CRONACA VIRUS – Giorno 42

UN SALICE NERO

Maurizio, un mio grande amico e fantastico musicista che ha lasciato l’Italia per trasferirsi prima in Inghilterra, poi in Francia, ieri ha fatto avere a un po’ di noi che con lui suonavamo quando viveva ancora qui, il frutto del suo nuovo passatempo da autosegregazione:

la riorganizzazione delle foto che parlano del passato da musicisti trascorso insieme: quelle di un capodanno, una data che era l’occasione principe per guadagnare di più; quelle in locali dove lui stesso gestiva la musica, …

Un passato per moltissimi versi magico del quale ho ricordi così frammentari da farmi spesso dubitare delle mie ricostruzioni a posteriori.

Le foto che mi ha inviato, più o meno si riferiscono tutte allo stesso periodo: sono gli ultimi anni del secolo scorso e lo capisco dal look e dai miei capelli che all’epoca portavo molto, molto lunghi.

Una lunghezza che rivelava la mia natura fino a quel momento insospettata di “riccio”: bastò lasciarli liberi di crescere anche poco oltre il limite che fino a qualche anno prima ritenevo normale, per scoprire come si tendessero ad avvolgersi su loro stessi creando veri e propri tubi elicoidali nei quali mi divertivo a infilare le dita per sentirne la geometria.

Ricci che sintetizzavano perfettamente la gran confusione mentale di anni in cui gli eventi rimestavano vorticosi, senza sosta, i miei pensieri e le sensazioni, impedendogli così di coagulare a formare gangli di convinzioni granitiche: la morte di mio padre “in testa”, e poi le collaborazioni importanti, la fine del servizio militare risalente a due anni prima; il ritardo col quale mi laureai, l’incapacità di dirmi una volta per tutte che non avrei dovuto affatto decidere cosa privilegiare dei miei interessi – una priorità dei miei e non certo mia –, scegliendo piuttosto di vivere circondato da tutti loro e grazie a tutti loro; le presenze femminili che volevo tutte mie senza dovermi fermare con nessuna; l’incontro fortuito con Lulamae, la mia prima e ultima can-vivente, … mi hanno arricciato ben bene le radici mentali di quel salice piangente e nero che si rivelava all’esterno come un casco protettivo; che invitava tutti ad avvicinarsi, ma solo fino a un certo punto; solo fino a una certa distanza di sicurezza, …

Erano anni in cui la comunicazione tra le persone aveva già subito più di un boost: nelle ultime propaggini del secolo, le mail avevano iniziato a funzionare a regime e i primi cellulari dai prezzi abbastanza abbordabili concorrevano a usurpare il primo posto ai telefoni fissi.

In ogni caso, per un musicista era ancora importante trovarsi lì a casa per ricevere la chiamata di un committente su quell’aggeggio che, inamovibile, incatenato come era, stile bicicletta parcheggiata in sicurezza, a uno di quei due punti della casa dove vi era la presa Telecom, diveniva quasi un mobile: condizionava l’arredamento attorno a esso imponendo che dove vi era un telefono, doveva esserci anche una rubrica cartacea, a volte un contascatti, uno sgabello e una prolunga che si snodava come un lunghissimo boa domestico; esso, infido, si insinuava sotto le porte chiuse di stanze occupate da coinquilini con i quali non si era nemmeno apparentati dicendoti che no: non avresti chiamato e non saresti stato contattato fino alla conclusione telefonata già in corso.

A causa delle enormi differenze tra le tariffe delle chiamate su rete fissa e quelle su rete mobile, si preferiva ancora l’uso del telefono di casa. Le chiamate tra rete fissa e rete mobile erano poi da evitare come la peste: una specie di punizione divina che interveniva a ricordarti la colpa, tua o del tuo interlocutore: uno dei due era lontano da casa. Una colpa che prevedeva l’immediata condanna consistente in una spesa stupidamente, evitabilmente salata. Una consapevolezza stressante, che rendeva molte comunicazioni estremamente frettolose e scorbutiche, quasi.

In tutto questo contesto, ci si vedeva comunque di più: complice anche la giovane età, non passava sera che non fossimo tutti nei locali dove si suonava ed era lì e così che nasceva l’idea, l’esigenza di incrociare strumenti e idee, di costruire gruppi, progetti o di registrare CD.

La sensazione che non essere presenti avrebbe fatto perdere qualcosa di fondamentale, non solo soldi, ma anche occasioni, era fortissima. Allora si inseguiva un’illusoria ubiquità fisica che proprio nessuno poteva sospettare sarebbe divenuta la moderna ubiquità virtuale; quella che non possiamo proprio intuire cosa diventerà fra altri trent’anni.

Riguardo quelle foto e mi rendo conto, anche grazie al look dei miei amici e colleghi, che l’aspetto giocava un ruolo fondamentale: forse ancora troppo culturalmente vicini all’epoca pre cellulare e mail, forse scettici circa le possibilità che si stavano aprendo nella comunicazione interpersonale, il nostro modo di vestirci, di apparire, di muoverci, di arredarci, … oggi mi sembra non più un vezzo – come asserivano molti nostri detrattori – ma più che altro un vessillo, una divisa utile a a collocarci in modo preciso in una società che ci imponeva di lottare contro l’indistinzione generalizzata.

Sottoinsiemi tra sottoinsiemi, necessitavamo di spiegare le nostre capacità, il nostro ruolo, il nostro curriculum, con l’aspetto spesso bizzarro dei nostri vestiti, delle nostre acconciature e dei nostri comportamenti perché questo era o speravamo fosse farsi pubblicità; questo era promuoversi, attirare lavoro anche stando lontano dal telefono fisso: un virus stavolta domestico che ci avrebbe voluto a esso incatenati fra le mura di casa.

Oggi, me ne rendo conto solo ora, il musicista non ha più un look così appariscente. Sono pochi, e spesso appaiono ridicolmente démodé, gli artisti che si ostinano a spiegare cosa sono, cosa fanno e come vorrebbero essere considerati tramite un orpello del vestiario, un’asimmetria nell’acconciatura, un eccesso di attenzione in qualche tratto del loro apparire.

Questo ruolo è oramai lasciato a fotografie reperibili in rete, nei siti web, nei social, mentre ciò che si cerca nella vita di tutti i giorni è proprio quella indistinguibilità prima combattuta, e ora divenuta una protezione della nostra privacy.

L’odierno periodo di lockdown a parte, in casa si sta comunque molto di più, reclamando il nostro diritto a non essere disturbati, a essere contattati con parsimonia e tramite i canali consentiti.

Spesso abbiamo il numero di cellulare lavorativo e quello per la cerchia di amici. Il telefono fisso è solo un ricordo e le mail sono suddivise in tante caselle diverse. La rubrica è online, non vi sono serpenti di filo telefonico nei quali inciampare; in casa, infine, non vi è più un pezzo di arredamento, quindi un luogo, deputato alla comunicazione.

Paradossalmente oggi siamo fissi noi, mentre il cellulare è mobile.

E poi diciamocelo: foto e video di certo non ci mancano: se prima il telefono era un mobile che rappresentava se stesso, ora è mobile e, consentendoci anche di fare scatti e filmati, ci autorappresenta.

Abbiamo un repertorio così nutrito di nostre rappresentazioni visive che non so propriom come faremo tra dieci o venti anni a gestire l’eccesso di notizie circa il nostro passato. Uno zelo archivistico che, mi rendo conto, all’epoca purtroppo esprimevo solo attraverso disegni, scritti e, a volte, registrazioni audio seppellite dentro supporti oramai difficilmente riascoltabili: ho la casa piena di faldoni da commercialista che catalogano chi davvero fossi, e le foto che ieri sera mi ha mandato Maurizio servono a disegnare il contorno, il contenitore di ciò di cui qui a casa serbo memoria più per quello che conteneva, per quello che nascondeva senza però avere una memoria così precisa del nascondiglio esterno che all’epoca usavo.

Tutti questi pensieri e immagini arrivano come una piacevole pugnalata che accetto nel mentre gira nella carne allontanando strati e stati appiccicati tra loro da anni di disuso. Allora una citazione famosa, un refrain anestetizzante, mi gira in testa sotto capelli ora perlopiù bianchi e irrigiditi: confesso di aver vissuto.

Inizio questa settimana col freno a mano tirato, nel tentativo di rimanere parcheggiato ancora un po’ in quel tempo, ma so che tra poco dovrò allentare la presa.

Ancora cinque minuti e, lo giuro, mi saluto per tornare ad assecondare la folle corsa.

SZ

CRONACA VIRUS – Giorno 38

Svegliarsi tutti i giorni in un mondo che vede correlazioni diaboliche tra questo e codesto, tra codesto e quello e, di ritorno, tra quello e questo, comporta che a un certo punto, per quieto vivere, ci si adatti al gioco: ubi maior

Leggo di correlazioni, anelli di complotti, che si chiudono attorno a ulteriori elementi con i quali vanno a costruire una lunghissima catena di San Fake, patrono dell’università della vita e protettore di quella della strada, e scopro che la tentazione è forte.

Allora umanamente cedo, rivaluto sospettoso la giornata di ieri e non posso non notare di avere subito un attacco degli eventi che ha del sospetto, del complotto di non so chi ai miei danni.

E allora denuncio. Sì, lo faccio! “Ma chi?”, direte voi. “Ah, saperlo!”, rispondo io, che per il momento me la prendo contro ignoti, anche se a prima vista sembrerebbe che il mio nemico sia solo il potente fato cinico e baro.

Due sere fa, mentre parlavo con mio figlio, mi è caduto il cellulare. Ero in piedi e la caduta si è rivelata fatale per il display del dispositivo che per metà appariva lesionato e nero: non potevo più digitare il pin né fare tutte le altre operazioni che oramai avvengono per il tramite di quella superficie trasparente e sensibile al tocco che ora, avendo toccato terra, aveva perso conoscenza.

Poche ore prima, proprio digitando e leggendo su di essa, avevo comunicato via whatsapp con un mio vicino, chiedendo se anche lui, che come me vive a piano terra, sentiva cattivi odori salire da lavandini & affini. Avendomi confermato che pure da lui la primavera idraulica arrivava a zaffate mortali – una nuova stagione intubata, capace, pare, di far sentire i suoi effetti malefici anche nelle case degli inquilini al piano superiore -, avevamo deciso che saremmo andati la mattina successiva in giardino a controllare lo stato dei sifoni.

Così abbiamo fatto: armati di mascherina, mai così tanto necessaria e al contempo inutile, guanti, leve metalliche, assi di legno e tanta, tanta pazienza, abbiamo iniziato a ispezionare l’immanenza del nostro condominio. Abbiamo così scoperto che tutti i punti nei quali le varie colonne dei diversi numeri civici del nostro stabile si innestano nella canaletta principale della fogna, presentavano evidenti segni di intasamento.

Inizia così una lunga mattinata di sversamenti di acqua bollente, acido muriatico, santi e madonne, seguiti da rimestamenti con lunghi assi di legno di brodaglie di cui il tacere è bello.

Alla fine, vinti nel fisico, nel naso e nell’anima, decidiamo di chiamare un’azienda specializzata proprio nel frugare nei segreti più intimi della gente: quelli davvero sintetici e forse più veritieri di una comunità all’apparenza variopinta, ma che alla fine si rivela monocolore, estremamente omogenea, sia da un punto di vista cromatico, sia da quelli olfattivo e materico.

L’operazione dei professionisti comprende essenzialmente due fasi: prima si rimuove l’”evidenza” recente e poi, tramite un tubo capace di sparare acqua ad alta pressione, si va su su a indagare “il passato del tombino” fino a raggiungere i più lontani anfratti della LAN locale alla quale si saldano tazze e lavandini dei vari appartamenti.

Il nostro microcosmo inizia così a mugghiare tenebroso, minacciando di far esplodere ovunque tavolette di water e tappi pensati per bloccare il flusso in entrata e che fanno invece temere di non riuscire a resistere al traffico di sommerso in uscita.

Il rumore profondo che squarcia i muri rivela la complessa geometria dello snodarsi del lunghissimo intestino di plastica che, tortuoso di gomiti e sifoni, si concede solo all’indiscreto tubo endoscopico degli esperti.

Ne escono così segreti dall’aspetto tetro e archeologico, quelli davvero responsabili delle peristalsi di strani boli intestinal-fogniari: vere e proprie collane di capelli lunghe anche due metri e rinforzate da fili interdentali, nonché tanto, tantissimo calcare sottoforma di veri e propri ciottoli, frammisti a pomici di detersivi e grassi alimentari.

Un riassunto a dir poco perfetto di ciò che davvero siamo, facciamo, produciamo.

Tale sintesi ci ha scollegato per una mezza giornata dal flusso di informazione della rete principale: quel web interrato nel quale la cruda verità si ritrova nei tre stati liquido, solido e vaporoso.

Per qualche ora tutti noi condomini siamo rimasti scollegati dalla lunga processione di informa-deiezioni e il sistema ci ha inviato un messaggio olfattivo di errore. Una volta andati via gli esperti, ci siamo scoperti salvi, alleggeriti da un bel po’ di quattrini, e finalmente collegati in rete: tutto scorreva, c’era campo, quello che ci evita di scendere in -.

Tornato a quel poco che rimaneva della mia giornata, ho scoperto che mi era arrivato 1) un sollecito dalla società che fornisce l’energia elettrica; 2) un altro da chi, senza avermelo richiesto a suo tempo, ora pretendeva una prova dell’avvenuto pagamento di un bonifico di cui ho parlato alcune cronache fa; 3) un messaggio da un sedicente amico di facebook, poi eliminato, nel quale, senza mezzi termini e per il tramite di un articolo-immondizia apparso su una rivista che forse meriterebbe almeno una segnalazione all’autorità competente, offendeva in vari modi chi come me ha deciso di assecondare i DPCM: una escalation di giudizi a dir poco violenti, conditi da suggestivi aggettivi come “mediocre”, “caricatura”, e tanti altri culminanti con la definizione di “traditore della patria”, vera ciliegina sulla torta.

Qualcuno ha paragonato questa quarantena a una lunga, interminabile Domenica. Dopo la giornata di ieri, mi sento di rilanciare avanzando qui l’ipotesi che si tratti, invece, di un perenne Lunedì classicamente carico di buone nuove.

L’inservibilità del cellulare che, pur continuando a suonare per l’arrivo di telefonate e messaggi, non mi faceva accedere alle sue funzioni, rappresentava un blocco, ma stavolta del mio punto di accesso alla rete telefonica e internet.

 

Sono riuscito a scoprire l’accumulo di acque reflue della mia rete social tramite l’apertura del tombino del pc attraverso il quale ho potuto continuare a rimestare in una materia simile a quella sorpresa ore prima a ribollire nella rete fogniaria e la giornata si è chiusa così come era iniziata.

Con la rottura del cellulare ho perso dati, fotografie, video, sedicenti amici, tempo, pazienza, soldi. In sintesi, ho perso tanto delle mie cose più preziose; così tanto preziose da essere ora del tutto indistinguibili nella melma calcarea dell’indistinto che tutto amalgama e riassume chi sono e chi siamo.

Si è trattato del prezzo pagato per riprendere il mio posto nel grande estuario della storia di questi giorni che della mia assenza di qualche ora, come del mio ritorno, parliamoci chiaro: non si è accorta affatto.

Un’ esperienza che mi ha consentito di fare facili previsioni sulla fine che farà il resto del mio tesoro personale quando non potrò più porre rimedio a blocchi vari delle mie reti artificiali a causa di un irreparabile blocco interno alla rete del mio corpo.

Una coincidenza? A me non pare proprio. Qui qualcuno sta chiaramente agendo alle mie spalle. Lo sento, e il fatto che tutti prima di me abbiano fatto la stessa fine scientificamente lo dimostra.

SZ

CRONACA VIRUS – Giorno 37

IL SOFFITTO IMBIANCATO SOPRA DI ME, LA LEGGE MORALE DENTRO IL MIO IPAD

 Le fotografie di Steve McCurry pubblicate ieri da Repubblica on-line ci rinfrescano la memoria di ciò che siamo, o meglio, di ciò che fino a ieri noi italiani eravamo agli occhi di chi italiano non è.

Scatti dai quali sembra emergere una strana declinazione tutta italica del cosiddetto Antropocene: la nuova era geologica caratterizzata dal forte impatto umano sulla Natura ottenuta rubando il lavoro all’Olocene: l’era geologica alla quale si pensava di appartenere ancora, almeno fino a prima di accorgerci di quanto abbiamo inciso sulla salute e sull’aspetto del nostro pianeta.

Quelle foto mostrano una via tutta nostra al dominio dell’ambiente: una rara integrazione tra bellezza del mondo e bellezza di volti, atteggiamenti, architetture.

Lo sappiamo già da tempo, e quelle foto in parte lo riconfermano, che la nostra cifra di popolo è proprio questa: difetti a parte, dimostriamo di possedere una rara capacità di riflettere il sorriso della Natura che abita lo stivale sullo specchio dei nostri visi e delle nostre piccole, grandi opere.

Qui da noi, uno dei tratti fondamentali del modo di vivere è la vicinanza reciproca: un paese più lungo che largo, con strade e marciapiedi che, stretti anche loro, sembrano risentire di quella particolare conformazione geografica: le coste premono dai lati verso l’interno, fanno alzare Appennini ed Alpi e strizzano le città nelle quali le strade, altrove arterie, diventano vene e fragili capillari.

Quella strettezza pare trovare traduzione in uno spontaneo contatto umano (o è l’inverso?): la nostra naturale tendenza ad avvicinarci a poca, pochissima distanza da un amico, un parente, ma anche da qualcuno cui chiedere l’ora, dalla persona casualmente incontrata alla fermata dell’autobus, da chi ci precede in fila in banca (quando non tentiamo di sorpassarla…), all’estero viene spesso vista come una minaccia.

Come mi raccontava un paio di settimane fa la mia amica Sabrina che si è trasferita a Londra già da qualche anno, trovandosi a transitare in senso contrario nello stesso corridoio, due colleghi inglesi tendenzialmente si fermano, o quantomeno rallentano appiattendosi contro il muro così da facilitare il passaggio dell’altro (o per evitare uno sconveniente contatto).

Di contro, l’italiano tende a procedere senza accennare a fermarsi, magari guardando dritto negli occhi, sorridendo e, a volte, pure abbracciando.

Per capire, poi, come questo distanziamento naturale e culturale sia particolarmente diffuso nel resto dell’Europa (immagino che in Spagna, Portogallo e Grecia le cose vadano in modo del tutto simile a quelle italiane), basti vedere come, ad esempio in Svezia, la gestione dell’emergenza sanitaria sia stata improntata sulla fiducia incondizionata nella naturale tendenza di quelle popolazioni a vivere tutti a distanza di sicurezza. Per la cronaca, pare che la cosa non abbia dato affatto i risultati previsti, dimostrando che quel famoso metro di distanza è abbastanza inefficace.

Tra non molto riprenderemo a uscire. Ne sono sicuro: interpretando le numerosissime voci che provengono dalla base, il governo sta lavorando sull’ipotesi di una progressiva ma abbastanza veloce riapertura di tutte le attività commerciali.

Si tratterà della tacita dimostazione di una certa permissività verso coloro i quali decideranno di andare a comprare tutti quei beni che di prima necessità certo non sono e allora non posso fare a meno di chiedermi come potrebbero apparire le fotografie di un Curry tornato qui in visita all’indomani della fine dichiarata del lockdown.

Nelle sue foto, la Natura che sembra proprio aver indossato un vestito botticelliano tra i più belli del suo cambio primaverile, continuerebbe a essere quella già celebrata dai suoi scatti pubblicati ieri.

Così anche i monumenti che, con quello sfondo, rilucono di uno splendore rinnovato. Le persone, un po’ più pallide, stavolta probabilmente stonerebbero su sfondi così variopinti mostrando volti più dimessi, in alcuni casi mesti, spesso impauriti dalla prospettiva di un contatto anche solo casuale con qualche vicino, inconsapevole veicolo di contagio.

Una volta finita la segregazione, non saremo più connessi dalla sola rete che, non toccata dal virus – quello biologico, intendo -, ci ha fino ad ora consentito di comunicare stando tutti alla distanza di almeno un nodo gli uni dagli altri.

Apparirà allora chiaro che solo essa garantisce di stare alla distanza giusta per intavolare una comunicazione interpersonale priva di rischi.

Riallacciare i nodi di una rete reale – quella che per far sì che ci si possa parlare, porta la distanza utile all’ordine del metro, un tratto coperto molto facilmente dalle pericolose particelle di saliva e dagli ancora più pericolosi starnuti – non potrà che farci temere costantemente per la nostra incolumità.

Quando ci incontreremo di nuovo, giudicheremo inopportuno l’avvicinamento cui eravamo avvezzi e non potremo fare a meno di confrontarlo con quello che ci imponeva internet, nel frattempo dimostratosi un ambiente igienico e sicuro.

La rete ci avrà quindi insegnato un codice di comportamento che definirei etico, oltreché elegante: in fondo molti, se non addirittura tutti i codici della cosiddetta buona creanza che mettiamo in relazione a una certa estetica dei rapporti, hanno una precisa e mai abbastanza ricordata origine in antichi modi di risolvere crisi sanitarie.

Avere, ad esempio, le unghie lunghe e sporche è sì antiestetico, ma lo giudichiamo così perché indice di poca igiene, quindi pericoloso per la salute.

Almeno fintanto che si serberà memoria di questa epidemia – memoria cosciente o, come quella di tutti i galatei diffusi, incosciente – il web rappresenterà l’optimum comunicativo; il mezzo più rispettoso per mettersi in contatto con l’altro; la misura minima di distanza per ottenere la misura massima di sicurezza.

La rete potrebbe di conseguenza diventare un modello di buona educazione nel dialogo, andando a risolvere parte dell’annoso problema dell’Intelligenza Artificiale di insegnare a un computer alcuni dei valori morali che fino a ieri non sembrava importante decodificare numericamente.

Questo perché potrebbe essere lei, la rete, il modello cui riferirsi per capire cosa sia meglio fare: l’intelligenza diffusa che risiede nel complesso delle connessioni di fibra, cavo ed etere, rappresenterà un valido template comunicativo cui ispirarsi.

A questo, si aggiunga anche l’introduzione di un’altra classe di connessioni: quella dei malati di COVID 19 o dei portatori asintomatici che, sulla scorta di quanto già fatto in Corea del Sud, pare verranno pure qui mAPPati da opportune app da scaricare su tutti i nostri cellulari.

Una rete nella rete, quindi, che condizionerà molti dei nostri gesti reali suggerendo, ad esempio, tortuosi slalom durante passeggiate altrimenti rilassate.

Se è vero, quindi, che l’era geologica nella quale abbiamo vissuto fino a ieri è stato l’Antropocene, temo si sia trattato della fase più breve di tutta la cronologia del nostro pianeta.

Essa sembra infatti star cedendo velocemente il passo a qualcosa di simile al Silicene o al Web-cene: una fase ulteriore che vede la realtà virtuale innestarsi prepotentemente sul corso degli eventi umani, vendicando così la violenza da noi operata su quelli naturali.

Vero, la rete l’abbiamo creata noi, un dato che parrebbe inserirla di diritto tra le innovazioni dell’Antropocene così come noi siamo figli delle ere naturali precedenti; ma ora siamo noi a subirla, a esserne dipendenti, e per capire quanto, basta fermarsi a meditare su cosa accadrebbe se, come già ventilato diverse volte, crollasse sotto il peso del traffico di dati sempre più ingente che su di essa corre.

Avanzerei addirittura l’ipotesi che si sia arrivati al punto di dover usare gli argomenti di cui a suo tempo si servì Malthus per dimostrare l’impossibilità di sostenere la popolazione terrestre in rapida crescita col solo sfruttamento agricolo delle terre coltivabili.

Se sostituiamo a popolazione terrestre il numero di internauti e a terre coltivabili la rete vere e propria – quindi non il nous che da essa sembra emergere, ma la sua parte hardware che cresce tentando di stare al passo del bisogno sempre maggiore di riversare in essa tutti i nostri dati e i nostri rapporti personali e lavorativi – potremmo arrivare anche noi a scoprire l’insostenibilità del sistema già intravista da Steve Jobs.

In conclusione, sono sicuro che troveremo il modo di declinare il nostro spirito italiano adattandolo alla nuova situazione, ma mi sa che per un po’ nemmeno un occhio attento come quello di Curry riuscirà a cogliere i nostri nuovi sorrisi.2 sulle sue magiche pellicole.1.

SZ

Le Ragioni Di Un Pavido Spiegate Ai Coraggiosissimi Rivoluzionari (che però non si assumono per iscritto alcuna responsabilità)

Riporto di seguito ciò che ho scritto in risposta a un post su facebook di una mia ex-amica.

Mi aveva redarguito sostenendo che, venendo meno al patto alla base stessa dell’esistenza dei social, non avessi nessun diritto di scrivere certe cose sulla sua bacheca.

O tempora! O mores!

SZ

Ciò che il COVID 19 è davvero capace di fare non è chiaro a nessuno. Gli esperti sono tali in riferimento a virus simili, ma capire questo che ci sta aggredendo ora richiede, come gli altri hanno richiesto in passato, una sperimentazione molto più lunga. Chi decide per l’intero paese consulta gli esperti (io non lo sono. E non lo siete nemmeno voi) e, scoprendo che non hanno ancora dati certi, cerca di limitare i danni con decreti precauzionali. Forse troppo precauzionali, o forse troppo poco. La storia futura ce lo spiegherà, ma intanto abbiamo davanti due possibili scenari: Scenario 1) Lo stato non impone regole comportamentali rigide e magari anche esagerate, cui attenersi; a farne le spese è il cittadino X che si ammala e muore. Nel momento in cui questo succede, decine, centinaia di migliaia, milioni di persone se la prendono con lo stato per non essere stato categorico nell’impedire a X di muoversi. Scenario 2) Lo Stato agisce come sta agendo, ovvero decretando che bisogna attenenersi a principi precauzionali dettati dal fatto che ognuno di noi potrebbe involontariamente diventare una cavia utile per capire come davvero si comporta il virus. Si potrebbe anche teorizzare che ammalandosi, X stia in realtà aiutando la scienza, ma il problema è che, andando in giro, X infetta Y, Z, T, … i quali a loro volta ne infettano tanti altri mandando in tilt il sistema sanitario nazionale. Senza quindi stare a fare quelli che spaccando il capello in quattro trattando le persone infette o infettabili principalmente come individui giuridici e giuridicamente liberi (il virus dentro di loro della vostra giurisprudenza se ne fotte bellamente), decidete pure cosa volete fare: se accettate di vivere in uno stato che, magari esagerando, tutela voi, quindi se stesso, o se preferite dichiaravi paladini della libertà di scegliere sempre e comunque cosa fare perché “voi non vi fate mettere i piedi in testa! Che voi non siete mica pecoroni come tutti gli altri!” Ecc. A questo punto, però, fate sapere con chiarezza cosa fate, dove lo fate e quando lo fate, così i pecoroni che tengono alla loro pellaccia (quindi anche alla vostra) e sono costretti a uscire per fare la spesa si fanno da parte e vi lasciano la strada completamente libera per farvi dire: “visto? Avevo ragione!”

CRONACA VIRUS – Giorno 35

TRONCARE LA SERIE

Oggi è lunedì. Lo so con certezza perché è Pasquetta.

Me lo confermano la rete, dove leggo un coro di lamentele per la festività da trascorrere al chiuso, e il fatto che ieri Simone mi ha portato i giornali. Senza questi due appigli mentali, oggi probabilmente oscillerei tra la convinzione di star vivendo una lunga Domenica e il sentore che in effetti potrebbe trattarsi di un lunedì strano, senza scadenze, senza ansie (epidemia a parte, ovviamente).

Una osclillazione mentale che, da modo per misurare il tempo mediante un orologio a pendolo, in un periodo in cui i giorni sono tutti uguali, come i secondi, diventa incapacità di decifrarne il suo reale trascorrere.

In pratica, stamattina sono stato svegliato troppo presto da un incubo (troppa cioccolata!) in un giorno indeciso e lungo, sospeso tra Sole e Luna, che pare avere 24 ore, ma anche 48. Una specie di nuova unità di misura del tempo di una settimana di poco più di tre giorni dilatati.

Allora mi intrattengo con una scorsa a quei giornali e trovo sul Domenicale alcuni articoli davvero interessanti, due dei quali sembrano nati apposta per essere messi in comunicazione reciproca.

Mi ci provo.

Nel primo, il fisico Vincenzo Barone, in un bel pezzo che finalmente non è una recensione, delinea una breve storia dell’uso dell’esponenziale come misura dell’evoluzione temporale dei sistemi fisici e conclude notando che, attraverso il distanziamento reciproco,

quello che si sta realizzando in tutto il mondo è, in definitiva, un gigantesco esperimento di rallentamento del tempo, di dilatazione dell’unità di misura incorporata nell’orologio esponenziale dell’infezione. È anche un esperimento sui numeri; quelli su cui ciascuno di noi sta intervenendo con i propri comportamenti per mitigare gli effetti dell’epidemia. Quando la vita tornerà a essere regolata dai giri di lancette degli orologi, il senso comune de tempo e del numero, forse, non sarà più lo stesso.

Mentre nel Domenicale questo primo articolo si trova nella sezione Scienza e Filosofia, per trovare il secondo dovete sfogliare l’inserto fino a raggiungere la sezione Arte dove fa bella mostra di sé la famosa immagine dell’area newyorkese compresa tra la 21ma e la 64ma strada sull’East River dell’Hudson racchiusa in una bolla trasparente.

Quell’immagine fu creata nel 1960 da Buckminster Fuller il quale, da immenso visionario quale era, immaginò di disseminare simili strutture su tutta la superficie terrestre per raggiungere vari desiderabili scopi come una regolazione fine delle piogge, la pulizia dell’aria cittadina, l’ottimizzazione del clima, ecc.

Una serie di partizioni geografiche, quindi, che, come si ricorda nell’articolo di Fabio Irace – anche in questo caso, non si tratta della recensione di una mostra! – all’epoca in cui furono proposte assunsero importanza ache come possibile aiuto per la protezione dagli effetti indesiderati di esplosioni nucleari e pandemie.

La lettura di questo articolo, a sessant’anni dall’elaborazione di quell’idea rivalutata di recente come ipotesi utile per tentare di dare soluzione all’inquinamento della città di Tokyo, nel mentre sono a letto, avviene qui, all’interno della bolla di casa mia.

Mi accorgo così che l’unica realizzazione architettonica dell’idea di Fuller continua ad essere l’antico spazio domestico nel quale non un quartiere, un distretto o un’area, ma giusto la vita di ognuno di noi risulta contenuta proprio con lo stesso obiettivo, col pendolo delle nostre gambe costretto a oscillare meno.

Non posso allora fare a meno di pensare che se nell’ipotesi iniziale di Fuller quelle bolle dovevano servire a tenere fuori le pandemie come anche gli effetti del decadimento radioattivo dei prodotti delle esplosioni atomiche – entrambi fenomeni la cui evoluzione temporale, come si diceva, trova un’adeguata espressione esponenziale – esse altro non sono se non contenitori di tempo: quel tempo al quale, proprio grazie alla loro presenza, verrebbe impedito di correre esponenzialmente per rallentare e scorrere linearmente, più solidi e melassosi, così come la vita di ognuno dovrebbe fare.

Allora mi torna in mente l’appendice alquanto onirica di un articolo serio che ho pubblicato qualche anno fa, incentrato sull’affascinante tema del tempo, fra gli atti di un congresso su Darwin. Sulla scorta di quel ricordo, immagino architetture-astucci di tempo trasparenti e protettivi, capaci di troncare la serie di Taylor che approssima quelle evoluzioni temporali esponenziali trattenendone al loro interno solo i primi termini, quelli linerari.

All’esterno, troncati, tagliati, amputati, sanguinanti fattoriali, tutti gli altri termini con esponenti via via maggiori guardano minacciosi e famelici la popolazione di esseri umani che sarebbero essenziali per la loro sopravvivenza, per non morire come tempo nel tempo.

A loro volta, i cittadini potrebbero osservare quei tremendi pezzi di serie che, tra il vorace e il disperato, occhieggiano minacciosi scorrendo untuosi sull’esterno delle cupole, incapaci di opporsi allo sfaldamento inesorabile che senza cibo umano li attende.

Mi accorgo che sto scrivendo nel mentre sogno; sono presente solo a metà, uno strano calore mi prende alle tempie e le palpebre tendono a cedere alla gravità: il mio corpo mi sta suggerendo come può di provare a riprendere il sonno da dove è stato bruscamente interrotto da quell’ incubo arrivato alle 5:19.

Di solito capita di svegliarsi e di non riuscire più a ricordare cosa si stava sognando.

Ora invece spero di addormentarmi e di continuare a sognare riallacciandomi agli scenari fin qui descritti esattamente come farebbero i personaggi di una serie televisiva di quelle di cui parlavo ieri.

Scusatemi, torno a vivere il mio film.

Ci risentiamo domani (sarà Martedì, vero?)

SZ

CRONACA VIRUS – Giorno 33

TRANSENNE (FUORI) DI SENNO

Nel nostro corpo, il malessere si ferma sempre da qualche parte. Sceglie una destinazione, una residenza, un distretto, e lì si siede, intenzionato a fermarsi, a stabilirsi in quel punto per tutta la (tua) vita.

In realtà, credo lo facciano tutte le sensazioni. Si manifestano con un muscoletto contratto qui, con un altro rilassato là; con un tic o con un movimento che – tu non te ne puoi proprio accorgere – inizi a fare in modo leggermente diverso dal solito. E dagli oggi, dagli domani, la piccola variazione fa accumulare in quel segmento del tuo corpo una serie incalcolabile di microstress da renderlo, da un certo punto della tua vita in poi, un atteggiamento macroscopico; qualcosa alla quale non puoi mostrarti indifferente.

Allora il dolore si impone, urla ma non risponde mai alla domanda: “ma come è iniziato? Quale è stato il trigger?”

Un tuo dente potrebbe così portare le tracce di una giornata storta, e non solo perché, digrignando, l’hai magari lesionato. No. É probabile che la sua stessa forma cambi tradendo un uso diverso che fai della mandibola e dei muscoli che la muovono. Non ho le prove, ma qualcosa del genere sono sicuro succeda: in una certa misura, filtrando gli stimoli esterni come anche quelli che noi stessi ci diamo spontaneamente, sospetto che ci auto-disegniamo incidendo dall’interno il nostro marmo duttile col bulino finissimo dei pensieri, delle soddisfazioni come anche delle paure e delle frustrazioni.

È per questo che sono convinto dell’impossibilità di definire scienza la medicina, anche se una simile convinzione non elimina di certo l’infinita gratitudine verso tutti colori che vi si dedicano con, quello sì, metodo scientifico nel tentativo di liberarci dal male.

Ritengo sia il principio stesso sul quale essa, come anche la psicologia, si basa a minare la possibilità che essa rientri di diritto fra gli ambiti scientifici propriamente detti: pensare di trattare un dito isolandolo come fosse una cosa, un oggetto, una particella, un ente a sé, è velleitario: il dito è una cosa, ma è anche una persona: quella che al dito è attaccata (e alla quale lui è attaccato). La parte, per quanto piccola, in questo caso contiente moltissimo di te. Addirittura è te: possiede la tua esperienza di quel dito, le tue consapevolezze spazio-temporali maturate grazie ad esso; quelle che passano attraverso il suo movimento. Infine lì vi sono innumerevoli copie del tuo DNA.

I pensieri, è sicuro, vengono elaborati nel cervello sottoforma di per il momento inestricabili connessioni tra linee nervose, ma le più lunghe di loro arrivano in tutte le periferie del corpo che, per questo, sono convinto lo facciano diventare sede di pensieri cinetici.

Un dito, prima di essere solo un dito, è quindi il veicolo attraverso il quale il cervello percepisce gli oggetti, li indica, li tocca. È un dito solo se lo stacchi, se lo amputi, separandolo dal resto, ma, anche in quel caso, il pensiero di quella posizione spaziale, di quella decodifica mentale, continua a persistere nella mia testa: il pensiero non ha poi così tanto bisogno di avere quel veicolo per continuare a riprodure lo stimolo elettrico che ha gestito già infinite volte e, ostinato, continua a dire al sé che a quelle coordinate il dito c’è, eccome!

Ecco perché i nostri corpi sono sì pensati, ma pensanti, pure. E possono essere l’espressione visibile di pessimi processi mentali o di ottime idee. Le facce lo dimostrano meglio di altre regioni del corpo pensato e pensante, ma non sono le uniche a farlo. Anzi. Quando ci muoviamo, i nostri volumi scrivono riassunti complessi della nostra narrazione interiore. Le braccia sono Appendici e Note; Le gambe interi periodi; il busto è una introduzione; la schiena una sinossi; la testa capiversi e capitoli.

Ieri pomeriggio ero a casa a lavorare e, resomi conto dell’ora tarda, mi sono precipitato al Centro Commerciale nel tentativo di evitare la calca del Sabato prima della festa (sì, Katia, come tu suggerivi di fare, lo spunto per scrivere è arrivato ancora una volta da quella esperienza. Capirai perché).

Al solito, mi sono fatto accompagnare dal mio corpo e nel giro di un paio d’ore ho scoperto che era diventato sede di un bel po’ di frustrazioni: era un pessimo pensiero deambulante.

Per la fretta, ho dimenticato di prendere un libro da leggere in fila col quale tenere a bada me e lui, il corpo. Molto male. Noia. Prime tacche di nervosismo.

Finalmente dentro. Scaffali, gente. Entrambi aspettiamo pazienti che nelle corsie più strette il cliente arrivato prima di noi finisca di soppesare l’acquisto dei prodotti che gli interessano. Operazione lunga e sofferta. Siamo lì, come due idioti che lo guardano sfruttando il carrello come appoggio, ma nel frattempo arriva un altro che non vede ci vede, che non nota il mio corpo (perché non vuole vederlo: è solo una scomoda illusione del suo apparato visivo), se ne fotte della distanza di sicurezza e si mette anche lui a soppesare il suo, di acquisto, a poca distanza dal primo avventore.

Questi finalmente va via e l’altro appena arrivato, nel mentre prende dallo scaffale lo stesso prodotto al quale eravamo interessati noi, mostra finalmente di notare il di noi corpo e gli fa cenno che può avvicinarsi. Allora gli spieghiamo, entrambi evidentmente incazzati, che, dato lo spazio esiguo, preferiamo aspettare e che comunque stavamo aspettando già prima che lui arrivasse.

Con fare falsamente gentile e compassionevole per la richiesta da disagiato mentale del mio corpo, si sposta dicendo “prego, prego” e così scopriamo che quella che lui ha preso prima, era l’ultima confezione del prodotto che volevamo prendere anche noi (se ‘sto racconto non finisce presto, a furia di parlare di me al plurale, inizierò ad avere deliri da sovranista, se non addirittura da sovrano…).

Lo diciamo ad alta voce, ma quel nostro prossimo da amare e rispettare non fa una piega. Smadonniamo al suo indirizzo. Cambiamo obiettivo e corsia.

Il delirio continua. Ovunque gente che non guarda, che non soppesa, che non rispetta le indicazioni scandite dagli altoparlanti. La mia mente, lasciata per un attimo da sola, immagina qualcuno del Centro intento a osservare dalle telecamere di sicurezza il ridicolo balletto da musical americano anni ’50 – uno di quelli nei quali anche dire “ciao!” è occasione per cantare e danzare tutti insieme (l’ho sempre trovato urticante) – che il mio corpo sta inscenando con il carrello-partner: lo fa volteggiare di continuo così da orientarlo sempre in direzione di chi incontra per usarlo a mo’ di distanziatore.

Come già capitato di denunciare qui nelle altre Cronache di spese al Centro Commerciale, pare che quello di mantenere la distanza di sicurezza sia solo un problema mio/nostro e a un certo punto scopr(iam)o di essere isotropicamente circondati/o da diversi nostri prossimi… troppo prossimi.

Non avendo così tanto amore da dare, ma soprattutto non avendo a disposizione una corolla di carrelli a proteggerci, ci arrendiamo, o facciamo finta di farlo, e guadagniamo le casse con le tacche di odio prossime al fine scala.

Fuori da lì, mente e corpo parcheggiano entrambe in fila davanti alla farmacia presente all’interno dello stesso Centro Commerciale, a un metro dall’uscita dello stabile e si sistemano di fianco alla transenna che seleziona lo spazio riservato ai clienti per evitare che intralcino l’uscita dalla struttura.

Finalmente è il turno di quello prima di noi. Gli altri alle nostre spalle, scoraggiati dall’approssimarsi dell’ora di chiusura già annunciata diverse volte dai soliti altoparlanti, sono andati via.

Passa una signora che potrebbe essere coetanea di mia/nostra madre, si rivolge da una distanza di un paio di metri alla farmacista già impegnata a servire il signore prima di noi e chiede: “Scusi, giusto una informazione…” Chi mi precedeva intanto ha finito, saluta e va via. La farmacista, che vede benissimo il mio corpo (è lì, e non è certo piccolo!) conosce la signora e risponde “Salve, signora! Come va? Prego! Dica pure!”

Dalla richiesta di informazioni circa le varie tipologie di mascherine – operazione che non si esaurisce certo in pochi secondi e che, anzi, prende diversi minuti (cazzo, chiude il Centro!) – si passa al loro acquisto. E noi ci ritroviamo anema e core di nuovo secondi, bellamente scavalcati dalla signora.

Approfittiamo del fatto che la farmacista è andata a prenderle il prodotto richiesto, per protestare ad alta voce, ma la signora non fa una piega. Ancora non dimostra di accorgersi del mio corpo. Non esiste. È immateriale. Altroché dito!

Quando la farmacista torna per passarle da dietro la saracinesca abbassata le mascherine richieste, ci rivolgiamo a lei ad alta voce dicendo che se la gente è maleducata, dovrebbe essere compito di chi lì lavora invitare a rispettare la fila.

Lei si scusa, promette di chiamare per servire me un suo collega, ma intanto, con gli occhi di fuori, il mio corpo inoltra alla furbetta il verdetto: quella signora è una maleducata senza speranza. Lei finalmente si accorge del mio corpo e giura di non averlo visto, e la cosa ci fa incazzare a unisono ancora di più. Fine corsa definitivamente raggiunto.

Finalmente tocca a noi. Per fortuna riusciamo a prendere ciò che ci serve e il controllo passa al solo corpo che gestirà tutta una serie di operazioni automatiche; quelle che gli spettano in quanto, seguito all’inizio anche dalla mente e poi ben istruito daì cinquanta e passa anni di reiterazioni a compierle, è diventato pressoché indipendente.

Raggiunge velocemente la macchina spingendo il partner a quattro ruote, apre il baule, mette dentro le buste e, … e la mente sente che la camminata veloce all’aperto come anche i gesti meccanici compiuti per alloggiare la spesa in macchina fanno bene anche a lei.

Allora glorifica il fatto di avere la compagnia di un corpo che quando lavora, agisce a ritroso su di lei donandole una forma completamente diversa, opposta, addirittura, a quella che fino a un attimo prima, lei aveva suggerito a lui di assumere.

Mentre entrambi litigavano con la signora, il mio corpo si muoveva nervosamente su e giù nel ristrettissimo spazio delimitato dalla transenna, quasi fosse una tigre in quella metafora di gabbia con sbarre reali solo su un lato e altre, immaginarie, disegnate sugli altri cinque dalla mente educata a farlo.

Giunto alla macchina, invece, il cervello scopre di essere più rilassato: i pensieri elaborati da gambe e braccia hanno retroattivamente agito su quelli che, privi di braccia e gambe, sono alloggiati dentro la testa. Confinati nella scatola cranica e non in un braccio, in una coscia, in un occhio, sono senza arte, e per sopperire a questa mancanza, per poter esprimersi, abbisognano degli arti.

Il mio corpo ripone il carrello, e il cervello scopre che l’incazzatura è del tutto scemata. L’azione materiale del camminare, nonché quella reiterata nel mettere via la spesa nel portabagagli (sia sempre lodata l’attività fisica!), fa velocemente scemare il giramento di balle che, non esistendo il moto perpetuo,  finalmente si fermano. La mente capisce che, stronza o meno che sia stata la signora, può passare sopra l’accaduto e la cerca con lo sguardo.

Non la vede, e il cervello, ancora un po’ intossicato, avendo voglia di tornare a casa, riprende il controllo pensando: “Va bene, dai! L’avessi vista, ci avrei parlato. Non c’è, quindi vaffanculo! Se l’è cercata”.

Il mio corpo monta in macchina, autorizzato a farlo dal cervello ora appagato per l’aver pensato di scusarsi e, lo confessa, contento di non aver avuto modo di farlo, la fa partire.

Il corpo ora si accorge che fuori dal Centro, quindi lontano dagli altri e protetto dall’abitacolo dell’auto, sta molto meglio. Tutto ciò rilassa anche la mente. Siamo già a circa duecento metri dal Centro Commerciale, e lei si accorge di non avere più fretta.

Bastarda, mi fa valutare la possibilità che la signora, magari rincoglionita, potrebbe davvero non avere visto il mio corpo; me la fa immaginare nel mentre soccombe sotto il peso delle mie, delle nostre parole. Poi regala un’altra chicca: mostra a se stessa anche l’immagine del suo corpo sorpreso nell’atto di macerare sotto il peso del dubbio; nell’atto di soccombere a sua volta al rimorso per una tremenda ipotesi non verificabile.

La mente è bravissima nel costruire occasioni per star male e ripesca da chissà dove il ricordo di un breve racconto letto da giovane in compagnia di Papà.

L’immagine è abbastanza nitida: al solito, siamo tutti nel suo studio e stiamo commentando quel testo che lei crede si intitolasse La morte dell’impiegato, contenuto in una vecchia raccolta Garzanti di opere di Cechov (si accorge che è la prima volta che si trovo a dover scrivere il suo cognome) dalla costa verde militare.

Quella del racconto non era propiamente la stessa situazione che Stavamo Vivendo Io, ma un po’ la ricorda per l’essere incentrata sul concetto che il rimorso e la sua sbagliata gestione può uccidere.

Basta. È un tutt’uno e le mie braccia sterzano, prendono la rotonda per percorre tutti i 360 gradi e non solo i 270 bastevoli per andare verso casa. Torniamo indietro.

Pochi minuti dopo siamo entrambi tesi, di nuovo nel parcheggio. Lui guarda attorno e la vede! Sta sistemando la spesa nel portabagagli della sua auto. Allora arriviamo lì con l’auto, lui abbassa il finestrino e, con ancora la mascherina in faccia, comandato dalla mente, chiede scusa per il suo atteggiamento, cercando giustificazione nella situazione che vede tutti con i nervi a fior di pelle.

La signora ribadisce di non essersi accorta della presenza di lui, del corpo e, mesta, conferma di esserci rimasta veramente male per la reprimenda ad alta voce. Ha un carrello strapieno. A unisono ci offriamo di aiutarla a porre tutto nella sua macchina, ma lei gentilmente rifiuta. Ci lasciamo tutti più leggeri. Salutandoci, ci facciamo gli auguri per la festa di questi giorni e riprendiamo il corso delle nostre vite.

Lungo la strada, il corpo oramai rilassato guida e la mente, libera, ripensa alla situazione. È chiaro: inizialmente aveva ragione, ma poi ha fatto diventare il corpo né più, né meno quello di una bestia in gabbia.

Però, … Sì, c’è un però: se, come in questo periodo, siamo chiusi fra quattro mura costretti ad ascoltare in televisione, alla radio, su internet qualcuno che urla di continuo e che, le poche volte che smette di farlo per parlare, persiste nell’infierire usando concetti sbagliati, parole irritanti, stupide, allusive, … non solo la mente si innervosisce, si incazza, pure.

Tutto si intossica; la mente regredisce; il corpo qui e là si tende e diventa un’incazzatura ambulante di quasi un metro e novanta con muscoli tesi, pronti a scattare, a reagire mostrando le vene del collo gonfie, la pelle stirata del volto e le corde vocali già settate in modalità urlo cui è stato preparato dall’ascolto prolungato delle intemperanze altrui.

Se la televisione e i giornali non ci risparmiano la visione e l’ascolto di chi quotidianamente gioca a gettare benzina sul fuoco, non dovremmo mai cedere alla tentazione di farlo pure noi, fosse anche soltanto per commentare male simili atteggiamenti ripubblicando nei social i video che mostrano certi spettacoli.

Purtroppo il buono che, con grande fatica riusciamo a esprimere, lo leggiamo fuori di noi nei libri, nelle musiche, nei balletti, nelle opere teatrali, nei quadri, … Tutte cose difficili e dalla lunga gestazione, la cui fruizione impegna.

Possiamo produrre tonnellate di scritti positivi, ma certi atteggiamenti da trogloditi, da animali involuti, li abbiamo già stampati dentro in libri semplici, dalla facilissima consultazione, sempre pronti a essere letti da mente e corpo in modo univoco, senza che facciano nascere dissidi interiori.

Le nostre vite e i social che frequentiamo meritano di essere mondati da tutto il deteriume che la vita pbblica ci propina e che, che si sia a favore o che si preferisca condannare, comunque si alimenta della nostra attenzione.

Evitando di dare spazio all’urlo del sedicente politico, alla provocazione della sobillatrice, potremmo amputare quel dito del corpo sociale di cui si serve quel pensiero malato per manifestare al paese frustrazione e diffondere odio. Farlo non estirpa di certo il problema alla base, ma vaccina la società dal manifestarsi di atteggiamenti violenti, estremi, inopportuni, che tendono i muscoli della vita pubblica.

Un dubbio ancora però ancora assale la mente e tende un po’ i muscoli: e se la gentilezza, la civiltà, l’educazione, piuttosto che valori e sentimenti puri, non fossero altro se non modi di manifestarsi di un egoismo impegnato a tutelare la nostra tranquillità per evitarle il rovello del senso di colpa col quale ci marchiano fin da bambini?

In fondo, se sono tornato indietro non l’ho fatto certo perché sono un’anima bella. No, l’ho fatto solo evitarmi il possibile rimorso che mi avrebbe generato immaginare la signora a disperarsi per il mio duro rimprovero.

Va a finire che se una settantenne egoisticamente decide di saltare una fila, è perché scopre di non poterne più di una simile tara culturale e, sentendosi finalmente al di là del bene e del male, segue un forse più sano egoismo.

Me lo chiedo, e mi accorgo di farlo tenendo il naso fuori da quelle maledette sbarre invisibili che ancora transennano lo spazio attorno a me.

SZ

La prima delle INVENZIONI A DUE ANCE

Oggi stavo divertendomi tra “me e me” a studiacchiare questa Invenzione a due Ance di Bach (oggi ho inaugurato proprio con questo nome una apposita categoria di brani nel mio canale youtube) e ho deciso di farne un piccolo video che credo rappresenti molto bene cosa non si fa per combattere la solitudine.

Diciamoci la verità: per farla al meglio, bisognerebbe essere non Uno, ma Bino.

Se invece si fosse trattato di un brano a tre ance, avrei dovuto essere trino, in qasi perfetto sincronismo con la festività religiosa in arrivo.

Vi forse vi deluderò: sto in realtà lavorando alla resa in quartetto del brano Lascia ch’io pianga di Handel che spero di pubblicare proprio nei prossimi giorni.

Stay tuned!

 

SX

CRONACA VIRUS – Giorno 29

                                               PICCOLE E CHIUSE COSE

Cosa significa davvero “capire”?

È un problema inerente la pura comprensione di un periodo composto dalla somma sapiente dei significati dei singoli termini o è qualcosa di più elevato, qualcosa che va oltre il ristretto orizzonte linguistico?

Come al solito, il tutto è più della somma delle singole parti. A modo suo, lo dimostra la recente indagine OCSE-PISA sui risultati della quale tornerò prima o poi in queste cronache.

E lo dimosta anche il fatto di aver creduto, a suo tempo, di avere pienamente compreso il messaggio di Pascoli.

Oggi invece mi accorgo ancora una volta che la cifra del suo messaggio come anche quello di altri autori non poteva che essere l’integrale di decine e decine di sue esperienze che oggi, grazie all’età ma anche e soprattutto alla situazione che stiamo vivendo, mi sembra rivelare il suo vero significato, la sua parte extrasemantica.

Un discorso che di certo non si applica solo alla produzione del poeta romagnolo, anche se nel suo caso ho l’impressione che pur nelle sue note trovate pregrammaticali, abbia sempre e soltanto avuto intenzioni postgrammaticali (intendendo qui impropriamente quel termine come “intenzioni reali da rivelare molto, molto a posteriori”).

A farmi sentire il bisogno di ritornare sul luogo del delitto giovanile per tentare di comprendere cosa accidenti volesse davvero dire con quella sua famosa poetica delle piccole cose è proprio la sommatoria delle mie esperienze, condotta sul periodo pluridecennale, che come credo tutti i miei coetanei mi sento chiamato a calcolare. Inoltre vi è anche l’aggravante dell’anomala attenzione – stavolta ritengo sia cosa che riguardi tutti, coetanei e non – che sono costretto a dedicare alle mie azioni dalla limitatezza imposta ai miei spostamenti fisici,.

Allora, passando in rassegna gli eventi che mi hanno condotto qui e ora, guardando la mia vita di questi giorni come potrebbe fare un drone personale silenzioso e indiscreto che svolazza dalle parti del soffitto, capisco che molti dei suoi versi mi si confanno esattamente come a un adolescente si addicono quelli di una canzone che riassuma le senzazioni tipiche della sua età.

Ancora una volta scopri che valeva la pena arrivare fin qui per comprendere ciò che ti è capitato in altri momenti “non sospetti”: fai tuo adesso ciò che ti hanno fatto ascoltare forse un po’ troppo presto, pretendendo che già allora fosse per te importante. Dittelo pure: solo ora puoi avere la sensazione di apprezzare intimamente la differenza tra tutto e parti, tra territorio e mappa, tra leggere Pascoli o chiunque altro degli autori incontrati da ragazzo e, forse, comprenderli (più) a fondo.

Piccole cose.

Si diventa pascoliani nel ricordare meravigliosi spazi aperti, naturali, che proprio per questo possono però rappresentare la morte tanto evocata da quel poeta, quella che sappiamo annidarsi lì fuori attendendo una tua distrazione.

E lo si diventa anche privilegiando la frugalità dei pasti (altrimenti “inquarto”), la piccola ambizione di compiere ogni giorno quei gesti tra l’utile e il piacevole che costellano la giornata di un abitudinario. Piacevoli perché familiari, conosciuti, appaganti, tuoi.

E se pascoliano non lo eri, in qualche misura, forse senza accorgertene, lo diventi: il tuo sistema fisico, quello composto dalle tue particelle, a furia di muoversi sempre all’interno dello stesso ambiente a 3 + 1 dimensioni, trasforma pian piano quello spazio perlopiù euclideo in uno spazio delle fasi nel quale passa e ripassa dagli stessi punti, ritrovando lì gli stessi valori di almeno 6 delle tue coordinate e dei tuoi limitati gradi di libertà.

La tua casa, quasi fosse descrivibile come un universo-spugna composto da vuoti e pieni di materia barionica, diventa un invisibile sistema di vuoti e di pieni di densità di probabilità delle tue configurazioni.

Scopri così che la parola abitudine potrebbe per te essere definita dalla Crusca come “curva che descrive l’evoluzione della probabilità di trovarti seduto in cucina a mangiare o a letto a leggere, guardare la televisione; scrivere, a volte. In soggiorno, al tavolo, a scrivere, disegnare, suonare o sempre in soggiorno, sul tappeto a fare ginnastica. In bagno a prenderti cura del tuo animale domestico“.

Posizione e azione allora appaiono ciò che davvero sono: un sinolo inscindibile che forse di suo basterebbe a dare una risposta al quesito, ancora in attesa di una risposta univoca, circa cosa sia da considerarsi vivo e cosa no.

E se non si è o se proprio non si vuole essere pascoliani – un appellativo qui banalizzato, compresso, sunto improprio di abitudinario e di perso nella contemplazione della bellezza evocativa, apollinea, quasi, di piccoli gesti, di piccoli oggetti e pensieri – meglio far finta di decidere di diventarlo; se non lo si deciderà, si potrà rimanere delusi dallo scoprirsi più banali, meno fantasiosi e imprevedibili, meno figli dei fiori e più piccoli yuppie dell’azienda domestica di quanto si amava pensare di sé.

La mattina si legge e si scrive. Lo fai tenendo un orecchio alla radio e l’attenzione alla pagina piena o a quella da riempire. Se decidi di leggere e non ti sei già svegliato con le idee chiare, rimani un po’ sospeso, indeciso a quale musa votarti. Una attività che mangia la sua fetta di tempo.

Tra la scelta, la lettura e la scrittura, volano via due o tre ore e sei a ridosso dell’ora di pranzo. Un po’ di ginnastica, un pasto contenuto – non è mica sempre Sabato o Domenica! -, lavi i piatti e sono già le tre del pomeriggio. Al fine settimana, questo è il momento del film, della tavoletta di cioccolato e di un fondo di tazzina da caffé occupato dal tuo torbato preferito da sniffare, prima che da bere. E ti senti un Regolo, un piccolo re.

Intanto la radio continua a tenerti compagnia. A volte la ascolti attento; a volte ribolle in sottofondo mentre pensi ad altro e in questi casi sembra avere la sola funzione di simulare l’interno di un autobus, di una metro, di un bar per inscenare una situazione di normalità sociale.

Ogni tanto, come può capitare di sentire la confessione di una coppia alla fermata dell’autobus o i ragionamenti di due signore in fila al supermarket, capti una frase, un tono, una musica, interessanti e ti fermi. Smetti di scrivere, di suonare, di disegnare; mentre lavi i piatti, interrompi il rumoroso flusso d’acqua. Ascolti, soppesi, e riprendi la la tua corsetta.

Due-tre telefonate: a tua madre, a tuo figlio, a qualche amico/a; e un’ora almeno se ne va così.

In un ambiente piccolo come il mio, è bene che anche gli oggetti siano frugali come i pasti, altrimenti l’ambizione comodamente contenuta da uno molto ingombrante, ucciderebbe altre più contenute, nascoste dentro oggetti minimi che pure hanno diritto ad esistere in questa frazione di mondo.

Ad esempio, le mie armoniche, vere e proprie myricae musicali, di spazio ne chiedono davvero poco e spesso capita di non trovarle, nascoste da altre piccole ambizioni concretizzate in oggetti come libri, fogli, giornali o più prosaicamente investite da frane di vestiti buttati disordinatamente qui e là.

Nel caso del mio strumento preferito, l’ambizione è trovarvi dentro quanta più musica possibile. E se proprio lì non la si trova, si cerca di soffiarcela dentro a forza, violentando il loro spazio tridimensionale per farlo stavolta diventare uno spazio delle fRasi.

Così facendo, ci si gioca qualche altra ora, e non è male, anche se poi ti disperi per non poterle più riafferrare.

Scrivendo, suonando una piccola armonica, organizzando segni su una pagina, ti scopri a non fare altro che tentare di isolare pezzi di mondo nel tentativo di farti, a partire da essi, un’idea sintetica che lo riassuma; un’idea sintetica che ne sveli in negativo quella famosa differenza che manca e che sempre mancherà alla somma delle sue parti tengibili.

Scopri ad esempio, che pur appassionandoti l’avventura della Big Science col suo concertare gli sforzi di centinaia di persone verso uno stesso obiettivo conoscitivo (magari farne parte!), continui a immaginare l’attività di uno scienziato come lo sforzo romantico di una mente da sola di fronte alla Natura.

E allora sospetti che sia proprio questo che ti fa amare la scienza allo stesso modo in cui ami la letteratura, la pittura, la musica: pur essendo anche queste attività interpretabili come avventure collettive, sono più facilmente riconducibili all’impertinenza di un singolo che, ritto in piedi, non arretra e, anzi, urla contro la realtà: un enorme grizzly incazzato, sfidandola ad attaccare.

Ami le scommesse da piccoli, folli Achab che pur sapendo di non poter fare altra fine se non quella di venir risucchiati dall’abisso, sono comunque felici di aver anche solo scalfito la pellaccia spessa del leviatano lasciandogli una cicatrice, una piccola traccia del loro arpione spuntato.

Sulla scorta di simili pensieri, mi trovo a sperare che questa fase storica insegnerà a essere più prudenti nel chiudere le porte ai piccoli progetti scientifici, quelli ai quali basterebbe un’infima frazione del budget sempre prenotato da altri ipertrofici, che però  da casa non possono proprio proseguire.

In un rifugio, antiatomico o antivirus che sia, non puoi portarti una mandria da macellare o una campagna da coltivare. C’è spazio solo per loro comodi, piccoli riassunti: cibo in scatola.

In una emergenza come questa, non puoi lanciare sonde o far collidere particelle. Puoi solo fermarti a pensarle in maniera diversa, cercando nuove inquadrature; sintetizzandone il pensiero in nuovi versi scientifici ancora mai scritti: l’equazione di Dirac è stata scritta da lui solo. A casa sua.

Immagino le immense cattedrali della scienza al momento vuote di persone e mi intristisco, ma al contempo rivaluto la possibilità che qualcuno, nel tentativo puerile ed eroico di giocare a fare dio, possa ancora scoprire qualcosa dal tavolino del tinello, o con un piccolo telescopio sistemato sul suo balcone.

La stessa fame globalizzante, onnivora, spietata che muoveva ogni giorno masse enormi di persone in nome di una ineluttabile economia, rimandava una necessaria fermata per riprendere fiato. Una dinamica che attanagliava tutto, anche la ricerca, l’arte e l’intero spettro delle attività umane, comprese quelle che più si pretendeva fossero pure e lontane da logiche di profitto.

Una fame globalizzante che ha trasformato molti dei migliori scienziati in cupi strateghi, freddi politici, affamati amministratori del denaro pubblico che veniva elargito solo ai loro progetti più ambiziosi; solo a quelli che vestivano meglio di altri il tricolore per il gran galà della scienza.

Ora forse, privati per un po’ dei loro Monòpoli e monopòli, alcuni di loro scopriranno che quel gioco non era poi così necessario e affascinante. Me li voglio immaginare nel mentre – riaprendo un impolveratissimo manuale di Fisica del primo anno e scoprendo che quel tal grafico era davvero lì, in quella posizione che ricordavano e con quelle unità di misura segnate sugli assi – riscoprono perché da ragazzi hanno fatto quella scelta universitaria e non quella di iscriversi a Economia, Scienze Politiche o al Partito.

Piccoli pensieri, piccoli gesti, piccole oggetti che anche oggi tornano a farmi compagnia.

E, al passare delle ore, mi dico che Quasi-quasi cambio -modo, poetica e poeta.

Scopro, allora, che dopo aver scorazzato in un piccolo panorama di oggetti, attività e ambizioni, sempre quelli, sempre uguali, sempre qui, la giornata è pressoché finita.

Ed è subito sera.

SZ

 

CRONACA VIRUS – Giorno 28

Una doccia di fredda realtà

Erano i primi di Marzo quando il fisico Marco Cattaneo, direttore del settimanale Le Scienze, in un a dir poco accorato messaggio su whatsapp invitava i suoi contatti a stare in allerta, seguendo le indicazioni date dagli esperti circa come affrontare l’emergenza sanitaria.

Per fortuna, la diffusione del suo messaggio è stata abbastanza virale e nei giorni successivi praticamente tutte le testate giornalistiche hanno dedicato uno spazio alle sue parole.

Tra i punti fondamentali del suo messaggio, ve ne era uno che non era riconducibile al suo punto di vista. Valeva piuttosto il contrario: ciò che Cattaneo sosteneva era conseguenza dell’aver preso in considerazione ciò che gli esperti virologi sostenevano.

Ci tengo a sottolienarlo ancora una volta: sto parlando di qualcosa elaborato non da Cattaneo, da me o da Ciccio di Misilmeri (cit.), ma diffuso dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), un organismo sovranazionale che, come spiega il direttore de Le Scienze, considera conclusa un’emergenza epidemica:

dopo DUE PERIODI DI INCUBAZIONE COMPLETI in cui non si registrano nuovi contagi. Sono 42 giorni per Ebola. Potrebbero essere 30 per SARS-CoV-2. Dopo di che, è richiesto a ogni paese di mantenere un’elevata sorveglianza per 90 giorni.

 Nel frattempo, come ho già riportato in un precedente articolo, nel caso del COVID 19 la valutazione precauzionale del suo periodo di incubazione si è assestata sul valore di due settimane: un periodo che porta a 28 il conteggio dei giorni dopo i quali stabilire se sia o meno il caso di abbassare la guardia.

Da qui il titolo di questa Cronaca odierna che già dalla lettura di quel post di Cattaneo, programmavo di dedicare allo stato delle cose così come lo avremmo registrato oggi.

, perché in questo mio spazio on-line, specchio parziale di ciò che avviene nel volume di casa mia, oggi sono proprio 28 giorni dall’inizio della mia incubazione – in realtà, data la base triangolare di questo appartamento, dovrei forse parlare di in-prismizzazione o di in-semicubazione. No, non vivo in una piramide…

Oggi ho quindi atteso fino alle 18:00 che venisse pubblicato il bollettino della Protezione Civile nel quale ogni giorno viene fornita la fotografia dell’emergenza nel nostro paese. Il risultato è il seguente:

Casi totali: 132.547

Persone che risultano positive al virus: 93.187

Le persone guarite: 22.837.

I pazienti ricoverati con sintomi: 28.976

Persone in terapia intensiva: 3.898

Persone in isolamento domiciliare: 60.313

Totale deceduti: 16.523 (potrà essere confermato solo dopo che l’Istituto Superiore di Sanità avrà stabilito la causa effettiva del decesso), circa 600 più di ieri.

Pur non avendo ancora capito come si ottiene quel totale iniziale a partire dagli altri totali parziali, mi sembra comunque emergere una certezza: dopo questa prima fase – e ci tengo a sottolinearlo: PRIMA fase – di segregazione lunga due periodi di incubazione, siamo ancora lontani dall’obiettivo “zero contagiati” per cui direi che non ci rimane da fare altro che metterci l’anima in pace, prendendo sul serio la prospettiva di rimanere confinati in casa almeno fino a dopo l’estate.

In alternativa, se come ci auguriamo l’emergenza dovesse finire in Maggio-Giugno, usciremo sì, ma dovremo curare di stare ancora a una distanza reciproca di sicurezza, dando ascolto alla nostra comprensibile paura e alla diffidenza non tanto nei confronti delle persone, ma per ciò che potrebbero inconsapevolmente e asintomaticamente ospitare.

No, non lo dico con sadico e sadomasochistico piacere: la cosa preoccupa anche me, specie vedendo che dopo nemmeno un mese di stop (all’italiana), un noto filosofo ha oggi pubblicamente riconsiderato al ribasso il valore della sua materia rispetto a quello della politica; una scrittrice affermata se l’è presa con un famoso cantante il quale, elegante, non ha dato prova di essersene accorto; a difenderlo ci hanno pensato, azzuffandosi tra loro sui social, i seguaci delle religioni pop nate attorno ad ognuno di questi moderni messia che nulla hanno a che fare con la famiglia divina, quella vera (?); una famiglia alla quale, sperando in un miracolo della madonna (no, non è una citazione, e sì, lo so: sembra una battuata di Pozzetto), sta guardando proprio chi, pagato anche dalla fetta di popolo laico, sarebbe almeno per questo preferibile si facesse consigliare soltanto dagli esperti.

É evidente che loro non gli bastano.

Tutto questo ribollire di nervi e atteggiamenti spesso inopportuni preoccupa e lascia presagire che dopo l’estate, una volta aperte le gabbie delle nostre case, si riverserà per le strade un fiume di belve inferocite pronte a sfogare mesi e mesi di animalità compressa.

C’è da sperare solo che, per soddisfare le intervenute esigenze di scontro all’arma bianca che la rete sta manifestando ogni giorno di più, Zuckerberg & Co. dotino presto i social da loro controllati di strumenti di offesa utili a colpire a distanza, il meno metaforicamente possibile (sempre nel rispetto della legge, però! Mi raccomando!), il nostro nemico virtuale di turno.

In assenza di curve degli stadi e di file ai semafori dove sfogare l’aggressività e impossibilitati dal frequentare letti non nostri anche solo per il tempo di una strusciata occasionale, c’è e ci sarà sempre più bisogno di uno strumento informatico che consenta di sfidare, ancora una volta metaforicamente, a duello l’odiato avatar di qualcuno incontrato in rete.

Di uno strumento del genere si potrebbe servire vantaggiosamente il governo che, con anche il problema delle prigioni piene da risolvere, avrebbe così la possibilità di regolare a domicilio il nostro livello di stress, di ormoni e di testosterone.

In rete e in tv l’urlo e la pseudo-dialettica stanno crescendo oltre il livello di guardia e dopo bocca, naso e occhi, il virus volante sta iniziando a colpire anche le orecchie.

Offese e minacce, si sa, coprono facilemente distanze ben più lunghe di un metro e andrà a finire che dopo guanti, occhiali e mascherine, al nostro outfit da epidemia dovremo presto aggiungere anche quei tappi che hanno dimostrato di funzionare così bene con il russare dei partner.

Prevedo un futuro alquanto ovattato, con mute e scafandri a proteggere la nostra bolla personale.

Che sia la prova generale di un trasferimento su un altro pianeta?

 

SZ