TEORIA DELLE EVASIONI
Durante questa quarantena sto aumentando il carico di lavoro cui quotidianamente mi sottopongo. Dal momento che, data la situazione, questo lavoro (il corsivo è d’obbligo), non dà quasi mai (ancora) luogo a un guadagno monetario, profilandosi piuttosto come una azione compiuta “su me stesso” e sulle cose che amo fare, mi appare chiaro che il superimpegno cui mi sottopongo altro non è se non una reazione psicologica, una difesa interna, messa automaticamente in atto per tenere a bada eventuali malumori e depressioni.
Del resto, è una tecnica che conosco bene in quanto, oltre ad avere fatto così anche da giovane in quel lungo periodo di apprendistato in cui le passioni nascono e letteralmente ti travogono con tutto il loro carico di fascino e mistero, nell’ultimo anno e mezzo ho vissuto intensamente un’analaoga situazione di appartamento (nel senso di appartarsi nel proprio…): eccezion fatta per qualche committente rimastomi fedele sin da quando ero un free-lance puro, negli ultimi quindici anni ho lasciato andare molti di loro – in fondo, un lavoro, seppur precario, lo avevo già – e tutto ciò si è inevitabilmente tradotto in un notevole isolamento personale e lavorativo.
Tornando alla tecnica di cui parlavo più sopra, confesserò che consiste nel lavorare senza sosta sui propri progetti tenendosi saldamente aggrappati a un qualsiasi “pensiero felice”. Nell’immensa varietà di tipologie di simili appigli, personalmente tendo a tenere in particolare riguardo quelli che ho battezzato “vigilie”, un termine che mi piace così tanto da avere programmato di renderlo il titolo di un progetto cui sto timidamente lavorando.
Si tratta di eventi capaci di dare molta più felicità nell’attesa di qualcosa che nel suo palesarsi vero e proprio.
“A giorni arriva Babbo Natale e molto probabilmente sarà bello aprire i regali. O forse no, non lo sarà perché scoprirò di non aver ricevuto ciò che desideravo. Nel dubbio, mi godo l’unica cosa davvero capace di generare positività e felicità: l’attesa della sopresa. L’attesa di Babbo Natale”.
Un fan di Freud forse potrebbe identificare in questa at-tenzione per ciò che deve arrivare e per la tendenza ad essere vigili durante la vigilia che implica, i ruderi di una malsopita o malgestita fase anale, ma tant’è. La società mi sembra adottare di continuo stategie che molto hanno a che fare con essa e alcune tecniche pubblicitarie basate proprio sulla creazione dell’evento, sull’annuncio dell’uscita di un prodotto o sull’esaltazione della data in cui qualcosa succederà, sembrano proprio confermare il mio sospetto.
Nella mia attività da recluso, dopo giorni e giorni di lavoro per i fatti miei, sui fatti miei, quindi di ritenzione, il pensiero felice, la vigilia, l’attesa del regalo d Babbo Natale è sempre stato il momento in cui avrei incontrato gli altri: la data del concerto in cui avrei condiviso il palco con amici musicisti; la conferenza, il seminario o il corso che mi avrebbero portato a vivere un salvifico bagno di folla prima del ritorno alla solitudine; la festa, il barbecue, la cena tra amici; l’appuntamento con una amica per andare a cinema o per altre cose decisamente più interessanti, ecc.
Sapere di avere già in programma qualcosa che, col suo carico emotivo, mi avrebbe fatto sentire giustificato nell’andare fuori e abbandonando per un po’ il lavoro quotidiano su me stesso, sapere che gli altri mi offrivano un’ottima scappatoia per distrarmi da me e portare la mia attenzione su di loro e sul “noi”, mi faceva davvero bene.
A posteriori, anche in questo caso poteva capitare di scoprire che l’evento non valesse l’investimento emozionale compiuto a monte, ma il suo lavoro di pensiero felice lo aveva svolto egregiamente, e questo bastava.
In questi casi, poi sfortunati, bastava allora invertire i ruoli delle immagini mentali e a proteggermi dalla depressione interveniva il ricordo di cosa avrei trovato nel mio ambiente domestico: lì vi erano intatte le mie rassicuranti certezze, i miei interessi, le attività interrotte per uscire. Loro non mi avrebbero tradito: le avrei ritrovate intonse lì a casa, pronte ad accogliermi subito dietro la porta, scondinzolanti e affettuose come solo la mia Lulamae sapeva fare.
Bene, è arrivato il momento di confessarlo: ieri sono andato fuori.
É stata proprio quell’ubriacatura di contatti umani, di strette di mano, di abbracci di cui avevo bisogno e oggi mi sento già meglio e motivato a continuare con la scultura quotidiana della mia persona.
L‘occasione per uscire è arrivata tre giorni fa, quando i Gerebros, miei amici fraterni di lunghissima data con i quali spesso collaboro anche per interessantissimi progetti di comunicazione (loro si occupano proprio di comunicazione spettacolare), mi hanno chiesto se volevo partecipare a un circle talk: una tavola rotonda da loro organizzata per conto di ENEL e che avrebbe dovuto svolgersi nella serata di ieri. L’argomento è presto detto: si sarebbe parlato di arte.
Di quel cerchio, sarei ovviamente stato solo uno spicchio. Oltre ai fratelli Geremicca, avrei incontrato Marco Tutino, uno dei nostri più grandi compositori contemporanei, e lo scultore Jago Cardillo divenuto nel giro di pochissimo tempo estremamente noto per le sue incredibili capacità artistiche e per il suo modo di sicuro attuale di comunicarle al mondo.
In questo contesto avrei dovuto fare né più, né meno la parte di Angelo, ovvero di chi, pur condividendo un percorso simile a quello dei miei due compagni di merende, ha trovato la propria cifra altrove, nella commistione dei linguaggi attuata tramite il filtro della scienza.
É arrivato il momento di rassicurarvi tutti: no, non sono affatto uscito di casa venendo meno ai principi che ho strombazzato come fondamentali in questi ultimi quindici giorni. La tavola rotonda di cui parlavo si è svolta on-line e ci siamo incontrati tutti sulla rete, rimanendo su maglie ben distanti le une dalle altre e condividendo sì il server, ma anche lo spazio dello studio dei due fratelli Geremicca.
Sì, perché in quello studio vi erano solo i corpi dei due fratelli e i monitor sui quali campeggiavano i tre faccioni degli ospiti, gli altri tre spicchi del cerchio. Marco parlava da Milano, Jago da New York e io da Bologna.
Oltre ai concetti emersi in questa splendida e rara occasione di scambio – tutte idee che, sospetto, costituiranno l’argomento di una o più cronache virus future – l’aspetto di tutta la faccenda che mi ha colpito davvero, quello che, come un cecchino, ha centrato in pieno l’Angelo di carne, sangue e ossa che vive realmente a grande distanza da Milano e New York, è che per due giorni il mio pensiero felice è stato proprio quell’appuntamento:
sapevo, e mi faceva stare molto bene, che avrei condiviso qualcosa con persone di indubbio spessore artistico e umano; sapevo che li avrei “incontrati” e che avremmo discusso pungolandoci vicendevolmente e inscenando un copione al quale, a fare da capoversi per le nostre battute, purtroppo mancavano soltanto i colori sgarianti di una tavola imbandita e i profumi delle cibarie appena sfornate.
Per due giorni, il mio cervello si è venduto la cosa come “domani andrai fuori. Domani uscirai per vedere persone. C’è una festa. C’è una cena. C’è un con-certo da fare.
In pratica, la mia mente non ha solo registrato l’impegno in programma, ma dopo pochi giorni di abitudine al nuovo e necessario stile di vita, ha dimostrato di essersi subito adattata ad esso traducendo, in modo adeguato alla situazione, formule verbali che prima usava per farmi stare bene e che avevano dimostrato di funzionare.
Il cervello umano, si sa, è estremamente flessibile e, nonostante la mia età non più giovanissima, il mio ha superato lo stress-test dimostrando di possedere ancora una rassicurante elasticità e capacità di adattamento al mutare degli stimoli esterni.
Tra l’altro, si è trattato di un momento di condivisione al quale mi sono presentato elegante, curando che in qualche misura lo fosse anche l’ambiente nel quale mi trovavo. Un ambiente che stavolta, assieme alle mie idee e alla mia immagine, mi sono portato dietro.
Se prima l’ambiente domestico rimaneva un elemento estraneo alla fase di incontro con gli altri, se costituiva solo un sottinteso oscuro e indefinito, facente parte di una zona privata del tuo essere nella quale le persone incontrate nel mondo non erano autorizzate ad entrare, ora, prepotente, irrompe nel gioco col ruolo di elemento visivo e sonoro importantissimo per la tua identificazione come persona.
Ne va della tua credibilità: non puoi più dire qualcosa, vestire qualcos’altro e presentarti al mondo con uno sfondo che non confermi l’autenticità delle tue idee e della tua immagine. Il tuo con-testo deve necessasriamente esibire, tramite elementi visibili e/o sonori, l’autenticità di chi dici di (voler) essere e la profonda concordanza tra il tuo apparire e la tua privacy.
Questa situazione generata dall’impossibilità di incontrarsi di persona potrebbe quindi, di primo acchito, sembrare il trionfo dell’esteriorità se non fosse che l’interiorità, quella vera e riflessa dal tuo ambiente e dai gesti che in esso quotidianamente compi, prepotente esce fuori e può uccidere la tua immagine o rafforzarla. L’autenticità finalmente paga, almeno fintanto che non si diffonderà l’uso sapiente di fake background peraltro già disponibili in rete.
Fino a ieri il vestito poteva aiutare a mentire, ad apparire ciò che si desiderava essere, nascondendo ciò che veramente si era. Invece in questa fase, e fintanto che non impareremo ad adulterare i nostri ambienti, il tuo sfondo ti definisce ancora di più di ciò che indossi. Anzi, indossi proprio il tuo ambiente, mentre il vestito propriamente detto viene quasi declassato al ruolo di biancheria intima, ciò che si mette sotto.
Assomiglieremo tutti a lumache bipedi impegnate a portare sul groppone, in giro per il mondo, la propria abitazione: lo sfondo inscindibile alle spalle della nostra immagine virtuale che, forse mai prima di questo momento, è apparsa così reale.
SZ