É stato da poco pubblicato un nuovo libro – un altro, nuovo libro – sul concetto di bellezza in matematica. Come sempre mi accade con pubblicazioni del genere, mi sono sentito compulsivamente chiamato a comprarlo e a leggerlo, ritenendo poi mio compito, addirittura, parlarne qui.
A questo punto direi che c’è un problema che non è di certo l’eccesso di pubblicazioni sulla bellezza della matematica o sullo stretto rapporto tra l’estetica e il pensiero matematico. Spero, anzi, che continuino a venir pubblicati simili inviti a riguardare matematica e arte da persone capaci di diluire la sottile linea di confine fra i due ambiti fino a farla sparire del tutto.
Il problema, invece, credo stia nella quasi totale assenza di libri sulla bellezza della scienza in generale e sui rapporti tra estetica e pensiero scientifico ampiamente inteso. Possiedo vari libri con questo carattere, ma purtroppo non sono pubblicazioni recenti. Credo ci si a un gran bisogno di nuove idee, di nuovi punti di vista anche su simili tematiche, quindi auspico l’uscita di testi che esaltino la bellezza di fisica, astrofisica, chimica, … mostrando la stretta parentela tra i modi di affrontare la realtà di scienziati e artisti.
Ma torniamo pure al libro, oggetto di questo post.
Si tratta di La fredda bellezza – dalla metafisica alla matematica, una raccolta minima pubblicata da Castelvecchi nella collana dal nome simpatico “(etcetera)“, interamente incentrata sul pensiero di André Weil e curata da un certo Nicolò Argentieri. La raccolta, dal titolo un po’ ruffiano (ricorda quello dell’ultimo film di Sorrentino “La grande bellezza” che tanto ha fatto parlare) non è del tutto nuova. Come viene specificato nell’introduzione, i testi scelti per questa edizione erano già presenti, ma non in italiano, nel volume contenente le opere complete di André Weil (Euvres Scientifiques, Collected Papers, Vol.1, Springer, New York 1979).
Purtroppo, pur avendo cercato in seconda, terza, quarta di copertina, non ho trovato traccia di informazioni circa il curatore. Una rapida indagine in rete forse mi ha permesso di identificare questo personaggio con un insegnante che si occupa anche di ricerca nel campo dei rapporti tra matematica e filosofia.
Direi che, chiunque egli sia, mi sta simpatico. Specie quando scopro che potrebbe essere quel Nicolò Argentieri che prova, con stile, a opporsi alle posizioni di un noto matematico il quale, non lo sapevo, ha anche un blog (oramai, pare, tutti ne abbiamo uno).
Lì, con la stessa granitica sicurezza che avevo trovato in un libro in cui il personaggio noto parlava di quelli che, secondo lui, sono coloro i quali fanno male alla scienza ostacolandola con azioni e pensieri (alla fine della lettura, gli indizi in mio possesso sembravano indicarmi proprio in lui e in quelli che gli somigliano i nemici principali), tuona contro questo e quello da una prospettiva che non potrà mai essere la mia.
Questa recensione a La fredda bellezza che, come tutte le recensioni, qui considero più un’occasione per parlare di ciò che mi interessa davvero, rischia di essere piuttosto un commento alla prefazione di Argentieri il quale mi ha offerto più di uno spunto di riflessione. Chiunque egli sia, gli sono grato anche per questo. Contestualmente, chiedo scusa a chi si aspetta solo una approfondita analisi del testo di Weil. Se decidessi di farla, ci sarebbe troppo da dire e mi trovo costretto a compiere una scelta. Mi limiterò quindi a parlare di una parte del libro, la prefazione, facendo qualche necessario riferimento agli scritti del grande matematico cui la prefazione fa riferimento. Per la recensione vera e propria, invito a leggere “Il Giornale di Astronomia”, trimestrale della Società Astronomica Italiana (S.A.It) per il quale abitualmente scrivo.
Intanto diciamo che il contenuto di questo agile libretto è davvero minimo: oltre allo scritto introduttivo di Argentieri, contiene solo due testi. Il primo è una lettera di André a sua sorella, Simone Weil, in cui tenta (o fa finta di tentare) di spiegarle – perché, pare, da lei insistemente stimolato a farlo – di cosa lui si occupi.
Nella prefazione viene quindi sintetizzata in poche righe la natura del rapporto controverso tra i due famosi intellettuali, tanto simili (da alcune parole della figlia di lui, riportate nel libro, sembra lo fossero anche da un punto di vista fisico, tanto da poter sembrare gemelli) e dall’evoluzione tanto differente.
Il curatore, a questo proposito, nota “il tono abbastanza sbrigativo di André, una sua forma di durezza e di snobismo intellettuale, un evidente difetto di empatia, tanto da poter ipotizzare che l’interesse di Simone per la matematica fosse connesso anche alla ricerca di un ponte emozionale, di una breccia per scalfire la dura armatura di quel fratello molto ammirato, molto amato, eppure spesso distante e severo”.
Ma entriamo nel vivo dell’argomento annunciato nel titolo. Dice il Weil: La matematica non è altro che un’arte, una specie di scultura in un materiale estremamente duro e resistente. (…) Ma l’opera che si produce è un’opera d’arte e per questo inesplicabile (essa sola è la spiegazione di se stessa). Tuttavia, se la critica d’arte è un genere vano e vuoto, la storia dell’arte è forse possibile: e non si è mai, che io sappia, esaminata la storia della matematica da questo punto di vista”.
Ritengo bellissima la sua definizione di matematica. Assieme ad altre dello stesso tenore in cui mi sono imbattuto qui e là, dovrebbero essere poste nella prima pagina di tutti i manuali scolastici e universitari di aritmetica, algebra, geometria, analisi.
Ma se la domanda di Weil – in realtà, ha tutta l’aria di essere un suo personale assioma camuffato da ipotesi di lavoro – “Se la critica d’arte è un genere vano e vuoto” fosse davvero una domanda, allora risponderei subito no. Non so come si possa affermare o anche solo pensare qualcosa del genere, ponendo addirittura un simile sospetto alla base di una serie di argomentazioni successive sull’arte e bollando secoli di pensiero critico.
Venendo questa considerazione da Weil – che, per il tono di alcune pagine della sua lettera alla sorella, mi ricorda un po’ il piglio vanesio e per me alquanto indigesto dell’Hardy di Apologia di un matematico – posso capire la natura della sua domanda retorica, e adeguarmi, preparandomi al prosieguo della lettura.
Mi sentirei invece di appoggiare la sua proposta di riconsiderare la storia della matematica, ma anche della scienza, come quella di un’arte particolare per la quale l’artista è, alle volte, proprio quell’ordine metafisico tipico del discorso matematico, mentre in altre diventa la Natura stessa nelle sue varie manifestazioni (e se ordine e Natura coincidessero? Forse non esiste migliore definizione di Dio. Un Dio laico, con un seguito di fedeli e clero definitivamente razionali).
A un certo punto, Argentieri parla di azioni necessarie da compiere “se si vuole provare a colmare la distanza che separa la matematica dalla sua immagine pubblica; se si vuole ridurre lo scarto, culturalmente avvilente, tra un ambito essenziale della nostra creatività e la sua inadeguata rappresentazione sociale” e la cosa mi fa un po’ sorridere.
Sì, perché scopro, solo perché ho notato per caso la presenza di ‘sto libretto (a causa delle ridotte dimensioni, sfugge facilmente a uno sguardo distratto degli scaffali delle librerie), che problemi con i quali da astronomo divulgatore combatto quotidianamente, accomunano anche nostri colleghi di altre discipline contigue.
Per carità: potevo intuirlo, ma a volte mi sembra che a lamentarci di poca attenzione siamo solo noi, fisici e astrofisici, mentre gli altri sembrano tutti soddisfatti del livello di attenzione che le loro materie ricevono dal grande pubblico. Ne deduco che il mio punto di vista risente del fatto che misuro tutto dalla mia posizione. Sono un lamentoso tolemaico.
Sarebbe furbo, oltreché bello, trovarsi tutti insieme, fisici, matematici, chimici, … per confessarci reciprocamente, in una sorta di outing accademico, questa incapacità di far breccia nell’immaginario collettivo sempre più distante da quello che nei dipartimenti di scientifici si fa davvero.
E quando Argentieri scopre che “quasi all’opposto, il senso comune – a volte anche quello più finemente informato – tende a confinare i risultati di una attività matematica in un confuso e indefinito territorio, il territorio della tecnica, tollerato con entusiasmo o a malincuore, in quanto esoterico produttore di strumenti e innovazioni indispensabili sul piano pratico (…) attività utili e degne di indiscutibile rispetto, ma che, tuttavia, possono essere serenamente ignorate perché ben poco hanno a che fare con la creatività, l’immaginazione e la produzione di cultura”, forse non si rende conto di dire qualcosa che ha lo stesso valore per tanti altri settori della cultura scientifica.
La matematica ancora attrae il pubblico col suo fascino metafisico (la stretta parentela tra matematica e metafisica è l’argomento del secondo testo di Weil contenuto nel libro) e sono sicuro che ancora vengono comprati molti libri di divulgazione di questa materia. Libri che, nella maggior parte dei casi, immagino traslochino dagli scaffali delle librerie alle mensole nei soggiorni degli acquirenti che quei libri non li leggeranno mai. Me li immagino tutti lì a compiere un acquisto, compulsivo anche il loro, che ha il solo valore di un tentativo estremo di riappacificazione con tristi fantasmi numerici del passato scolastico.
Tristi fantasmi che di solito genera la sola matematica e che non vengono evocati dalle altre materie scientifiche che si affrontano nel percorso di studi obbligatorio.

Numerofobia – Mia illustrazione apparsa per la prima volta nel trimestrale Sisssa News, house organ della SISSA di Trieste
Si spiegherebbe così il successo che diversi esponenti famosi di questa materia – forse quella che tra tutte, risulta al pubblico essere la più ostica – riscuotono facilmente presso il grande pubblico: Odifreddi, Cédric Villani, Andrew Wiles… Per non parlare poi di grandi personaggi come John Nash e Alan Turing le cui vite, fuori dal normale come lo erano anche le loro idee, sono diventate di recente film e storie a fumetti.
É per questa consapevolezza, anzi, per questo sospetto (purtroppo non ho dati numerici sui numeri delle vendite di opere di divulgazione matematica da mettere a confronto con quelli di libri di divulgazione di altre materie), che non me la sento di sottoscrivere quanto dice il curatore quando sostiene che divulgare la matematica sia più difficile che per altre materie.
Dice l’Argentieri:
“La ragione fondamentale di tale difficoltà è di ordine strettamente tecnico: la complessità concettuale e linguistica della matematica avanzata impedisce, di fatto, l’accesso alle grandi opere della sua storia (…). Queste opere (…) sono precluse ai non matematici. Non è così per altri campi dell’arte o della scienza. La cappella Sistina, le opere di Bach, le poesie di Leopardi sono immediatamene fruibili da tutti”.
E poco più oltre afferma che “in qualche modo è possibile riformulare ciò che la fisica ha scoperto perché possiamo indicare un oggetto del discorso riconoscibile anche mantenendosi all’esterno del linguaggio scientifico specialistico”.
Dissento. E lo faccio per vari motivi che vado a elencare. Il primo è che divulgare la matematica moderna presenta una certa sovrapposizione col problema di divulgare alcuni problemi della fisica moderna, e viceversa.
Non è possibile capire davvero cosa accada nel mondo subatomico senza un adeguato apparato matematico che molto ha da condividere con ciò che i matematici di oggi hanno elaborato.

Biomatica – Mia illustrazione apparsa per la prima volta sul trimestrale S.I.S.S.A. News, house-organ della SISSA di Trieste
A dimostrazione di ciò, vi è il fatto che un astrofisico che non si occupi specificamente di astrofisica nucleare, difficilmente si godrà la lettura degli articoli scientifici elaborati dai fisici dell’esperimento Atlas, solo per fare un esempio. Probabilmente, deciderà di farsi spiegare cosa viene fatto lì al CERN da un buon articolo divulgativo scritto da un srio giornalista scientifico.
Come già aveva intuito Dirac e come la stessa storia della scienza ci spiega, dietro il più astruso e apparentemente inutile teorema matematico, potenzialmente si celano tante spiegazioni di aspetti della Natura.
Di conseguenza, se vogliamo, il discorso matematico si diverte a muoversi libero in spazi n-dimensionali fino a implodere nello spazio a poche (da 4 a 11) dimensioni della fisica moderna non appena viene applicato a un problema fisico.
Quando poi dice che “possiamo indicare un oggetto del discorso riconoscibile anche mantenendosi all’esterno del linguaggio scientifico specialistico”, va a toccare un nervo scoperto della divulgazione. Parlando di particelle subatomiche, ad esempio, l’unico, vero strumento utile per il divulgatore che voglia far capire a grandi linee cosa accada davvero a quelle scale è la metafora.
Strumento utilissimo, quindi, ma anche estremamente insidioso, se non addirittura infido: la metafora, piuttosto che venir identificata dall’uditorio come una scorciatoia usata consapevolmente dal comunicatore per accompagnare chi ascolta fino al senso di una ricerca, viene spesso confusa con la realtà vera delle cose; con la spiegazione scientifica vera e propria. Da essa nascono tutta una serie di incomprensioni, falsi convincimenti, luoghi comuni e leggende sul mondo della ricerca e degli scienziati. Una serie di convincimenti che, essendo facili, maneggevoli, intriganti, pret-a porter, risultano difficilissimi da sradicare dalla visione pubblica della scienza.
Inoltre, la complessità lingustica di cui parla, è figlia di una equivalente complessità concettuale. La lingua evolve, cercando di accontentare le nuove esigenze rappresentative e non c’è dubbio che questo fenomeno accomuni tutti i campi dello scibile. Pur non sapendo molto di chimica, di genetica, di biochimica, … sono portato a immaginare che qualsiasi esperto di ognuno di quei campi potrebbe confermarmi quanto il lessico delle loro materie si sia complicato, allontanandosi sempre più dal livello di comprensibilità intuitiva che possedeva fino a soli cento anni fa.
Non a caso, per avvalorare ciò che dice, ll’Argentieri compie un raffronto tra le ultime scoperte matematiche e la Cappella Sistina, le opere di Bach e le poesie di Leopardi.
Weil nacque nel 1906 e morì nel 1998. Sarebbe stato più onesto o quantomeno opportuno attuare un raffronto tra le teorie matematiche del ‘900 con alcuni tipi di installazioni artistiche, con i quadri di Pollock, di Fontana, di Burri; con gli affreschi di Rivera, con i brani di Ligeti, di Xenakis o di Hindemith e con le poesie della neoavanguardia, ad esempio. Tutte opere che vivono in un iperuranio di incomprensibilità per la maggior parte dei tax-payers. Un iperuranio che condividono con molta, forse tutta la scienza del ‘900 e di questo primo assaggio di nuovo secolo.
A pensarci bene (o forse dovrei dire “a essere ottimisti”), se non fosse che sappiamo usare un ipad e sappiamo andare in rete, la cultura media di ognuno di noi potrebbe risultare essere adeguata a ciò che si sapeva nell’800. Io sono certo di avere un livello culturale che in alcuni campi è vergognosamente elementare, e non posso proprio farci nulla. La società a volte mi sembra arrancare, caracollando su sentieri aperti da innovatori che, nei loro rispettivi campi di interesse, si trovano a essere avanti di più di un secolo rispetto al mondo nel quale vivono.
Forse se ne rende conto anche lui, l’Argentieri, e nel prosieguo della sua prefazione sembra ravvedersi in corso d’opera quando, dopo qualche pagina, in un bellissimo passo, afferma:
“I nuovi, potentissimi strumenti concettuali creati per radicalizzare il carattere formale e astratto del linguaggio matematico spezzano definitivamente il legame tra la matematica e il mondo sensibile. Come l’arte delle avanguardie, la matematica novecentesca (ma l’impulso arriva dall’Ottocento) sembra ricavare l’origine e la necessità delle proprie creazioni dalla rescissione unilaterale del patto mimetico fra parola e cosa”
Ancora una volta (ne ho parlato nell’articolo Zibaldòn de Leblond), scopro utile rifarmi a quanto dice Jean-Marc Levy-Leblond nel suo Scienza e cultura, a proposito della divulgazione. Lì il fisico e filosofo francese invitava i comunicatori della scienza a non tentare di diffondere le ultime, avanguardistiche novità, impiegando piuttosto le energie per soffermarsi un tempo necessario e sufficiente sulle acquisizioni della scienza del passato. Quelle stesse che erroneamente tendiamo a ritenere di pubblico dominio, quindi banali, noiose e scontate.
Per capire quanto sia errata certa divulgazione, attuata da personaggi che tutto dovrebbero fare tranne che divulgare, basta proprio aprire due pagine a caso della lettera di Weil alla sorella riportata nel libro “La fredda bellezza”.
Si scopre facilmente che il grande scienziato, in questo caso, il grande matematico, spesso non possieda affatto gli strumenti per farsi capire. Il primo, il più prezioso e indispensabile di questi strumenti è la reale voglia di essere comprensibile. Un desiderio che possiamo chiamare “emergenza espressiva” per i più creativi e/o egocentrici tra gli scienziati, mentre per gli altri si tratta di reale e puro interesse per la diffusione delle idee.
Il Weil delle prime pagine del libretto qui in esame, e tutti i vari aspiranti Weil che pretendono di fare della divulgazione ritenendosi capaci di default di attuarla, sono quelli che mi sembrano comunicare solo la loro noia nello spiegare, condita a volte con un vacuo egocentrismo, il vero e malcelato desiderio di spiegare senza spiegare, di essere ostici per alimentare un’aura di genialità e di incomprensibilità.
Spero basti, a tal proposito, riportare solo una piccola parte della lettera di Weil alla sorella, per capire cosa significhi far finta di aver voglia di dire senza davvero dir nulla, oltretutto beandosi della propria inentellegibilità. Ad esempio, a pagina 33 di La fredda bellezza possiamo leggere:
Lo studio delle radici n-esime dell’unità e, come si direbbe oggi, la teoria di Galois per i corpi generati da queste radici e i loro sotto-corpi (il tutto senza usare nella scrittura gli immaginari, né altre funzioni a parte le trigonometriche, e giungendo alla condizione necessaria e sufficiente affinché l’n-agono regolare sia costruibile con riga e compasso) cosa che appariva come un’applicazione della definizione data all’inizio, come ipotesi preliminare per la soluzione delle congruenze, del gruppo moltiplicativo deo numeri di modulo m.
Un passo che alterna a fitte nebbie concettuali, frasi che danno a chi legge l’impressione di aver colto qualcosa che si sa, qualcosa che sia facile e intuitvo. “Diamine: sta solo cercando di dirmi come si disegna una figura geometrica col compasso!”. Dopo aver pensato questa frase che regala un attimo di fiducia in se stessi, si ripiomba nel forte sopsetto di non aver capito proprio nulla. A meno che l’interlocutore non sia un matematico di professione, dubito che si possa accrescere la propria conoscenza di una materia grazie a un discorso che trova la sua semplificazione massima proprio nel periodo precedente per voi volare ancora più in alto in altri punti della lettera.
Mi trovo invece del tutto d’accordo con l’Argentieri quando fa notare che negli scritti di Weil, “come in molte altre testimonianze che si potrebbero citare, si è colpiti dalla qualità dei sentimenti descritti e delle immagini evocate. Si parla di fatica, tormento, gioia indicibile. E poi inadeguatezza, sconforto, euforia. Pensare che la fredda andatura del pensiero matematico sia compatibile con questo genere di sensazioni è una circostanza che sorprende e sconcerta. Si tratta di stati d’animo normalmente associati all’attività creativa, alla fatica del dare forma, del portare all’esistenza qualcosa che prima non c’era”.
Ecco, nel tentativo di capire quali siano i legami tra agire scientifico e agire artistico, credo si debba partire proprio da qui: dai processi mentali e dalle sensazioni innescati nell’animo di chi a queste attività si dedica. Si scopre che al centro, tra arte e scienza, c’è sempre lui, l’uomo, comunque capace di trovare qualcosa per cui valga la pena di commuoversi ed emozionarsi.
SZ
http://www.castelvecchieditore.com/la-fredda-bellezza/
Sottofondo: Charlie Parker, Bird of Paradise