CRONACA VIRUS – Giorno 7

                              MIO CUGINO HA GLI OCCHI A MANDORLA

Mi appassiona osservare il cielo stellato. Da ciò ne consegue che mi affascina anche tutto ciò che riguarda le costellazioni delle quali racconto le caratteristiche in una serie di video che sto proponendo, mese dopo mese, e nei quali racconto quali elementi di cielo profondo contengono, quali miti sono da associare a esse, ecc…

Alla fin fine, però, si potrebbe pensare che si tratti di un discorso abbastanza vacuo: pur essendoci davvero, all’interno dei confini che abbbiamo dato a quelle regioni di cielo, gli elementi astronomici di cui parlo in quei video, si scopre che le costellazioni, intese come aree bidimensionali che ritagliano la volta celeste, non esistono.

Si tratta di illusioni ottiche generate dall’incapacità del nostro sguardo di valutare le diverse distanze che separano i puntini stellari, quelli che il nostro cervello unisce con segmenti immaginari per fomrare geometrie familiari.

Forme piatte di sicuro comode per orientarci in cielo, ma che da un punto di vista astrofisico non hanno molto senso e aventi a che fare molto più da vicino con le motivazioni antropologiche, sorrette dai nostri limiti fisici, che ci hanno storicamente portato a “scorgerle” in cielo.

In realtà si scopre che, se davvero fossimo interessati a partizionare il cielo in costellazioni reali, ovvero scegliendo punti che siano effettivamente correlati da fattori fisici e non da altri meramente antropologici, potremmo attuare la scelta non certo intuitiva e di sicuro poco comoda di congiungere solo le stelle che condividono una stessa metallicità, una stessa età e un comune moto proprio: una misura di quanto e come esse si spostano nello spazio e nel tempo e capace di mostrare se quegli astri provengono da un punto particolare nel quale tutte hanno avuto origine e dal quale, nel tempo, si sono allontanate, “evaporando”.

Simili insiemi stellari vengono indicati con vari nomi: gruppi cinematici, associazioni stellari o, un termine forse più evocativo degli altri, correnti stellari.

Di simili aggregazioni se ne conoscono già molte e, come credo sia facile intuire, restituiscono una immagine del cielo alquanto diversa da quella alla quale siamo avvezzi.

A questo punto del discorso, qualcuno forse si starà chiedendo perché, in una rubrica quotidiana che parla della vita ai tempi del coronavirus, io oggi abbia iniziato parlando di costellazioni.

É presto detto: ieri mi è capitato sotto gli occhi un altro articolo molto interessante che proponeva un’ipotesi ancora in attesa di essere corroborata da nuovi dati circa la diffusione dell’epidemia sul globo terrestre.

In questo articolo si avanza l’ipotesi che il veloce propagarsi del virus sia in qualche modo aiutato dagli spostamenti delle persone che avvengono soprattutto all’interno di una particolare fascia di latitudini, quella tra i 30 e i 50 gradi a Nord dell’Equatore. Quella fascia abbraccia una serie di regioni caratterizzate da un valore simile dell’umidità e da un preciso profilo di temperatura: due parametri che, su periodi di qualche mese, mostrano di rimanere abbastanza stabili in un ristretto range di valori.

I ricercatori dell’Università del Maryland che hanno proposto questa ipotesi – afferenti alla collaborazione mondiale Global Virus Network la quale monitora l’evoluzione delle epidemie – chiamano quella stretta fascia che circonda il pianeta la cintura del coronavirus e avanzano l’ipotesi che, man mano che ci avviciniamo all’estate boreale, all’innalzarsi progressivo della temperatura, il virus smetterà di essere lì così aggressivo  preferendo migrare in altre cinture meno calde dove si troverà più a suo agio.

Una previsione che ha il pregio di rendere questa ipotesi falsificabile, conferendole così, da un punto di vista squisitamente epistemologico, quel carattere necessario per essere considerata una vera e propria teoria scientifica: presto il processo di peer review giungerà a conclusione grazie a ciò che sperimenteranno i nostri pari. No, non si tratta delgi scienziati, ma dei nostri simili che vivono altrove.

Accade così che noi europei che ci affacciamo sul Mediterraneo, ci ritroviamo associati nella sorte all’Iran, a una lontanissima area della Cina, alla Corea del Sud, al Giappone e all’America del Nord: zone molto distanti da noi non solo da un punto di vista geografico, ma anche e soprattutto da quello culturale: eccezion fatta per il nord America, figlio del colonialismo del vecchio continente, ed escludendo i fattori che, subendo la spinta dei mercati mondiali, tendono a omogeneizzare il patchwork di culture e tradizioni, da un punto di vista storico abbiamo ben poco da spartire con la visione del mondo dei paesi posti molto più a oriente della nostra posizione.

Eppure, nonostante queste indubbie differenze, credo farei meglio ad usare l’imperfetto, e non solo a causa della globalizzazione di origine antropica cui facevo cenno, dicendo che avevamo ben poco da spartire con quei lontani paesi. Infatti la globalizzazione naturale causata dall’emergenza epidemica ha accomunato tutte quelle nazioni nella paura, nel dolore e nelle strategie di fronte al nemico comune.

In definitiva, il coronavirus ha donato alle popolazioni che occupano quella cintura un importante elemento comune che di sicuro troverà posto tra gli aggiornamenti dei libri di storia che in quelle nazioni verranno stampati in un prossimo futuro.

Probabilmente l’evidenza di essere così strettamente accomunati da alcuni parametri fisici a quelle lontane aree del globo poteva già da tempo essere notata ma, climatologi a parte, non credo che qualcun altro lo abbia davvero fatto. Ora, però, che anche i colori sgargianti delle mappe mostrate nell’articolo citato ci aiutano a farlo, credo sia il caso di cominciare a chiederci cosa davvero significhino termini come nazione, regione, area geografica.

Oggi, infatti, grazie allo sguardo oggettivizzante dei satelliti che pongono la pallina terrestre sul tavolo per osservarla meglio e consentendoci di disegnare quelle mappe colorate, possiamo vedere in modo chiaro le correlazioni esistenti tra noi e gli altri.

Si tratta di una visione moderna che deve di sicuro spingerci a valutare retrospettivamente quanto di comune con quelle lontane culture abbiamo avuto anche in passato.

Una volta compreso, e intuendo come in futuro di sicuro avremo molte più prove analoghe di correlazione a distanza (alla fin fine, il nostro è un pianeta davvero piccolo…), è probabile che si debba rivedere il concetto di nazione e di regione, da intendere come aggregazioni di persone che convivono in un’area geografica, che condividono una cultura, una tradizione, una lingua. Una revisione del tutto simile a quella che invitavo a fare in apertura per le costellazioni di stelle.

Si, perché si tratta, anche in questo caso, di immagini di sicuro comode e utili, quasi si tratti di  “costellazioni nazionali” e/o di “asterismi regionali”, ma solo a una prima, superficiale analisi della situazione globale.

Una situazione in rapida evoluzione che in futuro immagino ci porterà a scoprire come forse si condivida molto di più con chi, pur se metricamente lontano, sperimenta le nostre stesse temperature, umidità, latitudini e chissà quale altro parametro fisico che, non visto, agisce dal basso, imparentandoci.

Forse questo in parte spiega anche come mai, di fronte alla minaccia del coronavirus, siano state adottate le differenti strategie di cui parlavo ieri. Le nazioni del vecchio continentena vivono secche differenze di temperatura che potrebbero trovare tranduzione nell’ostentanzione di notevoli, umide differenze di temperamento.

Lo studio del “moto proprio” dell’epidemia ce lo sta mostrando in modo molto chiaro: le regioni vere, costellazioni della volta terrestre, sono ben altra cosa.

 

SZ

 

 

 

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