ADENINA, TIAMINA, CITOSINA, GUANINA, CHIOCCIOLINA
C’è stato un periodo in cui, nonostante i primi vagiti del web e l’assenza totale di social, ho avuto una notevole esposizione mediatica.
All’epoca – parlo del ’98-’99: poco prima della reale esplosione di internet – suonavo spesso al fianco di un noto personaggio dello spettacolo e questo mi ha dato l’opportunità di esibirmi su palchi prestigiosi e sui canali televisivi più seguiti.
Capitava, allora, di venir spesso fermato per strada da sconosciuti interessati addirittura a possedere il mio autografo, a farsi una foto in mia compagnia o per la semplice e gentile voglia di comunicarmi che mi avevano visto in televisione.
Fu per me quindi un periodo di grande ubriacatura mediatica durante il quale venivo additato come uno oramai “arrivato”, dal futuro radioso, da vivere fra le divinità olimpiche dello spettacolo.
Una delle conseguenze di questo successo fu che mi ritrovai non so quante volte invitato a feste molto in nelle quali, a parte l’organizzatore o l’organizzatrice – si trattava spesso di qualcuno presentatomi pochi giorni prima da amicizie comuni – non conoscevo nessuno.
Questo/a lui/lei mi accoglieva con sorrisi e gesti eccessivamente affettati e poi mi conduceva a braccetto o addirittura, se l’ospite era un “lui”, cingendomi le spalle con un braccio così da ostentare un’inesistente confidenza maturata in chissà quali lunghi anni di rapporto d’amicizia, per inscenare, con un sorriso a 70 denti, una passerella gloriosa, da red carpet, quasi: lui/lei elegantissimo/a, io vestito male (“Non ti preoccupare! Tu sei un artista!”). Impossibile non notare un duo così! Impossibile non pensare: “Hai visto con chi è X? Conosce davvero tutti! Anche i più strani!”
Lungo il percorso, venivo presentato a quelli che evidentemente dovevano essere i suoi invitati più importanti, e dopo i primi convenevoli, una volta ottenuta da quelle persone una certa malsimulata ammirazione alla rivelazione del mio ruolo nel gruppo di quel personaggio famoso, rimanevo da solo, con addosso i miei stracci – lo ribadisco: ero davvero uno zaùrdo. Lo sono ancora, ma per mia fortuna Capitan Santors e i Gerebros hanno deciso che non sia più il caso di lasciarmi da solo a decidere cosa indossare – a girare tra fighetti impomatati e bamboline lignee.
Il mio ruolo, il mio apporto alla buona riuscita della festa era così esaurito. Allora mi prendevo giusto il tempo di ingozzarmi ben bene al buffet e andavo via per la mia strada, nella totale disattenzione di tutti i presenti presi da altri rituali.
Fu così che decisi di non tenere più attaccata alla cintura la fondina di cuoio nella quale sin da quando ero ragazzo alloggiavo la mia armonica. Dovevo verificare se senza quella appendice sulla quale veniva fatto collassare tutto il mio essere, privando così chiunque della possibilità di invitarmi insistentemente a esibirmi per confermare di essere proprio io quello che avevano visto in televisione o sentito alla radio (“Avàà! E mòvati e sòna ‘na cosa! Dai!”), sarei stato chiamato ancora dalle persone.
Da quel momento in poi, la maggior parte dei rapporti secchi si è magicamente auto-sfrondata e a continuare a chiamarmi furono soltanto vecchi, rodati amici e altri nuovi che, molto più autentici degli unti personaggi di prima, scoprendo di avere davvero qualcosa in comune con ciò che di me c’era oltre la musica, dimostravano di accettare la mia persona anche se lontana dalla sua armonica; anche se vestita male dentro e fuori.
Il passato ha tentacoli lunghissimi e ancora di tanto in tanto mi capita che mi presentino qualcuno il quale al mio classico “Piacere, (io sono) Angelo!”, replica “Ah, ma io ti conosco! Tu sei quello che suonava con …” e qui emerge che mi aveva visto in televisione con quel tal personaggio.
Quando capita, mi ritrovo a osservarmi attorno guardingo per cercare di cogliere ciò che io potrei essere l’unico a non sapere: mi aspetto di intravedere uno sguardo strano di qualche sconosciuta/o che ricorda quei miei trascorsi senza che io sappia alcunché di lei/lui. Una senzazione davvero strana e, non lo nego, a volte piacevole, ma che presenta anche risvolti alquanto inquietanti.
Tutto questo cappello iniziale fin qui mi è servito non solo per lasciare libero corso al flusso di ricordi che, almeno loro, possono venire fuori e correre liberi ovunque gli pare, ma anche per cercare di dare un’idea delle sensazioni che mi capita di registrare vivendo a contatto quotidiano, per me una novità: mai scritto così tanto, qui, prima – con questo mio blog.
La mattina, curioso, vado a guardare le statistiche aggiornate degli accessi a questo mio spazio, – un’operazione che si rivela utile anche per ridimensionarmi: scopro che è infatti un’operazione particolarmente utile a scongiurare, scoprendo che sono veramente poche le persone che mi seguono, il pericolo di subire incontrollabili inflazioni ipertrofiche del mio ego.
Dopo questo primo controllo del grezzo numero di accessi, passo all’analisi più fine – in realtà molto poco più fine – di quel dato. WordPress mi permette di sapere da quale nazione si connettono i miei pochi followers e come sono arrivati a quel particolare articolo. Guardando da anni simili dati, alla fine sono stato capace anche io di notare dei trend interessanti, capaci di descrivere un pubblico con gusti alquanto diversi da quelli di chi conosco, o che credo di conoscere, di persona.
Mi spiego. Mentre su Facebook so chi sono i miei interlocutori – avendo accesso a tutti o parte dei loro dati on-line, posso farmi un’idea abbastanza precisa delle loro preferenze, del loro aspetto fisico, di ciò che pensano, … – qui su Squid Zoup mi devo accontentare di sapere che qualcuno si è collegato da questa o quella nazione e che è arrivato seguendo un link trovato in Facebook, Twitter, Linkedin o per altra strada.
Il gioco è quindi completamente diverso da quello dei social: qui ti esponi, decidi tu fino a che livello, e altri guardano, soppesano, giudicano, … ma rimanendo sempre nell’ombra. Qualcuno ogni tanto decide di palesarsi, di metterci la faccia e, a volte, anche il pensiero, interagendo con te tramite un semplice apprezzamento, un like, o addirittura commentando per iscritto un tuo post (capita davvero di rado).
In ogni caso, si rimane isolati nel mentre si inscena uno strano outing, quasi si tratti di un interrogatorio a porte chiuse in cui interpreti anche la parte dell’inquirente cattivo che ti pone le domande.
Ti rispondi marzullianamente da solo, ma sai che i veri inquirenti sono lì a scrutarti da dietro il vetro oscurato della pagina del tuo blog. Li senti, sai che ci sono, ma potrebbero anche essere alieni o unicorni: tu non saprai mai che aspetto hanno davvero.
Lo so: succede anche a chi scrive un libro, recita in un film, registra un disco, … Sono tutte esperienze che, a vari livelli, ho vissuto anche io e proprio per questo mi sembra di poter dire che il blog è differente. Ciò che cambia è l’intimità creata dalla continuità con la quale comunichi. Una continuità che se diventa quotidianeità, mentre sei preso dalle tue abitudini, ti incasella a tua insaputa pure fra le abitudini di qualcuno che non conosci.
Osservando bene quelle statistiche, si ha modo di cogliere aspetti che servono a ridimensionare non solo te, ma anche il pubblico reale col quale pensi di rapportarti sui social.
Mentre, ad esempio, l’aver rimbalzato su Facebook un articolo che hai scritto qui, può fruttarti un successo da centinaia di like e cuoricini, gli accessi veri da quel social ti descrivono una situazione reale del tutto diversa: gli amici che, visto il tuo articolo su faccia-libro, dopo aver messo mi piace, hanno davvero cliccato su quel link sono una frazione decisamente esigua.
Come si interpreta questo dato? Beh, credo sia abbastanza semplice: su Facebook partecipi a una festa nella quale ti vengono fatti sorrisi sia dai soliti, veri amici che da conoscenti cortesi i quali decidono di regalarti una bella sensazione di vicinanza prima di passare oltre nel gran mare di post che lì si incontrano.
I primi non cliccano perché non hanno certo bisogno di leggere cosa scrivi per sapere chi sei e per continuare a volerti bene come hanno sempre fatto. A loro non frega niente di asronomia, sociologia e filosofia della scienza, armonica, jazz, musica classica, fumetto, illustrazione, letteratura, fantascienza, … Sono interessati solo a te perché gli sei simpatico, perché vi legano dei ricordi intensi, e va benissimo così.
I secondi, invece, conoscono bene le regole del bon ton virtual-sociale e sanno che attenersi a esse costa poca fatica. Magari davvero incuriosite da ciò che fai, si accorgono che quella curiosità arriva solo fino a un certo punto e preferiscono alimentare l’idea che di te si sono fatti piuttosto che metterla alla faticosa prova dell’approfondimento da compiere immergendosi nella lettura dei tuoi articoli, nella visione dei tuoi video, ecc.
Ci sta. È il gioco delle parti ed è un gioco al quale partecipi anche tu con atteggiamenti del tutto analoghi.
Bisogna poi considerare che coloro i quali leggono davvero da cima a fondo ciò che scrivi sono una frazione ancora minore di quelli che cliccano sul link. La lunghezza dei miei post di sicuro scoraggia molti avventori i quali si aspetterebbero di trovare in questo spazio articoli della stessa lunghezza di quelli che si trovano nella media degli altri blog.
Lo so, questo è considerato un difetto di Squid Zoup. Ne sono conscio e giuro che è così per una mia scelta consapevole: scrivo per farmi leggere, ma anche, forse soprattutto, per sfogarmi e rintuzzarmi lo stimolo a scrivere: una attività che mi appaga, ma che lo fa solo se a fine articolo mi regala la sensazione di avere detto tutto ciò che intendevo dire.
Se c’è un lettore del mio blog che davvero posso dire di conoscere, quello è di sicuro il suo autore e, sapendo con precisione che gusti ha, mi concentro su di lui tentando di soddisfare almeno la sua curiosità.
Un uno-a-uno che prevale sul comunque fondamentale ma cieco rapporto uno-a-molti che ho con i miei pochi, ignoti lettori.
Altra cosa interessante che emerge è che i post nei quali compaiono disegni hanno un impatto davvero notevole. Specie in questo periodo nel quale sto pian piano riprendendo a pubblicare illustrazioni veloci e vignette – a tal proposito, aspettatevi un’ulteriore impennata: intendo riprendere presto a pubblicare intere storie a fumetti di Squid Zoup! -, vedo schizzare gli accessi verso vette difficilmente raggiungibili dal solo testo di queste CRONACHE, ad esempio.
Forse faccio male a pensare che sia qualcosa di dipendente dalla diversa percezione di un disegno rispetto a un testo. È forse più probabile che, ancora una volta, sia solo ed esclusivamente un problema di lunghezza: in pochi tratti, e con poche battute scritte, una vignetta dice moltissimo.
Se esse sono ben congegnate, è possibile trovarvi tutto ciò che non viene esplicitato da un testo, breve o assente che sia: una caratteristica, questa, che rende il fumetto e l’illustrazione ottimi linguaggi per la rete nella quale è meglio che tutto sia veloce, immediato e poco mediato dall’attenzione che richiede invece un testo, specie se molto lungo.
Qui in Squid Zoup poi scopro che la mia musica non è molto apprezzata: i video musicali che dimostrano (?) di piacere molto altrove, ottengono qui un gradimento davvero basso, se non addirittura nullo. Sembra quasi che, nonostante prima io non pubblicassi molto, con quei radi post io abbia inconsapevolmente selezionato un pubblico molto più visivo e meno propenso all’ascolto, anche se si tratta di ascolti mediati dalla visione di un video.
Un trend, questo, che ha fatto registrare ben poche deviazioni. Una, in particolare, ha costituito a lungo un mistero: parlo del caso di un mio vecchio Aforisma musicale che è stato in vetta alla classifica dei post più (ri)letti per almeno un paio di anni.
Non passava giorno che qualcuno non gli desse un’occhiata, ma anche in questo caso sospetto che l’attenzione fosse più per il testo di commento che non per il video stesso e la musica che in esso producevo con la mia armonica.
Venendo all’oggi e ai misteri di questo periodo, ve ne è uno che invece mi intriga più di altri ed è il seguente: vedo che i miei post più, come dire, … sentimentali, quelli nei quali confesso cose molto personali che, giocoforza, probabilmente mi portano a usare toni e modi più letterari, riscuotono un successo enorme. Di contro, altri più tecnici vengono accolti tiepidamene facendo registrare sempre il solito minimo sindacale di accessi.
Una volta constatata questa verità statistica, la domanda è: “ma come mai avviene tutto ciò, specie tenendo conto che, ad esempio, i titoli di queste cronache ho iniziato a metterli solo pochi giorni fa?” La mia amica Antonella, una delle poche, vere lettrici di Squid Zoup che conosco, anche molto bene nella vita reale, pochi giorni fa mi faceva notare che i miei articoli, partendo sempre da un fatto particolare, poi si allargano come un fascio molto poco collimato (paragone di sicuro stimolatomi dal fatto che lei lavora al CERN) o come pallettoni partiti da un fucile da caccia, per andare a colpire pensieri in direzioni spesso non intuibili né dal titolo, né dalle prime battute.
Dal momento che le statistiche tengono conto di quanti sono gli accessi, ma ovviamente non dicono nulla circa le letture reali, non posso che trovare misterioso osservare che i miei lettori in qualche modo “percepiscono” la durezza tecnica di alcuni post o la morbidezza umanistica di altri, facendosi guidare da questa percezione nello scegliere cosa leggere e cosa no.
Verrebbe quasi da teorizzare l’esistenza di una specie di un improbabile tam-tam, di un passa-parola tra quei pochi followers (“lascia perdere, oggi: ha scritto uno di quei suoi pipponi tecnicistici. Domani ti dirò se è il caso di andare a leggerlo. Certi giorni è davvero pesante e insopportabile…”) che mi leggono spesso, anche se poi torno razionale e mi dico che, non essendo questo un social, il rapporto cieco esistente fra me e ognuno dei miei lettori deve in qualche modo esistere anche fra di loro.
Forse più semplicemente tutti guardano la home e da un’occhiata generica intuiscono il tono che possiede un particolare articolo. Uniche due possibile obiezioni a questa idea sono che 1) da quell’occhiata generica potrebbe non risultare così chiaro se l’articolo avrà un carattere tecnico (raramente pubblico calcoli o formule). Inoltre 2) è molto facile stabilire se si tratta di un articolo lungo o lunghissimo, ma questo non sembra scoraggiare chi ha gusti più umanistici il quale, se l’articolo ha quel carattere lì, lo affronta indipendentemente dal umero di righe che ho prodotto.
In conclusione, l’umanità che qui incontro, è capace con i suoi silenzi di dirmi moltissimo del comportamento del blocco di persone che conosco, moltissimo su come in generale vengo percepito e soprattutto, anche se ancora non sono riuscito a decifrarlo, moltissimo delle persone che incontravo per strada, sull’autobus, in pizzeria, … nel mondo.
L’unica differenza con quanto mi accadeva quando giravo come spalla del personaggio famoso di cui dicevo all’inizio di questo articolo, è che i miei lettori sanno poco del mio aspetto fisico. Ce ne sono tracce nei video che non amano guardare e questo si traduce in una bassa probabilità di sentirmi un giorno rispondere al mio “Piacere, Angelo!”, “Sì, lo so. Ti leggo su Squid Zoup!”.
Come non sospettare che nello stesso istante in cui all’inizio del nuovo secolo internet è diventato uno strumento efficace per intessere rapporti virtuali, siamo diventati gli animali solitari e isolati che solo oggi stiamo dimostrando di essere davvero grazie a questa reclusione strategica?
Forse abbiamo trascorso gli ultimi venti anni affogati nell’illusione di continuare a vivere in un modo che a ben vedere non ci si addiceva più del tutto.
Va a finire che questo ventennio è stata solo una lunga presa di coscienza della nostra vera natura. Una natura definitivamente mutata a partire dal momento stesso in cui abbiamo messo una chiocciolina, la nuova base azotata fondamentale per l’espressione del gene della solitudine, dopo lo username nome.cognome.
Il suo antidoto, la chiamata alle armi per risvegliarci da torpori solitari e convocare tutti su piazze virtuali, è l’hastag. Qualcosa di molto diverso dal vecchio, oramai datato, proclama urlato al megafono.
Ora mi produrrò in un ossimoro: buona ♯solitudine a tutti!
SZ
Dopo il delirio di un mese di lezioni online, da quelle con i miei alunni a quelle che vedono me come studente, sono iniziate le vacanze di Pasqua e posso, finalmente, dedicarmi, con maggior rilassamento, alla lettura.
Nel caso degli scritti di SquidZoup, ho capito che il titolo non è che l’inizio e che, per conoscerne il vero contenuto, dovrò avventurarmi, con cautela, all’interno di un labirinto fatto di sentieri profumati di mirto o di tasso (no, non quello del fumetto di qualche giorno fa 😉), dalle linee sinuose, più o meno tortuose, ricco di sorprese, ma anche di inciampi dovuti soprattutto alla mia scarsa conoscenza di alcuni argomenti trattati.
Ma è così, sono curiosa di natura e la difficoltà non mi frena, anzi, la maggior parte delle volte è un invito a proseguire in nuove scoperte.
Procedo inizialmente con l’entusiasmo della bambina sicura di sé, convinta di poterne uscire con facilità. A volte non è così e, nel corso della lettura, vengo assalita dalla paura di essermi persa, (aiuto!😱) nei meandri di cose troppo lontane ma proseguo, con fiducia, tenendo la mia mano appoggiata alla parete continua (dicono che sia uno dei metodi per uscire da un labirinto) fino a che, ad un certo punto, emerge un particolare, una parola, un dettaglio, una sfumatura che illumina questo mio camminare alla cieca. Finalmente posso sedermi a riprendere fiato su quella panchina provvidenziale, girando tra le mani quel frammento di conoscenza che riconosco come amico. Soddisfatta.
Non so, ogni volta, se e come riuscirò ad uscirne ma quando riesco a trovare il modo di produrre un pur semplice commento e a rilanciare indietro quel sassolino gettato nell’infinito web dallo scrittore stesso, capisco che l’avventura non è stata vana.
Per fortuna.
Accidenti, Patrizia! Grazie!!! La tua reazione e altri messaggi privati che alcuni amici mi hanno inviato mi stanno allarmando. Mi sembra, anzi, temo che il tono della mia cronaca di oggi potrebbe essere stato frainteso. Non voleva certo essere una condanna, una lamentela. Intendevo soltanto rendere pubbliche alcune considerazioni che, come le altre trenta fatte fino a ieri, mi capita di fare, di sicuro ispirato dalla reclusione forzata. Sono quasi sicuro che non sia stato questo il motivo per cui hai scritto la tua bellissima risposta, ma se lo fosse, non me lo perdonerei: viva la libertà, sempre e comunque! Preferisco ovviamente venire a sapere, come in questo caso, che oltre quello specchio c’è davvero qualcuno a leggermi, ma non mi perdonerei mai se l’attenzione fosse stata stimolata da una mia vera o presunta condanna mossa contro i “miei” lettori! Detto questo, sai che scrivi davvero bene? Dovresti aprirti un blog anche tu. Fossi in te, ci penserei…
Le cose sono andate proprio così… era già un po’ che volevo rispondere ad un tuo articolo e non riuscivo per colpa del poco tempo a disposizione (strano ma vero) o delle energie carenti.
Diciamo che lo scritto di oggi ha trovato terreno fertile.
Chi scrive lo fa per essere letto, se così non fosse sceglierebbe un quadernino da chiudere in un cassetto e non un blog.
Rispondere, commentare, lasciare un segno, è permettere che quello scritto si sviluppi dinamicamente prendendo la forma dell’occhio (altro) che lo legge, della mente che lo soppesa e ne estrae elementi da rendere propri e rimandare indietro in nuova veste.
In quanto a tenere un mio blog 🤔 … è una cosa che potrei valutare anche se per adesso occuperebbe troppo del mio scarso tempo a disposizione.
Ho un progetto avviato che spero di concludere appena terminata questa quarantena… poi ti dirò!
Perfetto! Curioso, rimango in attesa. Grazie ancora, Patrizia! 🙂