteriori studi.

Mi viene in mente una bella storiella circa un esame di Fisica 1 che aveva per oggetto il calcolo dell’altezza di un palazzo mediante l’uso di un barometro e come protagonista uno studente che proprio non voleva saperne di ripetere la lezione così come sapeva che il prof avrebbe gradito sentirla.

Tornando a SKA, di sicuro premierà posizionare due “pezze” radiotelescopiche in Africa e Australia e scopriremo cose incredibili, ne sono certo. Immagino quindi che, facendo un fantascientifico e fantapolitico passaggio al limite della funzione progresso della ricerca, l’optimum possa essere rappresentato dall’uso di una quantità enorme di radiotelescopi che vada a ricoprire, se non proprio l’intero orbe terraqueo, almeno la parte di terre emerse.

Una terra che assomigli più a un occhio di mosca che a un pianeta ci donerebbe una visione completa, profonda, dettagliata dell’ambiente cosmico nel quale ci troviamo a fluttuare.

Mettere insieme i segnali provenienti dalle antenne di SKA richiederà una potenza di calcolo incredibile e per capire la portata del problema informatico e ingegneristico da risolvere, vi invito a dare un’occhiata alla seguente pagina:

https://www.skatelescope.org/signal-processing-2/

Un occhio del genere implica una ricerca nella ricerca.

Già, perché programmare questo network di radiotelescopi per coordinarne i numerosissimi segnali così da farli convergere in modo adeguato nella realizzazione di visioni estremamente dettagliate di oggetti posti molto, molto lontano da noi nello spazio e nel tempo, implica sforzi intellettuali enormi che immagino sconfinino anche in ricerche di Intelligenza Artificiale.

Si tratterà di far cooperare milioni di assoni e neuroni di fibre ottiche e rame il cui schema di connessioni prevedo assomiglierà molto da vicino a una possibile cartina delle nostre connessioni cerebrali.

Il nostro occhio non è un luogo dove le idee vengono elaborate, ma fa intimamente parte di quella rete posta più a monte e con essa coopera nell’elaborazione del concetto di realtà esterna.

Devo aver letto da qualche parte che la specializzazione delle cellule nervose dell’occhio è un processo capace di lavorare su cellule inizialmente simili a quelle che abbiamo nell’encefalo, differenziandole in un secondo momento per ottenere da esse prestazioni diverse. Forte di ciò, spero di non sbagliare troppo spingendomi ad affermare che una certa “intelligenza” corra già lungo i nostri nervi ottici e chissà: magari la primissima forma di intelligenza è stata proprio di tipo visivo.

Si pensi poi a quanto le nostre capacità intellettive siano debitrici nei confronti dell’evoluzione del nostro senso visivo: la visione stereoscopica e il posizionamento degli occhi nella parte alta della struttura corporea grazie alla conquistata posizione eretta, ha regalato ai nostri antenati la possibilità di rivestire un ruolo di sicuro dominio nell’ecosistema terrestre.

Credo che andare a costruire una rete di telescopi come SKA sia il risultato, forse inconsapevole, dell’aver capito che non possiamo più avere idee davvero originali su una Natura che ora abbisogna di interlocutori più capaci con i quali colloquiare. É possibile che per avere nuove e sconvolgenti idee dovremo attendere che a elaborarle, o quantomeno a suggerircele con la produzione di dati inaspettati, siano le nostre macchine di prossima generazione che ci accingiamo a costruire.

Una simile, possibile ammissione di incapacità ad andare avanti nel dialogo tra la realtà e il solo cervello umano non collegato ad appendici che ne potenzino le prestazioni mi affascina, ma mi fa anche un po’ paura e voglio credere che vi sia ancora margine per delle idee completamente nuove e umane, per delle visioni scientifiche sconvolgenti in anticipo sui tempi tecnologici, quindi politici.

Se nella prima parte di questo articolo mi sono concentrato sulla sola prima giornata del meeting è anche perché quel giorno sui giornali è uscita la notizia inerente un computer che sembrava aver superato il famoso test di Turing (http://loebner.net/Prizef/TuringArticle.html) colloquiando con un uomo in modo da fargli credere di essere il sedicenne russo Eugene Goostman e non una macchina.

Rileggendo la conversazione intercorsa tra il computer e i suoi interlocutori, credo risulti chiaro quanto sia stato prematuro gioire per il risultato annunciato e ancora una volta, come nel caso della presunta scoperta del neutrino superluminale, possiamo registrare la maggiore velocità dell’informazione sul reale contenuto informativo (sembra proprio un ossimoro).

Una maggiore velocità frutto, anche questa volta, dell’accelerazione impartita da strategie pubblicitarie che poco hanno a che fare con la scienza e che invece molto condividono con la necessità di sensibilizzare il pubblico alla bellezza della ricerca e della sua necessità (e delle sue necessità…).

In ogni caso, ciò che mi interessa mettere in evidenza è che la strada sulla quale procediamo è quella che prima o poi condurrà a una emancipazione di pensiero delle macchine, fine ultimo (almeno credo) della ricerca nel campo dell’Intelligenza Artificiale.

Aver letto la notizia sul test di Turing proprio nel giorno in cui si parlava di una rete di telescopi che assomiglieranno a una rete neuronale estesa, mi ha rincuorato.

Probabilmente stiamo generando un meta-organismo che sarà capace di andare oltre localismi, piccole meschinità, razzismi e altre aberrazioni che tipicamente affliggono i nostri piccoli encefali da passeggio. Esso avrà le dimensioni del nostro pianeta, avrà la fantasia che al momento non riusciamo ad avere e sarà migliore di noi, salvo poi scoprire che replicherà i nostri difetti quando entrerà in relazione, se mai ci riuscirà, con altri meta-organismi lontani.

Magari ci stiamo avviando a diventare hardware organici posti a valle di un processo scientifico-creativo che ci renderà classificatori di spettri di idee visive suggerite dalle macchine della Big-Science. Nostro ruolo sarà quello di sistemare questi fantasmi in un quadro più o meno coerente e assolveremo le funzioni quasi da App al servizio di una intelligenza visiva che ancora non potrà fare determinate operazioni.

Da amante della fantascienza, questa visione di un moderno nous inteso alla maniera di Anassagora mi soddisfa pienamente.

Illustrazione apparsa per la prima volta sul trimestrale SISSA News, house organo della Sissa di Trieste

NOUS – Angelo Adamo – Illustrazione apparsa per la prima volta sul trimestrale SISSA News, house organo della Sissa di Trieste

Spero solo che vi sia ancora un po’ di margine per divertirci con quello che siamo e che da sempre sappiamo fare molto bene.

Avere nuove, grandi idee può ancora essere una prerogativa del genere umano e, senza dover abbandonare le migliori che abbiamo elaborato in passato, credo sia il caso di compiere ulteriori sforzi per trovarne qualcuna prima di abdicare del tutto a favore di una intelligentissima e fantasiosissima GAIA*.

SZ

 

VIdeo del mio fast talk (5 minuti) del 3/10/2014 ALL’OAPD sugli argomenti di questo post. Ero al convegno Pubblica, blogga, twitta sulle nuove tecniche di comunicazione per ricercatori (info alla pagina http://www.scicomm.it/p/relatori.html):

* Un mio racconto parla del nostro pianeta proprio in questi termini. Lo si trova nella raccolta Storie  di Soli e di Lune – racconti di sogni, racconti di scienza, Giraldi, Bologna, 2009  http://www.giraldieditore.it/index.php?option=com_abook&view=book&id=804:storie-di-soli-e-di-lune&catid=17:racconti&Itemid=175

Sottofondo:

Herbie Hancock – Maiden Voyage

http://grooveshark.com/#!/album/Maiden+Voyage/246017