
Message In A USBottle
Su Robinson di oggi, inserto culturale del quotidiano La Repubblica che ogni Domenica, a soli due giorni dall’uscita del patinato Il Venerdì (chiaramente non si tratta di una coincidenza), arricchisce il contenuto di quella testata, Gabriele Romagnoli ricorda che il 25 Aprile del lontano 1719 venne pubblicato il celebre romanzo di Defoe da cui prende il nome lo stesso inserto.
Un inserto che è un vero e proprio giornale nel giornale: infatti, ricco di più di trenta pagine, lo si può estrarre separandolo dal resto del quotidiano.
E io non mi lascio mai sfuggire questa occasione: avendo deciso da tempo di non interessarmi più alla cronaca, ad altre notizie da rotocalco che impazzano su giornali dal carattere oramai ambiguo e a tutto il chiacchiericcio politico in quanto, da cittadino, non mi sembra di avere più alcuna possibilità di incidere sul corso delle cose (1), focalizzo il mio interesse solo sugli articoli di Robinson e letteralmente butto tutto il resto.
Questo non fa di me un disinformato totale: i social e le edizoni on-line dei vari giornali mi consentono (impogono?) un quotidiano, anche se superficiale contatto con quanto accade nel mondo.
Un contatto, uno sfioramento che mi faccio bastare senza pretendere di più dalla mia testa che si rivela essere un contenitore molto limitato.
Ed è proprio per questa limitatezza della mia “capacità ritentiva” che alla Domenica decido di considerare diverse testate alla stregua di frutti da mondare: tolta la buccia cartacea che trovo non più digeribile, stopposa, dal sapore ripetitivo e e in definitiva inutile, “mangio” l’interno estremamente succoso facendo finta che quanto lì contenuto possa essere considerato indipendente dal contenitore.
Nel paginone iniziale dell’inserto di oggi, impreziosito da una illustrazione di Tullio Pericoli, Dario Olivero spiega perché mai lì in redazione abbiano scelto di chiamare quelle pagine centrali con il nome del protagonista del romanzo di Defoe.
Di quella sua spiegazione voglio salvare alcuni passi, come ad esempio il seguente, che sento risuonare forte nelle mie corde:
“Tra il naufragio titanico negli abissi dell’inconscio di Moby Dick e lo sbarco epifanico nei cieli di Utopia di Gulliver, esiste un modo più umano di andar per mare: sopravvivere. Con gli strumenti della ragione, dell’intuito e dell’intelligenza”.
Sopravvivere.
In pratica si tratta proprio di ciò che ogni Domenica, non essendo né religioso, né tifoso, cerco di fare, spesso da solo. Se infatti non sei devoto a una squadra o a una religione rivelata, non avrai mai un circuito fisso di persone per te interessanti da frequentare con la regolarità che dona una omelia mattutina, un vespro, una processione, un derby…
Un problema che vivo da sempre: durante l’adolescenza le mie domeniche erano interminabili e andavano colmate con quelli che da hobby poi sono diventati lavori.
Se infatti il sabato sera avevo la possibilità di stare con gli amici, alla Domenica venivo tagliato del tutto fuori da qualsiasi occasione di socializzazione: io mi alzavo presto, i miei compagni dormivano fino all’ora di pranzo. Qualcuno di loro andava a messa ma tutti, religiosi o meno, nel primo pomeriggio sparivano dall’orizzonte, sincronicamente ingoiati dal gorgo delle partite da vedere allo stadio o da seguire alla radio e/o alla televisione.
Infine, giunta la Domenica sera, c’era il “necessario resoconto critico” (2) di tutti quegli incontri calcistici: un profluvio di concetti a mio parere molto noiosi, di improbabili interviste, di moviole da analizzare armati di strumenti balistici, geometrici, dinamici, … così evoluti e con grafiche così all’avanguardia da rendere onestamente molto difficile comprendere come mai la scienza nel nostro paese non abbia mai goduto l’appoggio di tanti sostenitori quanti sono i tifosi.
Insomma, la mia Domenica era ed è uno scoglio spesso disabitato sul quale organizzarmi, da naufrago, l’esistenza in attesa del Lunedì che da sempre arriva a salvarmi dalla crescente depressione (alla sera della Domenica raggiunge un livello definibile “da ricovero”) traghettandomi in soli cinque giorni sull’altra riva del continente amico chiamato “Venerdì e Sabato”.
Se quindi la dotazione per il raggiungimento della sopravvivenza di Crusoe era costituita da “logori strumenti di lavoro recuperati e pazientemente adattati”, i miei, e immagino lo siano anche di tanti altri, pur se meno concreti, non sono di certo meno salvifici: alla luce di quanto detto, nei fine settimana in cui non sono con mio figlio o con qualche amico in carne e ossa, i miei complici di sopravvivenza sono, libri, musiche, giornali, teatro, radio, cinema, nonché l’inserto Robinson, il Domenicale del Sole 24 Ore e ogni tanto qualche altro inserto di un paio di quotidiani nazionali.
Grazie a essi realizzo ciò che Olivero descrive quando afferma che “restare vivi è una cosa naturale come lo è passare dalla disperazione di un naufragio su un’isola deserta alla felicità di essere riuscito finalmente a costruirsi ciò che più gli mancava per sentirsi intero: una pipa da fumare davanti al mare godendosi la rinascita”.
Non fumo, ma ho comunque una serie di riti domenicali che danno un sapore netto e al contempo discreto alle piccole abitudini la cui esistenza e persistenza è cagionata dall’essere naufrago sull’isola… “domenicana”.
Riti come ad esempio il sacro gesto del lancio dei giornali nel cestino della carta che mi regala quella splendida sensazione di distacco, di libera scelta di non partecipare al solito gioco comunicativo, quello che vuole venderti l’idea di una res publica interessante, importante, fondamentale, imprescindibile nelle sue dinamiche economiche, politiche, religiose, …, a ben vedere sempre molto violente, angoscianti, urlanti.
Una scelta che fino a pochi anni fa avrei ripudiato con tutte le mie forze ritenendola irresponsabile, quasi da lotofago indegno di stare al cospetto del più attento dei naufraghi, e che oggi invece mi sembra una forma necessaria di resistenza.
Con un euro e cinquanta – un prezzo più che onesto, direi – compro un interessante inserto da leggere e la possibilità di compiere un atto di ribellione civile “efferatamente pacifico” da esercitare sulle restanti pagine del quotidiano.
Nell’articolo di Romagnoli si fa riferimento a tanti altri casi di naufràgi in chiave moderna mettendoli a confronto con quello “primigenio” del Crusoe, e se appare impossibile non citare il film Cast Away con Tom Hanks, non capisco come si faccia a non menzionare il più recente The Martian di Ridley Scott, interpretato da un bravissimo Matt Demon rimasto solo, nel film, a cavarsela come può sul suolo del pianeta rosso.
Sarà una deformazione professionale o di qualche altro tipo, ma da uomo del XXI secolo, leggendo di naufragi, ho connesso questo termine anche a tutta una serie di storie con eroi fantascientifici alle prese col problema di capire come sopravvivere su esopianeti inospitali, strani, esotici, difficili.
In qualche modo una simile dimenticanza (e se fosse stata voluta?) del Romagnoli può forse essere spiegata ipotizzando che quella di naufragare su un’isola deserta del nostro pianeta sia ancora una prospettiva persistentemente più vicina di qualunque altra al nostro sentire, al nostro “orizzonte degli eventi possibili”.
Questo nonostante la Terra si sia ridotta, come lo stesso autore dell’articolo fa notare, a “un puntino espandibile con il movimento di pollice e indice, fino a rivelare qualsiasi isola e scovare il fermo immagine di chi vi è approdato” (3).
Insomma, il messaggio di Cast Away sembra suonare come una minaccia, come una promessa o come una stuzzicante ed esotica ipotesi: “attenti tutti: qui sulla Terra può ancora capitare di perdersi”.
Ne deduco che nell’immaginario collettivo il naufrago non è (ancora) un astronauta, né un extracomunitario che si muove su una affollatissima imbarcazione per andare da un posto difficile e popoloso a un altro già occupato da gente non proprio benevola.
No, scorrendo il breve elenco stilato da Romagnoli, mi sembra di poter evincere che il naufrago contemporaneo sia un giovane hikikomori giapponese, un “Soldini della mente” alle prese con le burrasche del suo subconscio, perso nei suoi inestricabili mondi interiori e impossibile da salvare perché rinserrato nel suo “viaggio allucinante”, protetto dalle quattro mura della sua stanzetta asfittica. Mura che sono veri e propri baluardi contro l’irruzione del mondo esterno che, mai pago, spinge da fuori per invadere anche quella piccola sacca di silenzio.
In alternativa, sempre scorrendo l’elenco proposto nell’articolo, si scopre che un naufrago di oggi è ancora una specie di eroe romantico, perso come in Cast Away in luoghi disabitati o che decide scientemente di far perdere le proprie tracce così come fanno tanti manager di alto profilo e personaggi pubblici in cerca di una nuova dimensione del vivere in aperta contraddizione con il carattere della loro esistenza precedente.
Costoro, in preda a una forte crisi di valori o avendo realizzato di avere accumulato abbastanza danaro da essere in grado di coronare un sogno segreto (chissà, magari nato proprio leggendo Defoe…), lasciano metropoli affollatissime per rifugiarsi in isole lontane, ma non del tutto deserte.
Posti sulle mappe dove la cosiddetta civiltà fatica a completare il processo di omogeneizzazione di quei (non) luoghi ai suoi canoni, alle sue forme, alle sue consuetudini.
Nonostante tutto ciò, il fatto stesso che un film come quello di Ridley Scott abbia avuto un enorme successo di pubblico e critica, immagino apra all’ulteriore ipotesi che il perdersi nello spazio, in un posto buio, diverso e lontano da qui, abbia assunto agli occhi del pubblico una dimensione di quasi realtà, capace di spostare quella avventura dal mondo della fantasia pura a quello di una prospettiva prossima, in procinto di divenire reale, effettiva, esperibile.
Di sicuro vedere la storia del marziano Matt Damon fa sentire oggi un brivido diverso da quelli che la fantascienza di uno o due decenni fa regalava ai telespettatori: si ha la netta percezione che quella del film non sia più una remota prospettiva futura da riguardare soltanto come ipotesi lontana e fantascientifica; come mero topos narrativo.
Sarà un effetto dell’aver infarcito il film di notizie scientifiche una volta tanto corrette, sarà un effetto dell’estremo realismo raggiunto nella realizzazione di riprese ed effetti speciali, ma è evidente che, mai come oggi, la storia dell’astronauta naufragato sul quarto pianeta del Sistema Solare si approssima a diventare prospettiva reale, ipotesi di lavoro, futuro possibile.
Sorpreso, allora, del non aver letto The Martian nell’elenco stilato dal giornalista di La Repubblica – una dimenticanza (?) che non considero certo un errore, ma che sento di dover leggere come prezioso indizio sulle tendenze del pubblico così come interpretate da una persona che per mestiere osserva di continuo la società e le sue evoluzioni – non posso fare a meno di chiedermi: come verrà impostato tra dieci o venti anni un articolo simile, se mai verrà scritto dal Romagnoli di turno, allorché la frontiera dello spazio sarà alla portata di tutti?
Quale forma di naufragio verrà omessa dall’elenco?
Me lo chiedo dalla mia isoletta “Domenica di Pasqua” sperduta in un oceano oggi molto pacifico, disturbato solo da un profluvio di filmatini con uova colorate che si rompono nel mio whatsapp rivelando la presenza all’interno di pulcini la cui unica ragione di esistere pare sia dirmi con vocine stridule “Buona Pasqua!”.
Da qui, nel ruolo di hikikomori italiano forzato a esserlo da una festa che non sento mia, affido la bottiglia contenente questo post alle onde della rete.
Perché lo faccio? Perché decido di inquinare il nostro oceano virtuale?
Perché, rubando un’ultima volta la voce ad Olivero:
“Il sogno di un’isola dove trovare pace per la nostra buona ma spesso frustrata volontà è un sogno comune. (…) Il sogno di un’isola dove radunare tutte le isole che si sentono solitarie, depresse, disperse è la nostra idea di cultura comune”.
Chissà se un giorno le notizie mi sembreranno così tanto degne da farmi apparire ogni giornale all’altezza del suo inserto migliore e da non spingermi a buttarne via la buccia indigeribile.
Così da non farmi desiderare di naufragare nelle sole pagine centrali che, al di là di tutte le considerazioni precedenti, sono uno stagno nel quale è amaro doverlo fare.
Quella sì sarebbe per me una vera resurrezione!
SZ
1- non parlatemi di voto: non so proprio a chi darlo. No. Non è una richiesta di suggerimenti…
2- spesso reiterato il giorno dopo, sottoforma di “Processo del Lunedì”, usando argomenti del tutto simili ma pronunciati da persone diverse;
3- tra l’altro, si tratta di approdi mappati proprio di recente in un bellissimo libro intitolato Atlante delle isole remote: una pubblicazione moderna dal forte sapore antico, falsamente polveroso e raro, frutto di una sapiente scelta grafica della casa editrice Bompiani.