Informazioni su SquidZoup

Sono un astronomo e mi occupo soprattutto di divulgazione, ma esercito anche altre attività professionali: suono jazz, musica classica e mi vendo al miglior offerente per collaborazioni con artisti operanti in altri generi musicali (pop, rock, country, colonne sonore, ...); disegno fumetti e illustrazioni; scrivo articoli, recensioni e libri miei. Insomma, mi diverto con quelli che un tempo erano solo hobby e che, "diventato grande", potevo mantenere in vita solo facendoli diventare professioni. Dimenticavo: sto con Elisa, un architetto, con la quale ho progettato un figlio, Giovanni. Ho anche una "cana" meravigliosa, Lulamae-Lùlamae, un progetto che risale a circa quindici anni fa e alla quale devo moltissimo. Anzi, di più.

A proposito di armonica 2

Iniziano a essere diverse le videointerviste che mi sono state fatte e allora, in attesa di altri contenuti che presto arriveranno, le ripubblico qui così da creare la base per eventuali sviluppi futuri della discussione sull’armonica.

Ecco quindi quella fattami a suo tempo dal cantante e chitarrista barese Marco Giuliani che con questo video festeggiava il primo anno di vita della sua rivista online “Compact show” iniziata proprio un anno prima con il sottoscritto in forma diversa: inizialmente in questi video si suonava e basta, senza fare alcun cenno alla biorgrafico dell’ospite, alle sue speranze, aspirazioni, ecc.

Buona visione!

SZ

CRONACA VIRUS – Giorno 55

 VIAGGIO AL TERMINE DELLA QUARANTENA

 Doveva succedere.

Lo sapevo, lo sapevamo tutti, e per certi versi lo attendevo (lo attendevamo): il lockdown è oramai finito.

Da domani sarà una specie di apertura delle gabbie, anche se con limitazioni, preludio di una apertura ancora più radicale che credo non tarderà ad arrivare e che non farà altro che assecondare le libertà che tutti, spontaneamente e contravvenendo alle non sempre chiare disposizioni, si prenderanno.

Quando ho iniziato a scrivere mi ero posto proprio l’obiettivo di smettere con la fine della quarantena, tramutatasi poi in cinquantacinquena. Ho tenuto fede all’impegno di scrivere e terrò fede all’impegno di smettere di farlo.

O meglio, continuerò a scrivere, è ovvio che lo farò, ma terrò un ritmo più consono alla vita di chi non fa certo il blogger di professione (non sarebbe male, ma i numeri di visualizzazioni che totalizzo non mi permettono di farmi illusioni: non è la mia strada).

Tornerò quindi agli argomenti a me cari, quelli che trovate elencati nella ricetta sotto il nome di questo spazio, tralasciando altri più personali cui spesso, in questi giorni di clausura, mi sono abbandonato in un outing forse più da social che da blog.

Smetterò con queste cronache anche perché so già che dovrò dedicarmi ad altro: da domani inizierò ufficialmente a lavorare alle illustrazioni del mio nuovo libro su mito e costellazioni che uscirà a breve con la casa editrice Carta Bianca Publishing e poi dal 15 ricomincerà la mia avventura in INAF bruscamente interrotta il 6 Novembre del 2018.

Ho infatti vinto un altro Assegno di Ricerca all’Osservatorio Astrofisico di Catania dove però, per ovvi motivi, non potrò andare, che mi porterà a lavorare in smart working qui da Bologna: in qualche modo sarà una attività simile a quanto ho fatto fin qui; un prolungamento della clausura lavorativa cui oramai sono avvezzo.

Non avrò certo di che annoiarmi: nel frattempo, infatti, continuerò a girare i miei video di divulgazione astronomica, studierò nuovi brani musicali, riprenderò a fare i miei fumetti e lavorerò a un altro libro ancora che uscirà nel 2021 e di cui presto vi dirò.

Mi spiace solo che la fine della quarantena sia arrivata così presto perché, come ho già abbondantemente spiegato in questi 55 giorni, confidavo che, se fosse durata di più, avrebbe potuto apportare cambiamenti epocali al nostro modo di vivere e pensare.

Mi consolo, quindi, dicendomi che l’ho vissuta al meglio anche se un interessante articolo letto proprio oggi sul Domenicale del Sole 24 Ore (Una bella confusione di idee) mi spinge a rimettere tutto in discussione, spiegandomi che forse ho preso una gran cantonata.

In esso l’autore, il filosofo Roberto Casati, elogia proprio quella cacofonia di punti di vista che ho spesso condannato da questo mio spazio virtuale, spiegandoci come da un punto di vista epistemologico sia da ritenersi “una ricchezza da non disperdere”.

Auspica, poi, l’emersione di un “livello istituzionale nuovo” e non posso che essere d’accordo, sempre che io abbia capito davvero a cosa si stia riferendo.

Insomma, pare proprio che sia il caso di lasciare il campo per avere modo di osservare come le idee si riorganizzeranno dentro e fuori la mia testa.

E spero davvero che almeno quelle fuori si riveleranno essere vere idee e non supreme idiozie. In questo secondo caso, infatti, potremmo ritrovarci tutti a vivere una situazione simile a quella che stiamo lasciando (forse prematuramente): una eventualità che mi suggerirebbe di riprendere di scrivere queste amate/odiate Cronache Virus.

Vi ringrazio per aver letto fin qui e vi invito a continuare a farlo anche se smetterò di essere così regolare e frequente nelle mie esternazioni: pubblicherò con la mia solita, forse fastidiosa, intermittenza, scegliendo oculatamente cosa (non) dire e se (non) dirlo.

A presto e in bocca al lupo a tutti!

SZ

CRONACA VIRUS – Giorno 54

PIANO DI EVACUAZIONE

 Fila sotto il sole davanti al piccolo supermercato vicino casa mia; una geometria alquanto improbabile che si snoda tortuosa nel piccolo piazzale da sempre abbastanza animato: infatti, oltre ai vari clienti dell’edicola adiacente, siamo da sempre abituati a vedere diversi nullafacenti seduti sui muretti attorno a chiacchierare, nonché intere famiglie di senza casa che lì spesso stazionano.

La fila procede lenta e, come è ovvio che sia, si entra scaglionati, uno per volta. Quando finalmente una signora riesce a entrare nello stabile, mentre tutti stiamo per fare il fatidico passetto in avanti – un piccolo passo per una signora, un piccolo passo per l’intera colonna -, un’altra rappresentante del gentil sesso, seguita da sua figlia, si alza da un muretto posto in uno dei vertici della piazza, sventra diagonalmente la spira di persone e si va a piazzare davanti alla porta di ingresso del Market.

Nel frattempo, in corrispondenza di una delle curve del serpentone, come affluenti minori di un fiume, compaiono prima un signore, poi una donna, poi un’altra ancora e vanno tutti a rendere quello che era un percorso abbastanza discernibile, qualcosa di complicato, di ramificato, capace di far drizzare le antenne e far aumentare alquanto il nervosismo già alto di suo per il fatto di fare tutti da bersaglio a chissà quali invisibili proiettili virali.

Sono lì sotto il sole oramai da un po’. Quando hai deciso di rimanere, lo hai fatto sulla base di una valutazione approssimativa del tempo che avrebbe preso l’attesa. Una valutazione, vero e proprio studio di funzione della serva, attuata tramite un calcolo veloce della velocità di scorrimento di quel lungo lombrico di acquirenti e di quanti anelli che compongono il suo lungo corpo hanno la precedenza su di me e tutto a un tratto scopro che le mie valutazioni iniziali non sono servite a nulla: potenzialmente, tutte le persone che vedo disperse nella piazza, più a questo punto anche quelle che non vedo, potrebbero da un momento all’altro reclamare il loro diritto a sfociare nel fiume principale con estuari alquanto barocchi e carpiati.

Lo faccio notare ai nuovi arrivati, invitando poi eventuali altri clienti a sistemarsi come me in fila; sentendo le mie parole, subito altri intervengono a difendere chi la signora, chi il signore, chi il ragazzo, chi…

Scorpo così che la fila è variamente composta: vi è una percentuale di persone come me, evidentemente meno furbe;  poi ve n’è un’altra abbastanza cospicua di personaggi completamente assoggettati a una mentalità distorta che, a differenza di me, accetta di buon grado di starsene in fila mentre altri stanno comodi chi in macchina, chi seduto chissà dove; poi vi è la “fila ombra”: quella che si paleserà solo al momento giusto, complicando inutilmente una cosa semplice come una fila di attesa. Nel complesso, forse, una cinquantina di persone.

Hai chiesto a tutti di sistemarsi in maniera tale da rendere chiara la situazione e il risultato è ora un borbottìo più o meno sommesso e indiscernibile dal quale ogni tanto emergono chiare parole come “cattiveria”, “mancanza di pazienza”, “mancanza di buon senso” (sì, ancora lui. Ancora ‘sto cazzo di buonsenso…).

Una signora se ne esce con una teoria assurda: dice che la fila ha sempre avuto una forma diversa, che avremmo dovuto farla sviluppare in un’altra direzione facendo intendere che, per quanto regolarmente incolonnati, eravamo noi (una trentina di persone) quelli da condannare. Le chiedo di dirmi ogni quanto viene a fare la spesa perché quel sempre mi suona strano: io lì vado al massimo una volta a settimana, quando non ogni due, e le file sono una conquista recente: non ne abbiamo mai fatta una prima dell’emergenza sanitaria.

Lei allora, forse sentendosi colta in fallo – sarà una di quelle che va a comprare qualcosa tutti i giorni, o quasi – mi dice che è stata lì la scorsa settimana. Allora le faccio notare che il suo concetto di “sempre” è alquanto annacquato, ma proprio mentre lo dico, mi rendo conto che argomentare non fa altro che peggiorare la mia situazione: ho usato anche il termine “razionalità” e questo mi ha posto subito nella schiera dei cattivi.

Da ora in poi potrò solo confidare nella mascherina che un po’ copre i miei lineamenti, anche se so che la mia fisionomia nel quartiere è nota un po’ a tutti, esattamente come la loro purtroppo mi risulta familiare.

Sopporto. Taccio e dopo mezz’ora entro.

La storia già narrata in queste cronache non solo quindi si ripete, ma addirittura si aggrava: un via-vai continuo di persone intasa corsie strette e non contingentate, né controllate. Piuttosto che sfruttare tutto lo spazio a disposizione per mettere la massima distanza tra di loro, tutti si sfiorano, si passano vicinissimi e tacitamente si confermano che il 4 è già arrivato.

Per usare, oltre a resilienza e draconico che oramai, se non li collochi in un qualsiasi discorso, non sei nessuno, un altro termine fondamentale, direi che pur essendo il 2 Maggio misurato, il giorno percepito è come minimo il 6 o il 7.

Finalmente sono in fila a un metro dalla cassa, lì nel budello vicino alle confezioni d’acqua. Un’altra signora nella mia stessa fila, ma tre posizioni dietro di me abbandona il carrello a segnare il suo posto e mi si avvicina decisa.

Mi chiedo cosa accidenti voglia e lei, guardandomi fissa negli occhi, mi dice che deve prendere una confezione d’acqua.

La situazione è così surreale che rimango come stordito, quasi che, una volta avvicinatasi, mi avesse dato una sberla: procedendo lungo quella fila, si sarebbe trovata anche lei nella mia posizione, cosa che le avrebbe permesso di prendere la sua stramaledetta confezione d’acqua senza doverla trasportare fino al carrello e, soprattutto, senza doversi avvicinare a me e a tutti quelli prima di me che non ha potuto fare a meno di sfiorare, se non di toccare.

Ecco: tutta questa gente è quella stessa che incarna il buonsenso, che lo usa, che lo insegna, che lo professa, che lo sbandiera.

Questa è la gente per la quale il Presidente del Consiglio e la sua task force stanno elaborando piani su piani per arginare la pretenziosa stupidità vestita da intelligenza pratica, da saper vivere e altre analoghe minkjate della maggior parte dei cittadini. Quelli che non sanno evitare di creare rumore e nervosismi evitabili (e da evitare) nemmeno nel fare una semplice fila.

Mi balla davanti agli occhi uno strano identikit, un riassunto dai tratti suini e androgini di tutte le persone incontrate. Mi guarda negli occhi con la sufficienza di chi, espressione paradigmatica del nulla cosmico, ha dalla sua il sostegno dei più: il 90% delle persone che incontro e che condanna la razionalità dal pulpito sovraffollato del buonsenso: quello che mette tutti d’accordo solo su una cosa: facciamo tutti come ci pare perché è così che si fa; perché le indicazioni che ci hanno dato sono esagerate, frutto di fantasie perverse di gente che ama esercitare il potere e che quindi merita la nostra opposizione, bla-bla-bla.

Torno a casa e nel giardinetto condominiale, là dove in passato hanno lasciato per mesi e mesi sacchi di spazzatura, barbecue incrostati, carrelli della spesa con dentro assi di un soppalco rotto, pezzi di furgone, … trovo una vasca da bagno lasciata lì non si sa bene da chi e quando; non si sa bene perché.

A suo tempo nessuno mi ha veramente convinto nel mentre mi spiegava che devo amare il mio prossimo.

Per fortuna poi è intervenuta l’Educazione Civica a ridimensionare la faccenda, mostrandomi in modo convincente perché secondo la Costituzione io DEVO rispettare quel mio prossimo che proprio non riesco ad amare, e questo mi basta, mi deve bastare, e avanza, pure.

Forse gli altri si amano tutti, non so. Di sicuro so invece che non si rispettano: non rispettano gli altri perché inconsapevolmente non rispettano nemmeno se stessi.

Ora però vi prego: qualcuno mi spieghi perché in questa stramaledetta fase 2 dovrei dare fiducia a tutti.

Dargliela è come dire che si può dare a chiunque la possibilità di guidare senza aver preteso che sostenesse prima l’esame di guida; dargliela è come dire che chiunque può dirigere un team calcistico senza mai aver fatto sport; dargliela è come dire che chiunque può dirigere la protezione civile senza mai aver nemmeno fatto volontariato.

Dargliela è come dire che tutti possono mettere bocca su problemi di didattica senza mai nemmeno aver insegnato un giorno; dargliela è come dire… tutte le fesserie che si leggono sui social e che si sentono al bar.

Un paese di monarchici in pectore che, strapieni di ostentata e ingiustificabile autostima, non potendo, come molti dicono di desiderare, essere sudditi di un nuovo reuccio dai pieni poteri, si scoprono anarchici chiassosi e inconcludenti.

Qualcuno sa da che parte è l’uscita?

SZ

CRONACA VIRUS – Giorno 53

COSA (NON) È LA SCIENZA

Oggi, parlando al telefono con un amico, è venuto di nuovo fuori un concetto oramai trito e ritrito col quale si attaccano le azioni di questo governo: a detta sua, e di tanti altri in giro per lo stivale, Conte & Co. sono colpevoli di una certa intermittenza nelle decisioni e nelle indicazioni prese per tentare di contrastare la pandemia.

Lo ribadisco subito perché, prima di passare al suo sviluppo, tengo a mettere  in chiaro il valore delle costanti del problema: di sicuro non sono e non sarò mai un sostenitore di esecutivi con quei colori così sbiaditi, almeno nelle parti dello spettro in cui preferirei vedere tinte decise.

Detto questo, trovo che la richiesta di indicazioni certe e non contraddittorie circa il da farsi siano l’espressione di una paura di certo condivisibile, anzi, condivisa anche da me: ovvio che tutti preferiremmo sapere esattamente cosa fare per bloccare la diffusione di un virus così subdolo e ancora sconosciuto, ma pare proprio non sia possibile al momento ricevere indicazioni precise e rassicuranti.

Credo che, se ce le potessero dare, lo farebbero. C’è solo un altro caso in cui ce le fornirebbero senza farci tribolare troppo: parlo dello scenario tanto temuto dai complottisti i quali non si rendono conto che, se davvero ci fosse un piano così ben strutturato come immaginano, l’unico modo di farlo funzionare sarebbe ostentare una sicumera tale da spingerci tutti a fare qualcosa che alla lunga si rivelerebbe svantaggioso per la maggior parte di noi.

L’implicita ammissione di impotenza manifestata con decreti ondivaghi, un po’ cerchiobottisti, capaci di scatenare l’ilarità e tanto sano umorismo sui social, credo sia l’espressione di una crisi profonda della politica. Nel tentativo di non scontentare troppo l’italiano medio, l’esecutivo prova a coniugare questa esigenza col parere dei cosiddetti esperti.

Questi ultimi, dal canto loro, scoprono che la loro esperienza sta evolvendo proprio in questi giorni e proprio grazie a ciò che osservano nel comportamento del COVID 19: un vero, ulteriore tirocinio che rischia di dover essere rinnovato ogniqualvota apparirà sulla scena un virus del tutto sconosciuto.

Ciò che sto cercando di dire è che, non essendomi formato in nessuna scuola di politica, trovo provvidenziali le emissioni scoordinate del governo – fanno quasi tenerezza – che suggerisco di riguardare come un ottimo modo di tastare il polso per controllarne lo stato di salute.

Vera e propria scatola nera per noi che riceviamo simili messaggi convulsi attraverso i giornali, amplificatori di rumori polarizzati piuttosto che reali veicoli di vera informazione (sul concetto di vera informazione, poi, potremmo soffermarci un bel po’…), non possiamo sapere lungo quali fili, attraverso quali resistenze e in quali condensatori si creano le correnti che registriamo con i nostri amperometri personali.

Avere la possibilità di osservare quelle oscillazioni di corrente politica così macroscopiche mi sembra dunque un dato da leggere come indizio positivo: la politica sta seguendo la scienza.

Lo so, sembra proprio che oggi a pranzo io abbia esagerato col vino, e non è detto che non sia vero, ma cercherò di spiegare ciò che intendo, tentando di convincervi che gli effetti dell’alcool siano oramai sfumati.

Sentendo e leggendo le obiezioni dei miei amici e conoscenti i quali condannano pure un analogo imbarazzo in ciò che dicono i ricercatori dell’Istituto Superiore della Sanità e i virologi della Protezione Civile (senza capire che vi è correlazione tra decisioni del governo e pareri degli esperti), mi sembra evidente l’estrema diffusione di una idea totalmente errata di scienza.

La si immagina, perché la si vorrebbe così, come quella cosa che non ha tentennamenti, capace di fornire sempre notizie certe e definitive. Se qualcosa non presenta queste due caratteristice, allora nell’opinione pubblica non è scienza.

Ho come il sospetto che una simile visione alberghi nella società da tanto tempo, e che solo in alcuni casi estremi come quello che stiamo vivendo, abbia la possibilità di manifestarsi.

Figlia, credo, di un certo modo di proporre a scuola materie come matematica, fisica, chimica, biologia, geografia astronomica, … che prescinde dall’insegnamento della storia delle idee scientifiche lasciata al buon cuore dei docenti più avveduti e preparati di filosofia, porta a recepirle come elenco delle facili vittorie dell’intelligenza umana sulla Natura.

Se ho ragione, ogni singola formula, ogni singolo passaggio di un testo scientifico potrebbe essere percepito come il frutto di episodici lampi di genio che hanno portato persone baciate dalla fortuna epistemica a vergare quelle relazioni così impeccabili quasi in preda a una ispiratissima scrittura automatica guidata dal demone della conoscenza.

Una ipotesi, questa, che dovrebbe forse spingerci a correre ai ripari al più presto, mandando tutti i docenti di materie scientifiche a scuola di filosofia della scienza per metterli in grado di spiegare ai ragazzi, una volta per tutte, non solo cosa sia davvero il metodo scientifico, ma cosa davvero sia la pratica scientifica e, in definitiva, la scienza.

Mi aspetto che, se un giorno tutto ciò verrà fatto sul serio, lo scopriremo ancora una volta in modo indiretto, osservando come finalmente nessuno si sorprenderà più dell’indecisione dei ricercatori di fronte a un problema nuovo che in tempi di scienza normale – quindi non certo quella al momento all’opera, drogata com’è di fretta e timori – prima di giungere a risultati comunicabili al pubblico pretenderebbero anni di esperimenti e fallimenti.

Le indecisioni manifestate dal nostro governo le ritengo, per questo, espressione di un suo continuo interfacciarsi con ciò che gli esperti dicono. E ciò che gli esperti dicono è una serie di affermazioni con validità statistica al momento bassa: più passa il tempo e più siamo garantiti dalla possibilità che chi lavora su certe tematiche abbia avuto il tempo di osservare un’ampia casistica, di formulare ipotesi, di rivederle e rimodularle tante volte. Un processo da reiterare fintanto che non si è giunti all’optimum: qualcosa che si può ottenere solo con una notevole ridondanza di conferme.

Per quanto fin qui detto, in una fase come quella odierna ancora vicinissima all’esplosione dell’epidemia, affermazioni perentorie, mai contraddittorie, granitiche, credo andrebbero piuttosto connesse con la volontà di un esecutivo fascistoide – e non è un caso se le uniche certezze strombazzate sui media ci arrivano proprio da quella fazione – o, in alternativa, con la visione di un pazzo despota, circondato da lacché senza opinione e capacità di contraddittorio.

In conclusione, credo di poter dire che questo governo di Schrödinger sta bene almeno al 50% e che, attendendo un tempo ragionevole, avremo modo di guardare dentro la scatola per vedere se è del tutto morto o se gode di ottima salute.

Allora per il momento mi godo  la certezza che le cose potrebbero andare sì meglio, ma solo per quanto riguarda il funzionamento delle strutture sanitarie – ne approfitto per condannare decenni di picconate date alla ricerca e al Servizio Sanitario Nazionale: se i governi passati lo avessero reso forte come avrebbe dovuto essere, oggi non avremmo certo avvertito questo terrore di ammalarci .

La paura di fare passi falsi che dimostra Palazzo Chigi sta rivelando la sana fragilità di chi procede nel buio seguendo passo passo l’incedere titubante di chi cammina davanti a tutti reggendo solo una candela.

In un momento in cui nessuno può averlo, lascio quindi volentieri le certezze a maghi, fattucchiere, astrologi e dittatori.

Viva l’onesta incertezza!

SZ

CRONACA VIRUS – Giorno 52

NON TI CONOSCO, MASCHERINA!

Alle volte mi sembra di essere una antenna impegnata a lanciare tutto intorno, senza averne coscienza, segnali che prima o poi dimostreranno di essere stati ricevuti da qualcuno lontano da qui.

Basta stare in orecchio per avere l’impressione che un tuo pensiero, anche se elaborato in un momento di silenzio, vissuto durante la quarantena, rinserrato nel tuo appartamento, sia stato accolto da qualcuno che proprio non conosci e che non puoi mai avere avuto modo di incrociare.

E così capita di avere la possibilità di sentire pronunciare dalla bocca di una faccia incontrata alla fermata dell’autobus che suono ha qualcosa che tu hai solo immaginato senza parole; oppure può capitare di vedere che aspetto ha un tuo pensiero puro se realizzato come disegno o foto in un manifesto pubblicitario; o puoi scoprire di che lettere avresti avuto bisogno se solo avessi deciso di renderlo articolo di giornale.

Ed è proprio in una di queste situazioni che mi sono trovato a vivere stamane leggendo un po’ dell’ultimo Domenicale: nella pagina dedicata a Scienza e Filosofia, in un bell’articolo – ancora una volta non si tratta di una recensione (in realtà, poi si scopre che lo è, ma in forma velata): va a finire che mi ascoltano davvero! – di Giorgio Vallortigiara, ho visto prendere forma di parole stampate alcune domande che mi ero posto pochi giorni prima.

Forse sbaglio a pensare di essere stato una antenna emittente: magari ho avuto solo il ruolo di antenna ricevente anche se, mi dico, se non da me, quell’idea che si è fatta strada nella mia testa da qualche parte deve essere pur partita. Ergo, se non sono stato io il pensante 0, qualcun altro deve esserlo stato.

E se quel qualcuno non è stato lo stesso Vallortigiara, nel leggere quell’articolo o magari nell’imbattersi in questo mio post, il vero pensante originario sospetterà proprio quanto ho pensato io: di avere lanciato nell’etere, senza volerlo,  un suo pensiero (e così il cerchio si chiuderà): siamo tutti antenne che. pur solo immaginando, anche senza volerlo, anche se in silenzio, anche se al chiuso, emettono e ricevono segnali (?).

No, non sto proponendo un teorema. Si tratta solo di fantasie in libertà che non hanno nessuna pretesa di essere scienza. Sono solo sospetti, ipotesi; e null’altro.

Se invece è la scienza che volete, allora la trovate proprio nell’argomento di quel mio pensiero che forse ha viaggiato per finire nell’articolo del Domenicale, o che invece ha fatto il percorso inverso, dalla redazione di quel giornale fino a casa mia.

Un argomento il cui nome nell’articolo non viene mai esplicitato e che è conosciuto fra gli specialisti come pareidolia: processo del nostro cervello – allo studio del quale anche io, nel mio piccolo, ho provato a dare un minimo contributo scientifico – che si attiva allorché tentiamo di riconoscere forme note, come le facce dei conoscenti, in mezzo al gran caos di altre meno familiari o del tutto ignote.

Con quell’articolo, Vallortigiara aveva solo intenzione di dirci che, pur senza rendercene conto, da quando abbiamo iniziato a usare le mascherine vi è in atto un cambiamento importante nel modo di percepire il prossimo. Un cambiamento che dipende dalla riduzione al silenzio dei neuroni del nostro cervello deputati alla decodifica delle espressioni facciali e che ora non potranno lavorare sugli elementi delle nostre facce coperti da quei presidi medici divenuti tutto a un tratto tanto popolari.

Come l’autore in chiusura del suo pezzo scrive

(…) penso alla gente che guarda i volti coperti dalle mascherine, e a tutti quei neuroni siolenziosi, nella corteccia temporale inferiore. Certo aiuterebbe disegnare sulle mascherine l’elemento strutturale mancante, un simulacro di bocca, così da rendere festosi i neuroni delle facce.

La strana coincidenza di cui parlavo in apertura di questo post è stata che proprio una decina di giorni fa avevo appuntato su un file word un’idea analoga: avevo infatti intenzione di parlare in queste cronache di come sarebbe cambiata la percezione del prossimo in dipendenza del fatto che, dopo avere già in parte occultato il volto con occhiali da sole, con le mascherine esso non sarebbe stato più disponibile a farsi sottoporre agli sguardi altrui.

Immaginavo che, col tempo, avremmo quindi iniziato tutti, senza dichiararlo, a ritenere più importanti elementi del nostro aspetto fisico sui quali fino a due mesi fa nella maggior parte dei casi il nostro occhio si soffermava solo in-coscientemente: sopracciglia, orecchie, collo, capelli.

Ipotizzavo, quindi, che vi sarebbe stato molto più spazio per valutazioni del corpo nel suo insieme, del modo di muoversi, della voce, dell’odore;

che le divise avrebbero goduto di una nuova stagione di popolarità per il loro offrire facili e chiari appigli all’identificazione, se non della persona, almeno del suo ruolo sociale;

che, oltre alle mascherine personalizzate, avremmo iniziato a usare vecchi elementi di abbigliamento in modo del tutto nuovo, alla ricerca di una caratterizzazione, di una possibilità di distinguerci in una folla di indistinguibili tutti simili;

che in molti casi avremmo iniziato a esporre i nostri nomi stampigliati sul petto;

che i già popolarissimi tatuaggi, da puro elemento estetico, avrebbero assunto un’importanza capitale rendendo di contro, e per motivi del tutto analoghi, pure importantissimo il non averne.

A questo punto, lo dichiaro, e voglio proprio vedere se poi sbuca fuori da qualche altra parte: data l’importanza che altri sensi come l’olfatto e l’udito inizieranno ad avere rispetto alla vista che ora risulta essere meno capace difornirci appigli nel riconoscere le persone, ho immaginato che qualcuno avrebbe iniziato a fare mascherine capaci di donare una voce più bella di quella reale o che, addirittura, avrebbe preso piede la moda di fare la plastica alle corde vocali (si può?).

In conclusione, non posso che gioire nel notare come alcuni difetti potrebbero addirittura diventare vantaggi evolitivi: il mio lunghissimo naso collodiano risulterà riconoscibilissimo anche sotto una mascherina (che nel tentare di coprirlo assumerà la forma di una canadese)!

SZ